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Rileggere Roosevelt contro l’inerzia della crisi

Giovanna Leone, Maurizio Franzini, Giuseppe Amari e Adolfo Pepe rileggono, da angolature diverse, il ruolo di Roosevelt nella trasformazione del capitalismo del secondo dopoguerra. Nel confronto sottinteso con l’oggi risalta il suo spirito riformista e umanista.

È nota l’argomentazione di Lakoff che i “progressisti” democratici, accettando le modalità di pensiero dei conservatori per paura di dire ciò in cui credono realmente, incontrino difficoltà nel costruire una narrazione persuasiva per i propri elettori e per quelli incerti. Rinunciando a prospettare una visione del mondo realmente alternativa depotenziano il loro linguaggio e l’immaginario ad esso correlato, indebolendo la carica emotiva rispetto allo status quo conservatore.

Non è il caso di Franklin Delano Roosevelt, quando alla Convenzione democratica del 2 luglio 1932 afferma che i “nostri leader repubblicani ci parlano di leggi economiche – sacre, inviolabili, immutabili – che causano situazioni di panico che nessuno può prevenire. Ma mentre essi blaterano di leggi economiche, uomini e donne muoiono di fame. Dobbiamo essere coscienti del fatto che le leggi economiche non sono fatte dalla natura. Sono state fatte da esseri umani”. Si tratta di un rovesciamento radicale delle priorità politiche repubblicane che percorre il suo Looking Forward – la raccolta degli articoli e dei discorsi sviluppati nel corso della sua campagna elettorale per le presidenziali del 1933 – la cui traduzione è apparsa in questi giorni per i tipi della Castelvecchi editore. Il libro, Guardare al futuro. La politica contro l’inerzia della crisi, a cura di Giuseppe Amari e Maria Paola Del Rossi ha un’introduzione di J. K. Galbraith e comprende anche il Discorso di insediamento (4 marzo 1933) e la Prima chiacchierata al caminetto sul bank holiday (12 marzo 1933) dello stesso Roosevelt, le due lettere inviategli da Keynes (del 1934 e del 1938) sul suo New Deal e un articolo su “Il popolo d’Italia” del 1933 nel quale Mussolini rivendica al fascismo l’originalità dell’interventismo rooseveltiano.

Una seconda parte raccoglie le riflessioni di Federico Caffè su quell’esperienza e i quattro contributi di Giovanna Leone, Maurizio Franzini, Giuseppe Amari e Adolfo Pepe che, da angolature diverse, valutano il ruolo di Roosevelt nella trasformazione del capitalismo di quel periodo. Completa il volume l’appendice di Maria Paola Del Rossi sulla cronologia dei provvedimenti del New Deal.

In tempi in cui si reclama da più parti il ricorso a un “nuovo New Deal” è merito dei curatori aver reso disponibili i materiali necessari a una riflessione su quel progetto riformatore che tanto rilievo ha avuto per gli sviluppi successivi della società occidentale.

Come noto, alla base dell’azione roosveltiana è la valutazione che la crisi del 1929 era l’espressione di un radicale malfunzionamento del meccanismo economico, quello che ha prodotto una situazione in cui «gran parte dei nostri macchinari e delle nostre strutture rimane inutilizzata, mentre milioni di uomini e donne capaci e intelligenti, che versano in una terribile indigenza, chiedono a gran voce un’opportunità di lavoro. … Il nostro vero problema non era la scarsezza di capitale: era l’insufficiente distribuzione del potere d’acquisto unita alla speculazione di sovrapproduzione». La crisi produttiva ha radici nell’iniqua distribuzione del reddito e del potere che deprime le prospettive di ampi strati della popolazione: «Insieme all’aspettativa di una vita sicura, è svanita la certezza del pane quotidiano, del vestiario e di un tetto sopra la testa», proprio quando la «maggior parte dei giovani di questo Paese, preparati e pronti al lavoro nel mondo, non sono stati messi in grado di entrare a far parte della società produttiva o sono gravemente preoccupati per il loro futuro anche lì dove sono stati così fortunati da trovare un’occupazione redditizia». La precarietà economica è la manifestazione di un profondo squilibrio sociale con ampie implicazioni “morali” per la manifesta contraddizione tra la realtà e le aspettative costituzionali di libertà e felicità sul quale si è formata la società.

Il dilagare della disoccupazione di massa è espressione della crisi della convivenza sociale nella quale sono coinvolti anche ceti medi e piccola borghesia, costretti a prendere coscienza della precarietà delle loro condizioni economiche; la caduta di fiducia nel futuro colpisce tutti, anche imprenditori, economisti, politici che non riescono a intravvedere soluzioni entro la cornice della vecchia economia liberale. Da ciò la convinzione di Roosevelt della necessità di una trasformazione delle istituzioni produttive e distributive per garantire il diritto al lavoro quale elemento cruciale dell’equilibrio sociale: «Il compito attuale del governo, nella sua relazione con gli affari, è di contribuire allo sviluppo di una dichiarazione economica dei diritti, di un ordine costituzionale economico [corsivo mio]. Questo è l’obiettivo comune dell’uomo politico e dell’uomo d’affari. Questo è il requisito minimo per uno stabile e sicuro ordine sociale. Fortunatamente i tempi suggeriscono che creare questo ordine non è soltanto un’opportuna azione politica da parte del governo, ma è anche l’unica via di salvezza per il nostro sistema economico». Il suo rifiuto «a sedersi e a rimanere inermi» impone di rigettare – in linea con l’affermazione del 1932 – la fede «intimamente penetrata nelle menti di alcuni nostri leader … nelle immutabili leggi economiche» per affermare invece la fede «che io … posseggo … nell’abilità dell’uomo di controllare ciò che ha creato».

Roosevelt, nel rivendicare che la “cultura reale” non è altro che capire «le aspirazioni e la mancanza di opportunità, le speranze e le paure di milioni di esseri umani», organizza su questa base la sua (nuova) politica economica definendone gli obiettivi e individuando i relativi strumenti.

L’obiettivo è il voler «assicurare ad ogni uomo la possibilità di avere il necessario grazie al proprio lavoro. Ogni uomo ha diritto alla sua proprietà, il che significa il diritto di vedersi garantita, nel massimo grado conseguibile, la sicurezza dei suoi guadagni. Solo così gli uomini possono sopportare il carico di quelle fasi della vita che, è nella natura delle cose, impossibilitano al lavoro: l’infanzia, la malattia e la vecchiaia. Di tutti i diritti, questo è il più sacro; tutti gli altri vengono dopo». Ne segue, come strumento, la necessità dell’intervento pubblico perché «se, secondo questo principio, dobbiamo limitare la libertà dello speculatore, del manipolatore, anche del finanziere, credo che si debba accettare tale restrizione come necessaria non per ostacolare l’individuo, ma per proteggerlo». Una posizione che richiede, scontando l’ovvia opposizione dei grandi gruppi capitalistici e finanziari ritenuti i principali responsabili della crisi, di ridimensionare – come bene sottolinea Maurizio Franzini nel suo intervento – l’intollerabile «concentrazione del potere economico e l’instaurarsi di un sistema oligarchico incompatibile, in assenza di correttivi, con i valori dei Costituenti americani»: una ristrutturazione del potere economico (reform) per poter garantire l’eguaglianza delle opportunità e la libertà sostanziale per tutti, considerato da Roosevelt, a differenza di Keynes, più urgente e più importante della stessa ripresa (recovery) dell’attività economica.

L’implementazione degli strumenti del New Deal si realizza in tempi rapidi fornendo una struttura istituzionale che rifonda il rapporto tra stato ed economia, tra potere politico e società. Per garantire «il diritto a un lavoro, il diritto a cibo e vesti adeguate, il diritto di svolgere ogni impresa in un’atmosfera di libertà, il diritto a un’abitazione decorosa, alle cure mediche, alla protezione dal timore del bisogno economico nella vecchiaia, in caso di malattia e disoccupazione, e infine il diritto a una buona istruzione» si innova profondamente il sistema istituzionale attraverso le legislazioni, come scandisce l’Appendice di Maria Paola Del Rossi, sulla sicurezza sociale (SSA), sulle relazioni di lavoro (Wagner Act), sulla regolamentazione industriale (NIRA).

L’ampliamento dell’intervento dello Stato nell’economia è una “rivoluzione” attraverso la quale lo stato federale assume un ruolo di stimolo e di regolamentazione senza precedenti: «Il contrasto alla disoccupazione di massa e alla miseria sociale, la regolazione dei salari e degli orari di lavoro, il sostegno del reddito in agricoltura, i diritti e i poteri dell’organizzazione sindacale a livello aziendale e settoriale, la protezione sanitaria e previdenziale pubblica rientravano a pieno titolo nei parametri essenziali della politica economica del governo, al pari degli investimenti nelle infrastrutture materiali e culturali, della funzione regolata e allargata del credito, del disciplinamento della finanza, della politica monetaria e commerciale».

L’obiettivo è disporre di una struttura capace di realizzare, in modo duraturo, una distribuzione del reddito nazionale più ragionevole e più equa tale che «la ricompensa per un giorno di lavoro deve essere più grande, in media, di quanto sia stata finora, e il guadagno del capitale, specialmente quello speculativo, deve essere minore». Il New Deal roosveltiano non è solo spesa pubblica, esso è ristrutturazione dell’apparato produttivo e sociale e, a questo fine, ristrutturazione dello Stato e dell’azione pubblica; per un piano cosciente diretto a costruire «la strada per una durevole salvaguardia della nostra vita economica e sociale, … una pianificazione economica valida non solo per questo periodo, ma per i nostri bisogni futuri». È la costruzione del necessario “spazio politico” che fornisca allo Stato gli strumenti per conciliare gli interessi di ciascuno con gli interessi collettivi della nazione, per costruire una reale comunità di interessi.

Come osserva Giuseppe Amari, le reform del New Deal modificano profondamente il funzionamento del sistema istituzionale statunitense attivando quella struttura della politica economica che sarà contrassegnata dalla triade Big Business, Big Labor e Big Government, funzionale a incorporare nel meccanismo economico «la questione sociale intesa come questione prioritaria del lavoro organizzato e rappresentato sindacalmente, dei suoi diritti, dei suoi interessi economici, dei suoi stessi valori di coesione e di solidarietà, ma anche di energia conflittuale».

Si tratta di una trasformazione “costituzionale” che, come puntualmente argomenta Adolfo Pepe nella postfazione, permette agli Stati Uniti un’uscita originale – rispetto alle altre esperienze politiche del periodo – dal capitalismo in crisi percorrendo quella via «di trasformazione e di consolidamento del rapporto tra istituzioni politiche liberali, sistema capitalistico e questione sociale» che si prolungherà nei primi decenni del secondo dopoguerra, per poi affievolirsi – si veda il grafico in calce – con il ridimensionamento del potere organizzato dei lavoratori e la ripresa della centralità politica delle oligarchie economiche e finanziarie (non più esclusivamente nazionali).

Elemento cruciale di supporto del New Deal è peraltro il rapporto tra governanti e governati, la questione della democrazia. In Roosevelt è ben presente che chi «deride i partiti politici, ignora che il sistema partitico del governo è uno dei più grandi metodi di unificazione, poiché insegna loro a pensare in termini di civilizzazione comune» e che il consenso politico-elettorale e la favorevole disposizione etica e psicologica a partecipare alle trasformazioni del Paese dipende non solo dalla credibilità delle pratiche di governo, ma anche dal sostegno intellettuale e dalla fiducia nella capacità del personale politico: «La vera leadership consiste nel definire prima gli obiettivi e una volta stabilite le linee d’azione ottenere la sincera cooperazione di tutti gli interessati, e ciò significa il supporto e l’azione dei gruppi dei nostri cittadini intelligenti e localmente influenti». Non basta «la sola onestà … per portare a termine i progetti; è urgente ottenere una maggiore efficienza». Solo combinando tutti questi aspetti è possibile «raccogliere poi il consenso dell’opinione pubblica. … Il risultato di un buon governo è pertanto una lunga e lenta sfida».

La complessità di una tale strategia di politica economica e sociale appare con evidenza nei “discorsi del caminetto”, la cui finalità è per Roosevelt di rendere partecipe la popolazione dei propositi e degli sviluppi della sua attività riformatrice. La loro efficacia comunicativa sta nel «colpire la fantasia delle masse», come evidenzia l’attenta analisi di Giovanna Leone; non vengono nascoste le difficoltà, i problemi e i “nemici” («i “ciecamente egoisti” e coloro che, pur non essendolo, non vedono le conseguenze sociali ed economiche delle loro azioni nelle moderne comunità economicamente interdipendenti»), ma è proprio facendo leva sulla consapevolezza del conflitto, degli interessi contrastanti in gioco, delle difficoltà oggettive e soggettive che il discorso del Presidente dà senso alla speranza riformatrice e mobilita le intelligenze a mettersi al servizio della parte più debole della società.

Alla domanda di quanto vale ancora, qui e ora, l’esperienza del New Deal non si può rispondere senza tener conto, come suggerisce la riflessione di Giuseppe Amari, di quanto diverso sia l’attuale capitalismo globale da quello di allora. Tuttavia, un’attualizzazione di quella esperienza si può, e forse lo si deve, fare solo se si è in grado di declinare in maniera aggiornata gli elementi che ne hanno caratterizzato la strategia di fondo sia in termini di obiettivi che di strumenti. A ben vedere non si può dire che sia superata né la necessità di affrontare le disuguaglianze create dalle nuove oligarchie produttive e finanziarie, né la necessità di un potere collettivo che le sappia contrastare, anche dal punto di vista culturale, per mantenere aperte le vie per una vera uguaglianza delle opportunità.

Franklin D. Roosevelt, Guardare al futuro. La politica contro l’inerzia della crisi, a cura di Giuseppe Amari e Maria Paola Del Rossi; prefazione di James K. Galbraith. Roma: Castelvecchi 2018