La spesa sanitaria pubblica in Italia è più bassa di quella degli altri grandi paesi europei. Eppure negli ultimi anni l’austerità nel settore sanitario ha imposto una correzione su base annua di circa 10 miliardi. Interventi ampi e frettolosi che inevitabilmente incidono anche sulla fornitura dei servizi
Che si debba ridurre la spesa pubblica è ormai un luogo comune, anche se è dimostrato da tanti studi che gli effetti recessivi che ne conseguono sono molto più gravi di quelli derivanti da aumenti delle entrate. Tuttavia tagliare la spesa sanitaria è ancora una scelta poco popolare. Così il governo Renzi con la legge di stabilità per il 2015 si è limitato a levare 4 miliardi alle regioni (art. 35), scaricando su queste ultime la responsabilità di decidere dove tagliare. Che importa poi se la sanità rappresenta più del 70% delle uscite delle regioni, e dunque dovrà essere colpita per forza. Infatti l’art. 39 della stessa legge di stabilità, che pure recepisce le cifre di finanziamento della sanità sulle quali era stato raggiunto l’accordo tra Governo e Regioni il 10 luglio scorso (Patto per la salute 2014-2016), segnala sommessamente che tali cifre potranno essere riviste a seguito dei tagli. In questo modo viene sostanzialmente calpestato un Patto che era stato il frutto di mesi di negoziati intergovernativi, ed era stato raggiunto dopo più di un anno e mezzo dalla scadenza del precedente. Del resto, da parte centrale era stata già inserita nell’accordo, subito dopo l’indicazione dell’importo del finanziamento previsto per la sanità (112,1 miliardi per il 2015 e 115, 4 per il 2016), l’inquietante condizione “salvo ulteriori modifiche che si rendessero necessarie in relazione al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica e a variazioni del quadro macroeconomico”, condizione sufficiente a mettere a repentaglio la principale conquista delle regioni, ovvero l’impostazione per cui, dopo anni di tagli, “I risparmi derivanti dall’applicazione delle misure contenute nel Patto rimangono nella disponibilità delle singole regioni per finalità sanitarie” (decisione peraltro un po’ beffardamente ribadita dalla legge di stabilità).
È stato più volte sottolineato che la spesa sanitaria pubblica in Italia è più bassa di quella degli altri grandi paesi europei: solo durante la crisi la quota ha superato il 7% del PIL, collocandosi al 7,1% nel 2012, contro il 9% della Francia, l’8,6% della Germania, il 7,8% del Regno Unito; anche gli Stati Uniti – un Paese con un sistema sanitario privato costosissimo -, arrivavano all’8%, secondo dati OCSE (http://www.oecd-ilibrary.org/social-issues-migration-health/data/oecd-health-statistics/system-of-health-accounts-health-expenditure-by-function_data-00349-en ); tra i membri di questa organizzazione l’Italia risulta essere peraltro uno di quelli che hanno avuto un incremento della spesa più limitato negli anni 2000 (http://www.oecd.org/newsroom/health-spending-continues-to-stagnate-says-oecd.htm ).
È stata d’altronde la stessa Ragioneria Generale dello Stato, nel Rapporto del 2013 su Le tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario (http://www.rgs.mef.gov.it/_Documenti/VERSIONE-I/Attivit–i/Spesa-soci/Attivita_di_previsione_RGS/2013/Le-tendenze-di-m_l-periodo-del-s_p_e-s_s-Rapporto_n14.pdf ), a sottolineare che dopo la metà degli anni 2000 si è verificato un vero e proprio cambio di paradigma, da un sistema con vincolo di bilancio soft ad una nuova responsabilizzazione delle regioni, grazie al meccanismo dei piani di rientro: infatti il tasso di crescita della spesa, pari al 7% circa tra il 2000 e il 2006, è calato al 2,5% tra il 2006 e il 2010 ed è stato addirittura negativo dal 2010 al 2013, mentre i disavanzi delle regioni che non avevano raggiunto l’equilibrio si sono drasticamente ridotti (http://www.rgs.mef.gov.it/_Documenti/VERSIONE-I/Attivit–i/Spesa-soci/Attivit-monitoraggio-RGS/2014/il_monitoraggio_del_sistema_sanitario.pdf ).
Negli ultimi anni infatti, ai piani di rientro e alle misure di contenimento dei costi nelle regioni in deficit si sono sovrapposti i tagli stabiliti dalle successive manovre, che hanno realizzato l’austerità nel settore sanitario imponendo una correzione su base annua di circa 10 miliardi. Sebbene alcuni provvedimenti siano stati mirati ad una riduzione degli sprechi e al miglioramento delle condizioni di acquisto di beni, servizi e prestazioni, è inevitabile che interventi così ampi e così frettolosi incidano anche sulla fornitura dei servizi.
Si percepiscono infatti i segnali di una aumentata difficoltà di accesso, sia fisico, sia economico. È soprattutto nei servizi di pronto soccorso che si evidenziano gli effetti del razionamento, come evidenziato anche dalla denuncia di alcuni sindacati medici, con pazienti che attendono a lungo in barella di ottenere un letto nel reparto (http://www.anaao.it/attivita.php?id=1731&anno=2014&mese=01 ). Del resto lo standard di posti letto continua a essere ridimensionato, anche se già nel 2007 avevamo un numero di posti per mille abitanti nettamente inferiore alla media UE28 (3,8 contro 5,6; nel 2011 il dato per l’Italia è 3,4, secondo dati EUROSTAT, http://epp.eurostat.ec.europa.eu/tgm/table.do?tab=table&init=1&language=en&pcode=tps00046&plugin=1 ). Né al ridimensionamento dei servizi ospedalieri ha corrisposto sinora un incremento dell’assistenza territoriale. Il blocco del turn-over nelle regioni in piano di rientro poi può rischiare di mettere a repentaglio la fornitura dei livelli essenziali di assistenza (come sottolineato anche dalla Corte dei Conti nel Rapporto 2013 sul coordinamento della finanza pubblica, http://www.corteconti.it/export/sites/portalecdc/_documenti/controllo/sezioni_riunite/sezioni_riunite_in_sede_di_controllo/2013/28_maggio_2013_rapporto_2013_finanza_pubblica.pdf ), tanto che si è deciso di alleggerirlo, ma in generale la politica del personale resta piuttosto rigida in molte regini, con tetti alla spesa e limitazioni alle assunzioni. Quanto all’accesso economico, da un lato si sono avuti la diminuzione dei redditi (il PIL pro-capite in termini reali dal 2009 è inferiore ai livelli del 2000, http://noi-italia.istat.it/index.php?id=7&L=0&user_100ind_pi1%5Bid_pagina%5D=91&cHash=fdd73a1b23d68030a42ffa4a6353cc95 ) e l’aumento della povertà assoluta (dal 4,1% del 2007 al 9,9% del 2013, secondo i dati Istat (http://www.istat.it/it/archivio/128371 ), dall’altro si è verificato, fino al 2012, un consistente incremento delle compartecipazioni alla spesa: i ticket sui farmaci sono raddoppiati tra il 2008 e il 2011 e ancora sono aumentati del 5,2% nell’anno successivo, quelli sulla specialistica e altre prestazioni sono cresciuti del 13,4% nel solo 2012 (http://www.corteconti.it/export/sites/portalecdc/_documenti/controllo/sezioni_riunite/sezioni_riunite_in_sede_di_controllo/2013/28_maggio_2013_rapporto_2013_finanza_pubblica.pdf ). Il cosiddetto “superticket” sulla specialistica ha provocato una riduzione dell’uso dei servizi pubblici – e di conseguenza delle entrate per il SSN – (Cislaghi & Sferrazza, 2013, Gli effetti della crisi economica e del super ticket sull’assistenza specialistica, AGENAS, http://www.agenas.it/images/agenas/monitoraggio/spesa_sanitaria/GliEffetti_del_superTicket.pdf), mentre ci sono evidenze di una diminuzione della domanda di farmaci nelle regioni che hanno accresciuto maggiormente i ticket (Costa et al., 2012, Gli indicatori di salute ai tempi della crisi in Italia, e&p, anno 36 (6) novembre-dicembre, http://www.epiprev.it/materiali/2012/EP6-2012/EP6_337_int2.pdf ). Secondo i dati EU-SILC (http://appsso.eurostat.ec.europa.eu/nui/show.do?dataset=hlth_silc_08&lang=en ), la percentuale di coloro che hanno dichiarato di aver rinunciato a visite mediche per motivi economici è aumentata significativamente negli anni della crisi, e il problema riguarda ormai il 10% degli appartenenti al primo quintile di reddito (il 20% con reddito più basso).
Eppure, si continua sulla strada dei tagli. Le politiche di austerità mostrano di non essere più compatibili con il mantenimento di un SSN che garantisca il diritto alla salute. Anche per questo è ora di ripensarle. E di fronte al rischio di espansione dell’epidemia del virus Ebola, che richiederebbe una rapida ristrutturazione di alcune reti logistiche e strutture sanitarie, bisogna pretendere innanzitutto che le relative spese, ove necessarie, fossero tenute al di fuori dei vincoli europei.