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Salvador Allende, mezzo secolo dopo

Lunedì 11 settembre 2023 una delegazione di Sbilanciamoci e della Cgil ha depositato un mazzo di fiori all’Ambasciata del Cile “in ricordo del sacrificio e della lotta per la democrazia del popolo cileno”. La delegazione è stata poi ricevuta dall’ambasciatore Ennio Vivaldi. Qui un ricordo di quel che avvenne allora.

Lunedì mattina 11 settembre 2023 una delegazione di Sbilanciamoci! (Giulio Marcon e Alfio Nicotra) e della CGIL (Stefania Breccia e Patrizio Potetti) ha depositato un mazzo di fiori all’Ambasciata del Cile: “11 settembre 1973-11 settembre 2023: in ricordo del sacrificio e della lotta per la democrazia del popolo cileno”. Successivamente la delegazione è stata ricevuta dall’ambasciatore del Cile in Italia, Ennio Vivaldi.

A cinquant’anni dal colpo di stato fascista di Pinochet che ha causato decine di migliaia di morti tra la popolazione e i democratici cileni è sempre dovere di tutti ricordare la resistenza e la lotta del popolo cileno contro una dittatura sanguinosa che ha spento la democrazia e i diritti per tanti anni.

Abbracciamo le famiglie cilene che hanno perso i loro cari assassinati dal regime di Pinochet, torturati e morti nelle prigioni, perseguitati dall’inaudita violenza della dittatura fascista.

Siamo stati e saremo sempre a fianco del popolo cileno e delle sue istituzioni democratiche nel ricordo della barbarie fascista di 50 anni fa e nell’impegno quotidiano portato avanti per la convivenza, la pace, la solidarietà, l’unità del popolo contro ogni dittatura e violazione dei diritti umani.

Di seguito la riflessione e il ricordo degli eventi di 50 anni fa di Guglielmo Ragozzino:

A Firenze, il 19-20-21 luglio 1974 era in corso il 1° Congresso nazionale del partito di unità proletaria. Poco prima si era svolto il congresso di scioglimento del manifesto (Roma, Eur, 12-14 luglio). Intenzione manifesta di entrambi i partiti era di unirsi, per far fronte agli attacchi del capitalismo, interno e internazionale. La sinistra italiana aveva imparato la lezione del Cile e attribuito la sconfitta del governo legittimo e la tragedia dell’11 settembre 1973, con il golpe dell’esercito e la morte del presidente Salvador Allende, anche e soprattutto alla disunione della sinistra. Il nostro ’74, in Italia, era quello del rimpianto per la sconfitta e per l’immagine della rivincita, possibilmente senza spargimento di altro sangue, al canto accorato, nostalgico, degli Inti Illimani: “El Pueblo unido jamàs serà vencido”. Sulla bomba di Brescia del 28 maggio del 1974, due mesi prima, pochi cenni; la campagna per lo scioglimento del Msi era solo un auspicio di pochi.

Di questa appassionata discussione, un po’ tardiva, se vogliamo, rimane un problema aperto, senza  soluzioni facili. Sarà un’alleanza di sinistra a prendere il potere, o a difendere un governo nostro, oppure servirà una preventiva selezione tra i compagni di buona tempra e i compagni così così per evitare tradimenti e passi indietro o di fianco? 

C’è però un altro episodio che rende il tema, anche più centrale. Poche settimane dopo la morte di Allende, il segretario del Pci, Enrico Berlinguer, propone esplicitamente in tre articoli pubblicati dal settimanale del suo partito, Rinascita (28 settembre 1973, 5 ottobre, 12 ottobre) un compromesso storico alla Democrazia cristiana, spiegando ai compagni che si tratta di un percorso obbligato per salvare la democrazia italiana, proprio riflettendo, politicamente, sui casi cileni. Così al Pdup, e in sott’ordine al Manifesto, più che rimpiangere Allende e la democrazia cilena corre l’obbligo di fare congressi e ordini del giorno, per dichiararsi contro (o a favore del) il compromesso storico, con annessi e connessi.

Senza frapporre altri indugi vorremmo qui di seguito ricordare: a) la morte coraggiosa e disperata di Allende dopo i tre anni scarsi di presidenza; b) il ruolo dell’imperialismo americano –  lo si chiamava così, allora e tutti capivamo – con in testa Nixon, la Cia e Kissiger; c) gli articoli di Enrico Berlinguer nel suo tentativo di liberare una nuova politica adatta ai tempi e un po’ più democratica; e d) le capriole senza ritegno di noi poveri guitti per lasciare soltanto a invitati fuoriusciti cileni del Mapu e del Mir il compito di parlare di Allende e Unidad Popular e prendere – o non prendere – le distanze dallo scritto di Berlinguer. 

A) Come è morto Allende? Certamente è morto durante l’assalto dei militari golpisti al Palazzo della Moneda, sede della Presidenza; ed è morto con le armi in pugno. Ma si è suicidato per togliersi dalle mani dei generali felloni e per impedire che facessero uno scambio del suo corpo con qualche altra menzogna, oppure è caduto sotto i colpi di un generale nemico? La prima ipotesi è sostenuta dalla famiglia, che però non ha potuto vedere, per le ignobili ferite, il corpo dell’amatissimo presidente, e anche dal suo medico, da alcuni amici. La seconda è sostenuta invece da Gabriel Garcia Marquez e da Pablo Neruda. Questi scrive così: 

“Immediatamente dopo il bombardamento aereo entrarono in azione i carri armati, molti carri armati a lottare intrepidamente contro un sol uomo: il presidente della repubblica del Cile, Salvador Allende, che li aspettava nel suo ufficio, senza altra compagnia che il suo grande cuore, avvolto dal fumo e dalla fiamme. Dovevano approfittare di un’occasione così bella. Bisognava mitragliarlo perché non si sarebbe mai dimesso dalla sua carica”. (P. N. “Confesso che ho vissuto” Oscar Mondadori, 1975)

Più dettagliato il racconto di Garcia Marquez nel suo testo sulla “La vera morte di un presidente”.

«Resistette per sei ore, impugnando il mitra che gli aveva regalato Fidel Castro, fu la prima arma che Salvador Allende usò in vita sua. Il giornalista Augusto Olivares che rimase al suo fianco sino alla fine, ricevette numerose ferite e morì dissanguato in un ambulatorio pubblico. Verso le quattro del pomeriggio, il generale di divisione Javier Palacios, riuscì ad occupare il secondo piano, con il suo aiutante capitano Gallardo e un gruppo di ufficiali. Lì, tra le poltrone finto Luigi XV, il vasellame di dragoni cinesi e i quadri di Rugenda del salone rosso, Salvador Allende stava aspettandoli. Aveva un casco da minatore, stava in maniche di camicia, senza cravatta e con i vestiti macchiati di sangue. Impugnava il mitra. Allende conosceva il generale Palacios. Pochi giorni prima aveva detto ad Augusto Olivares che quello era un uomo pericoloso, perché manteneva stretti contatti con l’ambasciata degli Stati Uniti. Come lo vide apparire dalla scalinata, Allende gridò: “Traditore!” e gli riuscì di ferirlo ad una mano. Allende morì a seguito dello scambio di raffiche con questa pattuglia. Poi, tutti gli ufficiali, quasi seguendo un rito di casta, spararono sul suo corpo. Alla fine, un ufficiale lo sfigurò con il calcio di un fucile. Esiste una fotografia: la scattò il fotografo Juan Enrique Lira, del giornale El Mercurio, l’unico autorizzato a fotografare il cadavere. Era tanto sfigurato che, alla signora Hortensia, sua moglie, mostrarono il corpo solo quando stava nella bara. E non permisero che scoprisse il volto».

B) I casi del Cile erano una preoccupazione di primo grado per il governo Usa. Il timore era di perdere una altra porzione di America Latina che dai tempi della dottrina di Monroe, interpretata in senso espansivo, a Washington pensavano fosse roba loro, il cortile di casa, dopo aver perso la Cuba di Fidel. Nel 1970 Nixon, Kissinger, la Cia e compagnia bella si trovarono di fronte le elezioni presidenziali cilene. Elezioni democratiche; si vince con la maggioranza assoluta e se nessuno la raggiunge c’è uno spareggio in parlamento tra le due persone più votate. Questo il voto del Cile alla fine del 1970: Allende 1.066.372, pari al 36,29%; Alessandri 1.055.863 voti, pari al 35,76%; Tomic 821.350 voti, pari al 27,95%. Allende era votato da una coalizione, Unidad Popular, Alessandri dalla destra, Tomic dai cristiano popolari che in parlamento, allo spareggio, votarono per Allende, che poteva così, nella discussione subito aperta, rivendicare la maggioranza assoluta.

L’interesse principale Usa in Cile era, in definitiva, il rame. Lo scontro con Allende divenne drammatico quando apparve chiaro che questi avrebbe completato la nazionalizzazione del settore, già avviata per il 51% da Eduardo Frei, senza indennizzi per le imprese straniere.

Non era tutto. Allende aveva altri progetti: completare la riforma agraria, avviata anch’essa da Frei, far funzionare il sistema sanitario e il sistema scolastico. Un punto assai significativo nella politica del presidente fu la scelta di dare il latte gratis a tutti i bambini.

Erano politiche generose, spesso velleitarie, che non potevano piacere al potente alleato/protettore del nord. L’inflazione, del 46% nel 1964, scese al 31 nel 1970, per risalire al 350% nel 1973. Il Pil che era l’11% nel 1966, scese al -1% nel 1972 e al -5% nel 1973. Si sviluppò così un’opera di discredito e di sabotaggio contro Allende, considerato responsabile di tutto, sciopero del camionisti compreso; furono portati colpi tanto nella politica economica internazionale, nell’export-import e relativi prezzi, del rame e dell’insieme delle derrate indispensabili, quanto, in patria, con sobillazione di camionisti, dipendenti pubblici e soprattutto apparato militare. Il nome più noto tra quelli che si fecero allora era quello della compagnia Itt che per difendere il proprio capitale di comunicazioni in pericolo, era disposta a finanziare gli attentati. In Europa la sinistra era fiduciosa – chissà poi perché – nella “lealtà democratica” dei militari cileni. Si sosteneva che “non avrebbero mai, a differenza di altri eserciti latinoamericani, partecipato o architettato un golpe contro il governo legittimo”..

Il Messaggio di Salvador Allende che ha accompagnato il Progetto di Nazionalizzazione del Rame, denunciò però che “le quattro grandi imprese nordamericane, che hanno sfruttato in Cile queste ricchezze, ne hanno ottenuto, negli ultimi 60 anni, entrate per la somma di 10.800 milioni di dollari”. 

Le quattro imprese erano El Teniente appartenente alla Kennecott e tutte le altre tre di Anaconda: Chuquicamata, Salvador, Exotica. Ma Allende prosegue:

“Se consideriamo che il patrimonio nazionale ottenuto in 400 anni dei sforzi, ammonta a circa 10.500 milioni di dollari, possiamo concludere che in poco più di mezzo secolo questi monopoli nordamericani hanno levato dal Cile il valore equivalente a tutto quanto creato dai suoi concittadini in industrie, strade, porti, abitazioni, scuole, ospedali, commercio, etc., durante tutta la sua storia”. Così prosegue la vulgata:

“Quanto alla lealtà democratica dell’esercito cileno, esso era garantito anche dalla presenza di due generali Schneider e Prats. Il primo René Schneider era capo dell’esercito e fu ucciso in un attentato già nell’ottobre del 1970, prima che Allende entrasse in carica. 

Questo incidente e la sua morte provocarono l’indignazione nazionale, e il 25 ottobre cittadini e militari appoggiarono Allende appena eletto come Presidente, la cui carica fu ratificata dal Congresso Nazionale il 24 ottobre. 

Il 26 ottobre 1970, il presidente Eduardo Frei Montalva, nominò per sostituirlo il generale Carlos Prats come comandante in capo dell’Esercito”. 

 Quanto a Prats, Allende ne fece il suo collaboratore principale, anche al governo, finché la ribellione degli altri ufficiali, operata perfino attraverso l’assedio delle mogli degli ufficiali stessi alla sua casa non obbligò Prats a dare le dimissioni. Era il 9 agosto 1973. Allende lo sostituì come capo dell’esercito con il suo numero due, Augusto Pinochet. Prats sarebbe poi saltato per aria il 30 settembre 1974 a Buenos Aires, poco più di un anno dopo l’assalto dei golpisti alla Moneda di Allende, per una potente bomba nell’auto, una Fiat 125. Con lui saltò per aria anche la moglie Sofia Cuthbert.

C) Berlinguer scrive su Rinascita 

Pochi giorni dopo i fatti di Santiago e l’assassinio di Allende. Il segretario del Partito comunista italiano, Enrico Berlinguer scrive tre lunghi articoli sul settimanale del partito, Rinascita, mettendo in chiaro quella che ritiene sia la giusta linea del Pci e il suo programma di alleanze politiche e sociali. Nel primo articolo indica la prepotenza dell’imperialismo americano, responsabile effettivo del golpe cileno; nel secondo spiega il ruolo tenuto dal Pci nel ridare, vinto il fascismo, vita alla democrazia e alle necessarie alleanze; nel terzo articolo indica la politica futura del partito, come saranno le indispensabili e nuove alleanze sociali e politiche per raggiungere il governo del paese.

Primo articolo, 28 settembre 1973  “Gli avvenimenti cileni sono (…) un dramma per milioni di uomini sparsi in tutti i continenti. (…) Si tratta di un fatto di portata mondiale, che propone interrogativi i quali appassionano i combattenti della democrazia in ogni paese e muovono alla riflessione”. (…) Un colpo che si ripercuote sul movimento di liberazione e di emancipazione dei popoli latino-americani e sull’intero movimento operaio e democratico mondiale; e come tale è sentito anche in Italia dai comunisti, dai socialisti, dalle masse lavoratrici, da tutti i democratici e antifascisti”. 

Non reagiremo con lo scoramento – afferma Berlinguer – o solo con la deprecazione e la collera, ma cercheremo di trarre un ammaestramento. “In questo caso l’ammaestramento tocca direttamente masse sterminate della popolazione mondiale (… ) Anzitutto, gli eventi cileni estendono la consapevolezza, contro ogni illusione, che i caratteri dell’imperialismo, e di quello nord-americano in particolare, restano (…) lo spirito di aggressione e di conquista, la tendenza a opprimere i popoli. In secondo luogo, gli avvenimenti in Cile mettono in piena evidenza chi sono e dove stanno nei paesi del cosiddetto «mondo libero», i nemici della democrazia. L’opinione pubblica di questi paesi, bombardata da anni e da decenni da una propaganda che addita nel movimento operaio, nei socialisti e nei comunisti i nemici della democrazia, ha oggi davanti a sé una nuova lampante prova che le classi dominanti borghesi e i partiti che le rappresentano (…) sono pronti a distruggere ogni libertà (…) quando sono colpiti o minacciati i propri privilegi e il proprio potere.

Compito dei comunisti e di tutti i combattenti per la causa del progresso democratico e della liberazione dei popoli è di (…) richiamare la vigile attenzione di tutti sui percoli che l’imperialismo e le classi dominanti borghesi fanno correre alla libertà dei popoli e all’indipendenza delle nazioni (…

…) nel corso della guerra di liberazione si era creata una unità (…) che si estendeva dal proletario, dai contadini, da vasti strati della piccola borghesia fino a gruppi della media borghesia progressiva, a gran parte del movimento cattolico di massa e anche a formazioni e quadri delle forze armate”

Secondo articolo, 5 ottobre 1973: Abbiamo vinto la lotta per la democrazia, riflette Berlinguer.  Abbiamo salvato l’Italia. Ora dobbiamo proseguire. «Noi eravamo stati in prima fila tra i promotori, organizzatori e dirigenti di questa unità, che possedeva un suo programma di rinnovamento di tutta la vita del paese (…) La nostra politica consistette nel lottare in modo aperto e coerente per questa soluzione, la quale comportava uno sviluppo democratico e un rinnovamento sociale orientati nella direzione del socialismo. Non è, dunque, che noi dovessimo fare una scelta tra la via di una insurrezione legata alla prospettiva di una sconfitta, e una via di evoluzione tranquilla, priva di asprezze e di rischi. La via aperta davanti a noi era una sola, dettata dalle circostanze oggettive, dalle vittorie riportate combattendo e dalla unità e dai programmi sorti nella lotta. Si trattava di guidare e spingere avanti, sforzandosi di superare e spezzare tutti gli ostacoli e le resistenze, un movimento reale di massa, che usciva vittorioso dalle prove di una guerra civile. Questo era il compito più rivoluzionario che allora si ponesse, e per adempierlo, concentrammo le forze». Così Togliatti si esprimeva in quella magistrale sintesi della nostra politica con la quale aprì il rapporto presentato al X Congresso del partito.

Abbiamo sempre saputo e sappiamo che l’avanzata delle classi lavoratrici e della democrazia sarà contrastata con tutti i mezzi possibili dai gruppi sociali dominanti e dai loro apparati di potere. (….) Ma quale conclusione dobbiamo trarre da questa consapevolezza? Forse quella, proposta da certi sciagurati, di abbandonare il terreno democratico e unitario per scegliere un’altra strategia fatta di fumisteria, ma della quale è comunque chiarissimo l’esito rapido e inevitabile di un isolamento dell’avanguardia e della sua sconfitta”?

Terzo articolo 12 ottobre 1973. “Un grosso problema che ci impegna in sede politica e che deve impegnare di più, in sede teorica, i marxisti e gli studiosi avanzati dell’Italia e dei paesi dell’Occidente, è come far sì che un programma di profonde trasformazioni sociali – che determina necessariamente reazioni di ogni tipo da parte dei gruppi retrivi – non venga effettuato in modo da sospingere in posizione di ostilità vasti strati dei ceti intermedi, ma riceva invece, in tutte le sue fasi, il consenso della grande maggioranza della popolazione. (…) Se è vero che una politica di rinnovamento democratico può realizzarsi solo se è sostenuta dalla grande maggioranza della popolazione, ne consegue la necessità non soltanto di una politica di larghe alleanze sociali ma anche di un determinato sistema di rapporti politici, tale che favorisca una convergenza e una collaborazione tra tutte le forze democratiche e popolari, fino alla realizzazione fra di esse di una alleanza politica. D’altronde, la contrapposizione dell’urto frontale tra i partiti che hanno una base nel popolo e dai quali masse importanti della popolazione si sentono rappresentate, conducono a una spaccatura a una vera e propria scissione in due del paese, che sarebbe esiziale per la democrazia e travolgerebbe le basi stesse della sopravvivenza dello Stato democratico”.

D) Il che fare (e il che non fare) da parte nostra. La discussione sulla fine di Allende si è capovolta tra di noi in un’altra parallela: dar ragione a Berlinguer o condannarne il pensiero, ritenuto dal alcuni, debole e rinunciatario? Così, invece di riprendere e criticare (o condividere) le scelte del Mapu o del Mir, riferite al Congresso del Pdup, la discussione nel nuovo partito è andata in un’altra direzione. Già l’anno successivo si è discusso accanitamente su Lotta Continua -Lc che appoggiava il Pci per le elezioni amministrative. Molti militanti che avevano letto lo scritto di Rinascita del segretario Berlinguer, erano contrari tanto al Pci – avversario alle elezioni stesse – che a Lc che lo sosteneva nel voto senza alternative. Poco tempo dopo, alle elezioni politiche del 1976, si pose in altro modo lo stesso problema vitale: fare alleanze per rafforzare il movimento rivoluzionario, comunque si volesse chiamarlo, oppure evitare gli alleati meno affidabili per non tradire la causa e andare così avanti da soli?  Lc si offriva come alleato e così altri partiti e gruppi minori. Ma era nei confronti di Lc che crebbe la discussione; un gruppo ritenuto dai concorrenti inaffidabile e squilibrato. Valeva la pena di accettare? Pdup e manifesto, il nuovo partito unito si chiamava Pdup per il comunismo, erano già in disaccordo su questo punto; la rottura definitiva avvenne poi all’inizio del 1977. Il vecchio Pdup – più o meno – era a favore dell’alleanza elettorale nuova con Lc ma a prima vista era solo per opportunistiche questioni di voto, senza nessuna avvertenza di quel cataclisma che si andava preparando; mentre il manifesto con il segretario del partito unificato, Lucio Magri, era decisamente contrario a ogni alleanza con Lc. La parte leggermente maggioritaria nel partito la pensava allo stesso modo, forse. La decisione fu diversa: capovolgere la maggioranza per salvare l’unità. Una scelta ragionevole: prendere Lc nelle liste, lasciando però i suoi candidati agli ultimi posti, per non scontentare troppo chi non fosse d’accordo. Poi c’era qualche pasticcio: nessun cenno esplicito della presenza del partito Lc nelle liste. Un bell’esempio di ritrosia parlamentare: chiedere i voti senza indicare a chi darli e perché. Come ovvio, il risultato fu debole. Il miglior candidato di Lc nelle liste che era Lisa Foa non passò a Roma sopravanzata dai voti da Magri. Fu eletto per Lc Mimmo Pinto  a Napoli, per la rinuncia di Vittorio Foa, il più famoso e amato compagno della sinistra extraparlamentare, poco propenso, in quella fase, all’attività parlamentare. Foa fu eletto anche a Torino e la sua rinuncia favorì Silverio Corvisieri di Avanguardia Operaia – altra compagine di estrema sinistra collegata al Pdup per il comunismo. Anche Massimo Gorla fu eletto a Milano, come Avanguardia Operaia. C’erano le basi per un bel litigio politico, accantonato in occasione delle elezioni,  intorno alla malvista Lc inserita a forza nella lista e lo scarso esito elettorale (500 mila voti e sei parlamentari in tutto) convinse il Pdup per il comunismo a scindersi, tra l’ala più movimentista, in netto disaccordo con il pensiero di Enrico Berlinguer e l’ala più responsabile e decisa in ultima analisi ad appoggiare la linea politica del segretario Pci. 

Entrambi gli schieramenti, con migliaia di aderenti ciascuno, trascurati i fatti cileni, affrontano da destra e da sinistra il pensiero di Berlinguer, senza cogliere la sostanza del segnale disperato di Lotta continua che ha deciso di sciogliere l’organizzazione. 

A  distanza di mezzo secolo chi scrive può tentare una riflessione del tutto personale: “Non sono più i tempi di Berlinguer sì e Berlinguer no; non sono più i tempi di Allende e della sua scelta tra Stato e multinazionali; qui da noi, oggi, nel 1976/77, c’è, nei nostri cortei, gente con le pistole in tasca, non più solo chiavi inglesi nello zaino. Dobbiamo trovare il modo, dobbiamo riuscire subito a fare qualcosa, dobbiamo impedire che domani la stessa gente scelga di sparare; e uccida”.