Top menu

Rafah sigillata, bloccata la carovana di pace

Al valico non si passa (Meloni non ha accettato di far pressione su Tel Aviv) mentre parte l’operazione “carri di Gedeone”. Come non passa uno spillo delle 160mila tonnellate di aiuti. Ma scopriamo cosa Israele vuole fare di Rafah: un hub di schedatura dei palestinesi e gestione selettiva degli aiuti.

Da Al Arish si sentono come se fosse un tuono che annuncia una tempesta. Uno due, più volte. Il fragore arriva attutito dai decine di chilometri di distanza. Ma tutti lo sentono e tutti sanno di cosa di tratta. Alcuni chiudono gli occhi per fare un macabro conto: un colpo più breve può significare che hanno colpito una famiglia, più colpi a ripetizione significa l’imponderabile ovvero dimensioni da stragi. Quando alle 9 del mattino ora egiziana, arriviamo al valico di Rafah, i colpi si sentono più chiari. L’operazione di terra “carri di Gedeone” non è una formula di un delirio messianico che chiede ai suoi soldati di non indulgere con le nemico: è il cuore della guerra di terrore che ha un unico obiettivo: terrorizzare, rendere invivibile, la terra, far spostare i palestinesi di Gaza in arie sempre più anguste prive di elettricità, dissalatori, ospedali, servizi igienici e ovviamente cibo e acqua potabile.

Gli attivisti della carovana si mettono davanti al cancello bloccato dall’occupazione israeliana. Dalle valige escono vestiti per bambino, sandali, giocattoli, peluche facendo una montagnola di giocattoli proprio davanti allo striscione “STOP COMPLICITY” con i faccioni dei primi ministri europei – compresa Giorgia Meloni – di Ursula von der Leyern e della Rappresentante dell’Unione per la politica estera Kaja Kallas. Lo reggono parlamentari, giuristi, attivisti di decine di ONG aderenti ad AOI, i militanti dell’Arci, delle Acli e di AssopacePALESTINA. Poi ci sono i cartelli con le scritte “Stop genocidio”, “Stop apartheid”, “Cessate il fuoco”, “Aprite i valichi” , “Sanzioni per Israele” e “Stop alla vendita di armi a Tel Aviv”.

Il sole del Sinai è alto. Ci sono, intorno, decine i giornalisti, molti delle redazioni arabe. Ci accoglie un contingenze della Mezzaluna rossa egiziana, intorno ai suoi dirigenti si formano capannelli. La notizia del sit-in trapela anche dall’altra parte del valico. Centinaia di messaggi: “Grazie, che Dio sia con voi” “Allora non siamo dimenticati dal mondo”, “Fermate il genocidio e la mano degli assassini”. Ci sono anche critiche rivolte a egiziani e giordani che, pur avendo accesso ai valichi, non hanno mai manifestato per la loro riapertura.

Tutti gli operatori umanitari ce lo ripetono come una cantilena: dal 2 marzo a Gaza non passa uno spillo, le scorte umanitarie sono abbondamente esaurite mentre vi sono nei magazzini e sui camion 160 mila tonnellate di aiuti bloccati in Egitto dal blocco ermetico deciso da Israele. E’ mentre siamo lì a parlare con i sanitari della Mezzaluna rossa che ci giungono notizie dell’intensificare dei bombardamenti israeliani e della decisione di passare all’occupazione di terra con l’operazione “carri di Gedeone”. Sono giorni di sangue intenso: di ora in ora il numero delle vittime cresce: 150, 200, 300. Tutto sangue palestinese, sovente intere famiglie cancellate dalla faccia della terra. In serata apprendiamo che Netanyahu, che conferma l’occupazione di terra della Striscia di Gaza, ha aperto alle pressioni internazionali per far arrivare aiuto umanitario alla popolazione stremata. Precisa nella nota che non potranno essere le organizzazione del sistema delle Nazioni Unite a farlo (l’Unrwa è stata messa fuorilegge) e dovranno essere dei contractors statunitensi privati dentro un meccanismo di schedatura – tramite scanner facciali – della popolazione palestinese.

AOI, ARCI e ASSOPACEPALESTINA, organizzatori della carovana, denunciano quello che chiamo “la militarizzazione degli aiuti”. Dopo aver affamato e messo in ginocchio i civili- spiegano – questo sistema si basa su criteri arbitrari, tesi ad utilizzare anche modalità di distribuzione degli aiuti (un obbligo del diritto internazionale) per renderlo funzionale all’occupazione definitiva della Striscia. L’idea che si fa strada è quella di predisporre a Rafah – già rasa al suolo dall’occupante e ridotta un cumulo di macerie – questo nuovo centro “privatizzato” di gestione degli aiuti, in modo da indurre la popolazione dal centro e dal nord di Gaza a spostarsi di nuovo vero Rafah, preludio di quella espulsione di massa che la destra messianica al governo sta propugnando come “soluzione finale” della questione palestinese.

Non si passa, dunque. La carovana torna in Italia ma non ha alcuna intenzione di smetterla di agire e di essere da sprone alle forze politiche e sociali affinché vi sia un salto di qualità nella mobilitazione per la Palestina. Che si siano smossi i segretari e i presidenti dei principali partiti dell’opposizione con una richiesta alla premier Meloni di far pressioni su Israele per consentirci di entrare nella Striscia, è un fatto inedito e importante. Il niet ricevuto come risposta non ci fermerà nella nostra azione per la pace e per non lasciare da solo il popolo palestinese. Il crinale tra civiltà e barbarie passa da quei muri e confini. Non posiamo rimanere a guardare.

L’autore Alfio Nicotra è membro dell’ Esecutivo di AOI e parte della delegazione