Prima della politica, per Rossana Rossanda c’era stata, nella giovinezza, la passione per l’arte e la letteratura. Esperienze che hanno lasciato tracce nei suoi interessi, nella scrittura, nel talento narrativo. Un’anticipazione dal volume “Rossana Rossanda. Il diciassettesimo tasto”.
Le passioni fondative di Rossana Rossanda, la letteratura e la storia dell’arte, non sono state generiche forme di sostegno nelle tempeste della vita, ma costitutive di un pensiero che si andava progressivamente strutturando nel politico. Da questo fecondo processo di contaminazione e di integrazione di esperienze emotive e cognitive diverse deriva a mio parere la particolare connotazione tematico-formale di tutti i suoi scritti. Mi pare evidente che di queste passioni una è venuta più spesso alla superficie e ha cercato più volte sentieri propri, e questa è stata senza dubbio la passione letteraria: come esercizio ininterrotto di lettura, di riflessione e di conoscenza del mondo, ma anche come scrittura in proprio e libero dispiegamento di facoltà immaginative. Del resto, come ho detto prima, la letteratura, nella sua duplice forma, è venuta temporalmente prima e ha accompagnato Rossanda per tutto l’arco della sua lunga vita. La sua scrittura si è indubbiamente perfezionata nella grande palestra de “il manifesto”, nella fatica e nella gioia di dover scrivere ogni giorno un nuovo pezzo.
Sul rapporto di Rossanda con la letteratura come invenzione e costruzione simbolica si sono espressi molti, tutti più o meno favorevoli a chiamarla scrittrice, spesso tra virgolette. L’episodio più noto della discussione sul valore letterario delle pagine di Rossanda viene dalla non casuale candidatura della La ragazza del secolo scorso ad un premio letterario come il Premio Strega, nell’anno 2006. Forse i tempi non erano maturi per un confronto diretto tra un romanzo protetto dalla tradizione e un ‘opera che si collocava nello spazio inedito di contaminazione tra storia, politica, memoria e finzione; quello che oggi sembra accettato e viene ormai comunemente chiamato anche ‘autofiction’. Di certo la mancata affermazione a quel premio, che andò a Sandro Veronesi autore di Caos calmo, sanciva insieme le potenzialità e i limiti di quell’opera; di certo portava allo scoperto la sua qualità e il suo valore.
Tra le molte voci che capita di leggere in merito mi trovo allora a condividere ciò che ebbe a scrivere Ginevra Bompiani su “il manifesto” all’indomani della sua morte, laddove mise in rilievo una sorta di sopraffazione della politica sulla vita di Rossanda a spese di un’altra profonda passione: «In lei la passione politica sopraffece la passione estetica e letteraria, in ogni parola politica c’era il fiato, l’alone di quella passione messa a tacere. Le sue parole non erano mai strette in una morsa. Portavano l’eco di un’altra forma del pensiero».
È vero che Rossanda appartiene a una generazione di intellettuali e di politici di grande spessore culturale che ha pienamente sentito il valore conoscitivo del discorso letterario e che è stata capace di sviluppare modalità espressive proprie e riconoscibili. Basterà citare il caso di Pietro Ingrao, di poco più vecchio di lei, che fin dal 1933 aveva osato varcare il confine tra politica e poesia, per poi raccontare in versi l’epica del sogno comunista e il suo declino. Di lui mi tornano in mente parole che ancora commuovono: «Pensammo una torre/ scavammo nella polvere» (da Il dubbio dei vincitori, Milano, 1986, p.26). Nel 1991 Luigi Pintor era stato autore di uno straordinario libro di testimonianza Servabo; sullo stesso confine si pone molto più tardi anche Luciana Castellina con il suo appassionante diario La scoperta del mondo uscito nel 2011. Mi tornano in mente anche i versi di Antonio la Penna che già negli anni ottanta aveva pubblicato una prima raccolta di poesie per l’editore fiorentino Sansoni. È vero che quello che è stato chiamato lo slittamento del filosofico nel letterario è un fenomeno antico che riguarda tanti intellettuali della fase postbellica, e in particolare Sartre, come aveva sostenuto Pier Aldo Rovatti nel già citato convegno sartriano di Livorno.
Ma tutta la lunga storia personale di Rossanda e in particolare lo spessore che attraversa unitario gli scritti politici, le recensioni, i resoconti di viaggio e le memorie ci permettono di collocarla su un piano a parte anche rispetto a grandi figure della sua generazione. Non tanto per quella «…superiorità di Rossanda sulla ‘normale’ cultura di sinistra contemporanea», di cui ha scritto Asor Rosa nella recensione al Prinz von Homburg (L’Unità, 26 sett. 1997); e neppure «per lo spessore della sua preparazione culturale e letteraria» come ha ribadito Stuart Woolf nel citato studio (p.15). In realtà, più che di superiorità, si potrebbe parlare di diversità e di specificità, nel senso che siamo di fronte ad una soggettività che si è strutturata su altre fondamenta e su altri modelli.
Credo, infatti, che si debba a un eccezionale patrimonio di letture, di conoscenze in ambito filosofico, estetico ed artistico che ho cercato di delineare, se le modalità stesse con le quali Rossanda ha parlato e scritto di politica si staccano da altri modelli. Le sue pagine portano il segno di un’immaginazione che cresce sulla continuità e sulla totalità di un impegno e si connotano per una prosa limpida, appassionata e senza enfasi né iperboli; ci parlano di un’intelligenza che osserva ed elabora il divenire delle cose e di un discorso etico-politico capace di accendersi e di trapassare nel libero racconto di un’esperienza vissuta come soggetto singolo. Basta pensare alla tipologia delle sue recensioni che sviluppano un riconoscibile modello di lettura; oppure all’originale assetto delle interviste, all’interno delle quali l’interrogazione si trasforma spesso e si condensa nel racconto dell’incontro. Penso qui in particolare all’intervista fatta il 28 novembre 1982 a Louis Aragon nella sua casa di Rue de Varenne, attraversata da un’avversione profonda per l’intervistato. Non è in forma di domanda e risposta ma di rielaborazione del colloquio e delle sue modalità. Il narcisismo dell’intervistato, il suo compiacimento per lo sperimentato effetto che la sua persona e la sua casa facevano sugli ospiti, il mobilio scelto, gli oggetti stupendi sono descritti come a distanza, con grande e sottile capacità introspettiva. Il racconto pacato dell’incontro con Louis Aragon culmina nella demolizione spietata del più grande poeta di Francia o, meglio, del suo capolavoro, l’edificazione del comunista Aragon (QSPG, 35-44), di colui che al partito comunista francese non aveva saputo dare altro che il riflesso delle sue glorie. È una pagina nella quale il profondo coinvolgimento dell’intervistatrice viene come elaborato e fissato a distanza con una sapienza e qualità di stile che non è comune.
Si deve infine e soprattutto pensare alla storia della sua vita raccontata con trattenuta distanza ne La ragazza del secolo scorso per capire che, nonostante le imperfezioni e i dislivelli formali, ci troviamo di fronte a un testo della migliore tradizione memorialistica e ad un’alta qualità di stile. A un esempio di scrittura femminile tra i più potenti; alla orgogliosa battaglia di una donna che conosce la storia, sa che i codici della storia sono stati scritti dagli uomini, non scende nell’agone femminista; rimane sempre convinta che la donna si scioglie nella persona (LA, 19) e che la liberazione delle donne non potrà darsi fuori di un cambiamento radicale degli assetti sociali. Un libro di memorie senza dubbio dominato dalla dimensione politica, ma che in grande parte si stacca dal piano testimoniale e documentale per farsi costruzione di un originale racconto di vita. Si possono ricordare anche alcuni stilemi eccentrici per un libro di sola storia o di sola memoria. Penso ad alcune figure retoriche che punteggiano la prosa di Rossanda, per esempio al suo gusto per l’iperbato e per l’inversione sintattica; ovvero alla tendenza a porre il predicato all’inizio del periodo come ad alzare l’orizzonte di attesa del lettore: a pagina p. 56 stupenda è l’adattabilità della specie; oppure larghe sono le maglie fra sessualità e fantasie sentimentali, e ancora all’uso molto fitto dell’aggettivo sostantivato fino al davvero inusitato ‘Innecessario’.
Certamente siamo di fronte a un corpus disomogeneo di pagine di letteratura che ci parlano di una vocazione fortemente inibita; e tuttavia mi vien fatto spesso di pensare che, se la prosa dello storico e critico Roberto Longhi è stata a suo tempo ritenuta degna da Gianfranco Contini di comparire nell’antologia della Letteratura Italiana, anche qualche pagina di Rossana Rossanda vi potrebbe entrare a pieno titolo come esempio di alto giornalismo e di letteratura politica, di un talento narrativo che si era nutrito di buone letture non solo patrie, di fede nella determinazione sociale dell’essere e anche nella dimensione estetica dell’agire politico. E che si era potuto esprimere soltanto per intermittenze.
Questo testo è tratto dal volume, a cura di Maria Fancelli, “Rossana Rossanda. Il diciassettesimo tasto”, Edizioni Clichy, Firenze 2022, pp.77-86