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Ricchi e buoni? Le trame oscure del filantrocapitalismo

Da qualche tempo e con il Covid-19 l’élite – l’1% che detiene metà della ricchezza del mondo – ha deciso di impadronirsi anche dell’ultimo fortino non ancora lambito dalla logica super-competitiva ed estrattiva del capitalismo finanziario: il mondo della solidarietà, del dono. L’introduzione del libro “Ricchi e buoni?” di Nicoletta Dentico.

Questo libro (Ricchi e buoni? Le trame oscure del filantrocapitalismo) trae ispirazione da sentimenti di dolore e di rabbia, inutile andarci intorno.  Affossa le sue radici in due decenni di impegno internazionale nel campo della salute. Ancora di più, deriva da una antica e potente esperienza, quella di mescolarsi, entrare in ascolto e apprendere dalle etiche di vita delle varie moltitudini di poveri che le società di mercato hanno sospinto verso le forme più diverse della miseria moderna. E di aver fatto mio il loro punto di vista.  

Ho imparato a diffidare della narrazione legnosa e riduzionista sulla “lotta alla povertà”. La povertà ha dimensioni terribili ed effetti tragici, non si discute, ma occorre sapere che non è una banale questione di soldi ma di politiche strutturalmente violente e che comunque, da un punto di vista finanziario, è molto più espugnabile di quanto pensiamo. Basterebbe una frazione di quanto si spende in armi, poco più dell’1% del prodotto interno lordo mondiale, per invertire la rotta. Basterebbe intercettare e fermare subito i meccanismi di esuberante accumulazione plutocratica da parte di una minuscola élite della globalizzazione artefice di un sistema che produce disuguaglianze, quell’1% della popolazione mondiale che possiede ormai la metà della ricchezza del pianeta. 

E’ su quell’1% che vince sempre, che occorre volgere lo sguardo. Avrebbe molto da perdere se ci fosse un autentico cambiamento sociale e una virata verso la redistribuzione delle risorse, e proprio per questo si è messo a condurlo a modo suo questo cambiamento, spesso con il consenso di quanti ne hanno più bisogno, invocando il mantra della lotta alla povertà per  “cambiare il mondo” in modo che nulla cambi, per “restituire” un po’ della ricchezza accumulata in modo che non venga messa in discussione l’indifendibile asimmetrica distribuzione di risorse, potere, conoscenze e strumenti.  Da qualche tempo questa élite ha deciso di impadronirsi insomma anche dell’ultimo fortino non ancora lambito dalla logica super-competitiva ed estrattiva del capitalismo finanziario: il mondo della solidarietà, del dono. I plutocrati, sotto le avvenenti fattezze delle loro donazioni, sono diventati i sacerdoti della lotta alla disuguaglianza. Hanno compreso le prospettive sconfinate di questa battaglia: “a land of opportunities”, una prateria di opportunità per il loro business e la loro reputazione. Hanno vinto la partita della globalizzazione economica, cimentandosi con poche mosse su un campo di gioco privo di regole e di arbitri, dove ogni fallo è possibile. Siccome personificano storie di successo, dichiarano di “voler rendere questo mondo un luogo migliore”.  Sono sensibili alle sfide del pianeta, dicono, ne conoscono i problemi, intendono far parte delle soluzioni. Anzi, puntano a colonizzare la ricerca delle soluzioni, convinti che le loro idee, i loro rimedi siano la migliore promessa di futuro cui la massa dei diseredati possa aspirare.  Ma siamo sicuri che non ci sia una strategia migliore?

E’ l’élite più socialmente impegnata ma anche la più predatoria della storia quella che ha sapientemente concettualizzato e architettato il filantrocapitalismo.  Perlopiù sono uomini. Uomini bianchi (le poche protagoniste donne sono “mogli di”). Sono americani, perlopiù. Monopolisti nel settore economico di riferimento, hanno congegnato con le loro fondazioni la grande trasformazione della governance mondiale per arrivare a monopolizzare le leve della politica internazionale in nome dello sviluppo, e ora della sostenibilità. Con la suadente moltiplicazione di “iniziative concrete e misurabili” ispirate alla logica aziendale e al diritto privato, in due decenni questi plutocrati hanno disseminato qua e là soluzioni che nella maggior parte dei casi non intaccano, talvolta anzi persino rafforzano, le dinamiche di ingiustizia all’origine delle situazioni di cui pure i loro rimedi alleviano qualche sintomo.  Una iniziativa dopo l’altra, hanno definitivamente scompaginato la filiera della responsabilità pubblica nel governo del mondo.

Ho assistito in presa diretta ai passaggi che hanno spianato la strada all’affermazione della nuova classe di paperoni sulla scena della diplomazia globale.  Tutto è accaduto con una regia molto precipitosa, sotto i miei occhi. A Seattle, nel novembre 1999, la società civile di tutto il mondo si imponeva con forza al cospetto della comunità internazionale, riunita per la prima conferenza tra gli stati membri dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, con l’insopprimibile domanda di globalizzare finalmente i diritti e la giustizia. A New York,  sempre alla fine del 1999, l’organizzazione che dovrebbe rappresentare il governo del mondo capitolava nel giro di pochi mesi, messa alle strette dalla pressione di pochi stati del nord, per inaugurare l’integrazione dei vincitori del libero mercato nei consessi negoziali della politica internazionale. 

L’arrivo dirompente e distruttivo di COVID19, esattamente a 75 anni dalla nascita delle Nazioni Unite e a 25 dalla entrata in vigore della Organizzazione Mondiale del Commercio, sollecita molteplici spunti di riflessione sul governo del mondo.  Una pista di osservazione poco battuta, ma a mio avviso determinante, riguarda oggi più che mai la riflessione sulla egemonia culturale, finanziaria e politica del filantrocapitalismo.  La ricerca di soluzioni veloci che interrompano la diffusione del contagio conferisce una spinta inesorabile al colonialismo filantropico, oggi praticamente senza argini, nemmeno all’interno delle confessioni religiose. I filantropi che salvano il mondo la fanno da padroni nella gestione della pandemia grazie all’impenetrabile complesso industriale vincolato alle loro donazioni e al potere di seduzione che esercitano, mentre la comunità internazionale si dimena nel caos di micidiali pulsioni nazionaliste e buona parte della società civile, ormai assoggettata, dipende dai filantroprofitti per continuare a vivere. La pandemia ci impone un ragionamento di senso sul filantrocapitalismo, perché questo ristretto entourage è connesso a doppio filo con il mondo della tecnologia digitale, della biotecnologia, della finanza, i tre ambiti che definiranno il futuro del pianeta. Nel ribaltamento del rapporto di potere tra i pochi titani della ricchezza globale e i molti esponenti della funzione pubblica, non è uno scenario promettente. 

L’assenza di un dibattito serio sul filantrocapitalismo nel nostro Paese, al contrario di quanto avviene nel mondo anglosassone, è imbarazzante.  Abbiamo bisogno per esempio di prendere le distanze dalle braccia ingenuamente spalancate dei nostri leader – come di tutti i leader  mondiali – nei confronti di Bill Gates, alle cui gesta filantropiche nessuno si sogna di porre domande, prima ancora che condizioni. Abbiamo bisogno di marcare le distanze anche dalle teorie complottiste su Bill Gates e compagni, dietrologie che “la buttano in caciara” e appannano le ragioni di una riflessione basata sui fatti. Il fenomeno scoppiato con la pandemia è spia di una generale assenza di riferimenti conoscitivi per leggere la complessità, e della montante insofferenza verso la biforcazione di destini che non ha ragione di esistere.  Questo stato di cose non è una fatalità della storia.

La prefazione del libro di Vandana Shiva