Il 29 settembre si è celebrata la cosiddetta “Notte della Ricerca” universitaria. Un evento promosso dall’Unione europea che ha mancato di evidenziare le condizioni di lavoro precarie della maggioranza delle lavoratrici e dei lavoratori del settore
Il 29 settembre in 52 città italiane si è celebrata la cosiddetta “Notte della Ricerca” universitaria, una notte di dimostrazioni, eventi, conferenze e laboratori per far conoscere alla “gente”, a chi a quel mondo si sente estraneo o ne è venuto solo marginalmente a contatto, i frutti della ricerca accademica nei vari ambiti del sapere. Un’iniziativa promossa e cofinanziata dalla Commissione Europea all’interno del Programma Quadro europeo per la Ricerca e l’Innovazione Horizon2020 con l’obiettivo dichiarato di “avvicinare il grande pubblico al mondo della ricerca e in particolare alla figura del ricercatore”.
Dietro la retorica del “ricercatore come persona normale che fa cose eccezionali” – si veda il sito dell’evento – si cela in realtà un bacino di lavoratori del cosiddetto mondo della conoscenza che vivono una condizione di precarietà lavorativa molto alta in termini di durata media dei contratti, di accesso al welfare e di possibilità di stabilizzazione all’interno del settore, per citarne solo alcuni. La manifestazione che cerca di accrescere “nei cittadini la consapevolezza dell’importanza che la ricerca scientifica riveste per lo sviluppo culturale, sociale ed economico della società” – si veda sempre il sito dell’evento – non ha tuttavia evidenziato le precarie condizioni di lavoro di quanti, a diverso titolo (assegnisti di ricerca e ricercatori), vi sono impiegati. Rispetto a queste si è mobilitata negli anni l’ADI (Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca Italiani), anche quest’anno presente in alcune piazze italiane con materiale informativo sulla condizione di precariato alla quale sono esposti i lavoratori della ricerca in Italia – 28,31% fra titolari di assegno di ricerca e ricercatori a tempo determinato sul totale del personale universitario (secondo i dati del MIUR al 2016)1. Si tratta in totale di 19303 lavoratori, dei quali 5357 ricercatori a tempo determinato e 13946 titolari di assegni di ricerca. Benché questi ultimi siano in leggero calo rispetto al 2015 (-0.7%), il loro numero è aumentato nel corso degli ultimi dieci anni raggiungendo un picco di 15909 assegni stipulati nel 2014. Gli assegnisti di ricerca rappresentano la componente più precaria del mondo della ricerca in Italia, e come sottolinea il rapporto dell’ADI 2016, la percentuale stimata di titolari di assegno che transiterà verso una posizione a tempo indeterminato nei prossimi anni sfiora appena il 6.5% circa, più del 90% sarà dunque espulsa dall’ambito accademico2.
La precarietà del lavoro di ricerca nelle Università italiane per i cosiddetti “non-strutturati” non riguarda solo la durata media dei contratti – da 1 a 3 anni per gli assegnisti di ricerca universitari sino ad un rinnovo massimo di 6 annualità3 – ma anche le retribuzioni percepite rispetto ai colleghi europei. Infatti la retribuzione mensile lorda di un assegno di ricerca in Italia parte da 1600 euro circa, mentre in altri paesi europei come Germania e Regno Unito è superiore ai 2000 euro4. Una condizione lavorativa pressoché insostenibile, in cui alla precarietà dei contratti di ricerca e ai bassi salari si aggiunge la mancanza di accesso a un sistema pieno di welfare.
È solo dal primo luglio 2017, per esempio, che l’INPS, attraverso la circolare 115, ha riconosciuto l’indennità di disoccupazione (DIS-COLL) per i precari nell’università, escludendo però tra questi i dottorandi che hanno iniziato il percorso nel 2014, quelli senza borsa di studio, i borsisti di ricerca e le lavoratrici e i lavoratori a partita IVA, soggetti privi di qualsiasi protezione a fronte di discontinuità nel reddito5. Tutto ciò contrasta apertamente con quanto scritto nella Carta Europea dei Ricercatori (promossa nel 2005 dalla Commissione Europea e firmata dai rettori italiani), in cui si afferma esplicitamente che “i datori di lavoro e/o i finanziatori dovrebbero assicurare ai ricercatori condizioni giuste e attrattive in termini di finanziamento e/o salario, comprese misure di previdenza sociale adeguate e giuste (ivi compresi le indennità di malattia e maternità, i diritti pensionistici e i sussidi di disoccupazione)”. L’argomentazione relativa all’assenza di copertura finanziaria per la stabilizzazione dei precari dell’università è debole se si pensa che, secondo le stime di FLC CGIL, il costo della trasformazione di tutti gli attuali assegni di ricerca in contratti di ricercatore è di circa 400 milioni nel triennio. In questo periodo, infatti, si prevede il pensionamento di circa il 20% dei professori ordinari e il 15% dei professori associati attualmente in servizio, per un totale di risorse economiche utilizzabili pari a 450 milioni6.
Questi dati mostrano che accanto alla lettura celebrativa e parziale dello stato della ricerca in Italia, bisognerebbe affiancarne un’altra che evidenzi le condizioni di lavoro precarie della maggioranza delle lavoratrici e dei lavoratori che operano nel settore, condizioni molto spesso lontane dai racconti delle istituzioni e dei media, invece comuni ad altri lavoratori – basti pensare ai neo-assunti tramite il Jobs Act – con i quali è sempre più necessario costruire un percorso di lotte e rivendicazioni comuni.
Articolo pubblicato da Clashcityworkers
1. http://dati.ustat.miur.it/dataset/2016-personale-universitario
2. https://dottorato.it/content/vi-indagine-adi-su-dottorato-e-post-doc
3. https://www.roars.it/online/incrementata-la-durata-massima-degli-assegni-di-ricerca/
4. Federal Ministry of Education and Research (2016) Research careers in Germany. Disponibile on-line su https://www.research-in-germany.org/en
5. https://www.inps.it/bussola/VisualizzaDoc.aspx?sVirtualURL=%2FCircolari%2FCircolare%20numero%20115%20del%2019-07-2017.htm
6. http://www.flcgil.it/universita/subito-una-soluzione-per-il-precariato-delle-universita