Il quantitative easing ha aiutato i capitalisti italiani a guadagnare redditi da capitale. Ma ha avuto effetti limitati sul credito nel nostro paese. E chi avrebbe avuto bisogno di credito a buon mercato è rimasto deluso
I mercati sono inquieti. Sebbene i sondaggi diano Marine Le Pen a oltre 20 punti di distanza dall’ex socialista Macron, a Parigi e Francoforte non si dormono sonni tranquilli, visti il precedente di Donald Trump, capace di scalare montagne simili e arrivare alla Casa Bianca. Ma i populismi di destra sono in crescita un po’ ovunque nei paesi “centrali” dell’eurozona e anche le elezioni olandesi tengono svegli gli investitori. Non si dorme tra due guanciali neppure a Milano, dove tra crisi bancarie e timori per i risultati d’Oltralpe la tensione è palpabile, anzi, quantificabile, in quei quasi 200 punti di spread che separano i nostri titoli di stato da quelli tedeschi. Niente di paragonabile alla crisi del 2011-2012, quando l’eurozona si trovò davvero sull’orlo della rottura, finché Mario Draghi non pronunciò la formula magica che oramai tutti conoscono “La BCE farà tutto quanto è necessario per preservare l’euro. E credetemi, sarà abbastanza”. Da quell’impegno solenne è nato poi il programma OMT e nel 2015 il Quantitative Easing.
Ma al di là del timore per la possibile vittoria della Le Pen che, oltre ad essere ancora improbabile, difficilmente porterebbe davvero all’uscita della Francia dall’euro (vincere le presidenziali non significa vincere le elezioni parlamentari e quindi controllare il governo), è più interessante capire come il Quantitative Easing ha indotto ad un rimescolamento delle carte nei movimenti di capitali in Europa. Per capire cosa sta accadendo conviene proprio riavvolgere il nastro Fino al luglio del 2012, vale a dire prima del “whatever it takes”, le banche estere hanno cercato di disfarsi dei titoli italiani, soprattutto pubblici, temendo la rottura dell’area euro e quindi il rischio della ridenominazione in lire del debito pubblico del nostro e di tutti i paesi periferici. A queste vendite si è poi accompagnato l’acquisto di attività “sicure”, principalmente titoli di stato tedeschi. Tutto ciò accadeva mentre il mercato interbancario era bloccato dalla sfiducia delle banche dei paesi centrali a concedere prestiti a quelle dei paesi periferici. Sicché la fuga dalle attività dei paesi periferici è stata mediata dal sistema Target 2 della BCE e i saldi T2 sono quindi diventati il termometro della frammentazione dell’eurozona e del timore di una sua rottura. All’apice della crisi il saldo positivo della Germania arrivò a 750 miliardi mentre quello negativo dell’Italia a 300. E’ stato proprio questo sistema a scongiurare la rottura prima del 2012, evitando quel che accade normalmente in questi casi quando si tratta di accordi di cambio fisso tra valute diverse, vale a dire la rottura dell’accordo di cambio e la svalutazione delle divise dei paesi da cui i capitali fuggono. Dopo luglio 2012 si assiste al movimento inverso. La fiducia torna grazie alla BCE, e quindi i titoli italiani sembrano di nuovo abbastanza sicuri. Inoltre rendono ben di più di quelli tedeschi e quindi attraggono investitori esteri. Le forbici del T2 e dello spread tornano a chiudersi e nei primi mesi del 2015 la fuga dai titoli pubblici italiani del 2011-2012 è stata pareggiata dall’afflusso in senso contrario.
Non tutti i problemi però sono stati risolti con il “whatever it takes”. Difatti la fuga dalle banche italiane è proseguita nei mesi successivi, riducendosi solo a partire dal primo trimestre 2013 e senza che i capitali rientrassero, anche se va detto che nel frattempo gli investitori si sono moderatamente interessati ai titoli privati del nostro paese.
Dopo luglio 2014 però i saldi Target 2 tornano nuovamente a crescere, in corrispondenza delle prime operazioni di espansione monetaria della BCE. Ma è con il Quantitative Easing, da maggio 2015, che i saldi debitori italiani tornano a schizzare in alto. Questo accade perché nell’ambito del QE la Banca d’Italia compra titoli di stato italiani (anche) da banche e altri investitori esteri, ad esempio tedeschi, i quali trasferiscono la liquidità così creata sui propri conti, nel nostro esempio in Germania. Così il saldo negativo T2 dell’Italia è schizzato a 360 miliardi, mentre il saldo attivo della Bundesbank sfiora gli 800 miliardi a gennaio 2017. Nel frattempo invece gli investitori italiani approfittano della liquidità creata dalla BCE per acquistare attività estere, come azioni e quote di fondi di investimento.
Come rileva Francesco Lenzi sul blog Econopoly del Sole 24 Ore, si tratta di un fenomeno molto diverso rispetto a quello del 2011-2012 che comporta diverse conseguenze tra cui una particolarmente sorprendente: l’Italia – i capitalisti italiani, si intende – sta guadagnando redditi da capitale, pur essendo un paese debitore, approfittando della liquidità a buon mercato della BCE per fare investimenti redditizi all’estero, cosicché i redditi da capitale in ingresso superano l’uscita dovuta al pagamento degli interessi, in discesa, sui nostri debiti.
Insomma, i saldi Target 2 non sono più un indicatore del pericolo di rottura dell’eurozona, ma un effetto del QE e delle decisioni di investimento dei nostri capitalisti. Al netto delle tensioni delle ultimissime settimane di cui accennavamo in apertura, che potrebbero rientrare o accentuarsi a seconda dei risultati del ciclo elettorale europeo di quest’anno, finora i capitali non stanno cercando di lucrare su una possibile rottura dell’eurozona, come accadeva fino al 2012. Se fosse così, vedremmo acquisti di massa di titoli di stato tedeschi (nel periodo 2008-2012 gli acquisti di Bund arrivarono a 330 miliardi di euro) o trasferimenti di denaro su conti bancari e depositi in Germania. Invece, spiega il blog del Sole, non si notano affatto questi afflussi. Semmai l’opposto, gli acquisti di titoli tedeschi dall’estero si sono ridotti e i depositi di non residenti in Germania hanno visto una ripresa molto modesta. Nel frattempo accade anche un altro fenomeno interessante: la Bundesbank ha aumentato significativamente l’emissione di banconote in eccesso rispetto alla quota assegnata dalla BCE, arrivando 327 miliardi a fine 2016 secondo i dati della stessa Buba. Il fenomeno è forse legato ai tassi di interesse negativi sulle riserve in eccesso e alla domanda di banconote cartacee come riserva di valore.
Riassumendo: da un lato gli stranieri disinvestono dai Btp italiani, vendendoli alla Banca d’Italia nell’ambito del QE e ottengono liquidità. Dall’altra gli investitori italiani non approfittano dell’alleggerimento quantitativo della BCE per comprare titoli o azioni italiane, ma investono per lo più in attività estere. In questo modo il QE ha limitati effetti sul credito nel nostro paese e chi avrebbe bisogno di credito a buon mercato rimane deluso, a parte quelle grandi imprese, come l’Eni, i cui titoli vengono acquistati dalla BCE nell’ambito del QE stesso.
Ciò non significa che il Quantitative Easing sia senza effetti positivi per noi. E’ un grosso vantaggio poter contare sulla banca centrale come acquirente dei titoli di stato per mantenere bassi i tassi e ridurre il costo del debito pubblico, precipitato negli ultimi anni proprio grazie all’espansione monetaria della BCE. Tuttavia occorre interrogarsi sul perché una non piccola parte dei soldi sparati in Italia dal bazooka di Draghi finisca altrove invece di venire reinvestita nel nostro paese.