Top menu

Scampia, una tragedia archiviata per “caldo”

C’era poca gente ai funerali delle vittime del crollo della Vela celeste di Scampia, per il grande caldo, certo, ma non mi pare che fossero molto presenti e partecipi le “superiori autorità”. E sarò curioso di sapere – ma ci penserà, speriamo, la magistratura – cosa sapranno dire i costruttori.

Fu, tanti anni fa, il grande poeta e intellettuale tedesco Hans Magnus Enzensberger a definire gli architetti i peggiori nemici dell’uomo odierno, costruttori di scatole-prigioni in cui rinchiuderli – e ci fu non molti anni fa chi avanzò la proposta che gli ideatori e costruttori di queste prigioni fossero costretti ad abitarvi… Eppure le Vele di Scampia, a Napoli, partirono sotto alcuni buoni segni: dare una casa a chi non l’avesse, o vivesse in situazioni decisamente poco vivibili – le casupole delle periferie,  i “bassi” dei vicoli cittadini, uno dei quali raccontato mirabilmente da Anna Maria Ortese in Il mare non bagna Napoli ( mi pare si intitolasse Gli occhiali nuovi, e parlava di una bambina molto miope che, quando finalmente le procurano degli occhiali, vede infine il mondo del suo vicolo com’è realmente, e ne è spaventata…). 

Il territorio su cui costruire un nuovo quartiere di grandi casamenti a molti piani, fu l’altopiano di Scampia, sopra Napoli. Molti architetti importanti misero mano al progetto, individuando (si può dire felicemente) la zona in cui costruire in una delle colline che attorniano il golfo, in alto sulla città, una zona tra le più salubri e luminose… La scelta del luogo – pur con i problemi che comportava, per esempio dei trasporti e in generale dei servizi – poteva venir considerata una scelta adeguata, felice. 

E però le enormi “gabbie” costruite dagli architetti più di avanguardia di tutti si rivelarono ben presto una beffa. Si trattava, né più né meno – di un nuovo ghetto, lontano dalle attività produttive e in cui si ammassarono i senza-casa, i richiedenti casa, preoccupandosi più della casa e della magnificenza del loro progetto –  chiamato “le Vele”, nientemeno – che del quartiere, cioè del contesto. 

Supplirono a questo, con una indomabile energia, alcuni gruppi cattolici (soprattutto quello intorno al gesuita padre Valletti) e alcuni gruppi di giovani volontari – come quello del Mammuth, fondato da un ostinato e concreto educatore, Giovanni Zoppoli, e che si è occupato in tutti questi anni soprattutto di bambini- e come quello fondato e animato da animose ragazze “Chi rom e chi no” che già da tempo si occupavano della minoranza rom malamente accampata ai margini del quartiere… E altri ancora. 

Ogni anno diventò rituale un grande spettacolo teatrale di ragazzini di Scampia, “Arrevuoto”,  scritto ed elaborato con loro dal gruppo delle Albe di Ravenna, coordinato dalla direzione del teatro Mercadante, il più ufficiale delle città, e da giovani teatranti napoletani capitanati da Maurizio Braucci. Non lontano di lì, nel vecchio quartiere-villaggio di Secondigliano, aveva operato per anni con i bambini, avviandoli piuttosto al disegno e alla pittura murale come uno dei modi di un’educazione civile, ma ricercandola nel metodo di lavoro, il gruppo attivissimo del Gridas, che un formidabile educatore aveva “specializzato” nella pittura murale. Arrevuoto è  ancora un appuntamento annuale importante, per un quartiere dove l’impostazione urbanistica chiude al mondo invece che ad aprirlo. E alcuni dei “ragazzini” del gruppo hanno fatto crescendo una loro strada, anche nell’editoria.

Insomma, anche se è più famoso per la guerra tra bande di spacciatori di qualche anno fa, Scampia non è una terra di nessuno. E’ popolata da giovani e meno giovani abitanti delle Vele e da un consistente numero di “volontari”, giovani e meno giovani, che salgono da Napoli e insieme a tanti giovani e meno giovani del posto rendono vivibile e “sociale” un luogo che apparentemente non lo è – essendo piuttosto una sorta di prigione sopra-elevata che non attrae gente di fuori salvo i volontari che sanno interagire col quartiere e inventare cose positive (e soprattutto lottando con loro e per loro) e una manciata di “malamente” che credono ancora di potervi trovare un terreno adatto ai loro traffici. 

Storicamente legato a molti operatori di Scampia (ho vissuto per molti anni a Napoli e conosco molti suoi abitanti e operatori) ho seguito anche io la tragedia recente con una forte partecipazione affettiva, e mi ha stupito che ai funerali dei morti di Scampia, quasi tutti appartenenti a una stessa famiglia, ci fosse così poca folla, così poca partecipazione. E pensare che, se non sono sceso come pensavo di fare, è perché gli amici del luogo prevedevano una “ressa mediatica” che avrebbe approfittato della partecipazione della città a un lutto sentito come proprio e comune, in qualche modo sconvolgente. 

C’era invece poca gente, ai funerali, e il grande caldo ha certamente spinto tanti a non muoversi, ma non mi pare che fossero molto presenti e partecipi le “superiori autorità”. E sarò curioso di sapere – ma ci penserà, speriamo, la magistratura a render noti ai pochi che saranno ancora interessati i risultati delle sue inchieste – cosa in quell’occasione, e davanti a una così fragile e manipolabile “opinione pubblica” rappresentata e in qualche modo anche guidata  dai giornali, sapranno dire i costruttori di Scampia. Abbiamo visto troppe volte rapidamente addormentarsi l’emozione pubblica di fronte a una pubblica tragedia, attirata da altre novità, e temiamo che possa succedere anche in questo caso. Ma per fortuna ci sono a Scampia gruppi e persone, abitanti e volontari, che non taceranno di fronte a nuove ingiustizie e a quella complicità interna alla classe dirigente che è, oggi, il peggiore dei mali di cui soffre il paese.