È vero che il livello della crescita economica, nei paesi dell’Euro in generale e in Italia, è aumentato e che quello della disoccupazione si è ridotto, ma la situazione del lavoro è diventata sempre più precaria e il livello dei salari è al palo un po’ dovunque. Inoltre, lo stimolo monetario è da tempo the […]
Nell’ultimo periodo Mario Draghi deve essere stato molto occupato in giro, facendo un po’ di lavoro straordinario. A parte dunque i soliti affari correnti, da una parte egli ha dovuto forse sudare un poco, insieme a Mattarella, per imporre a Gentiloni la riconferma per altri sei anni di Ignazio Visco come Governatore della Banca d’Italia. Dall’altra, ha probabilmente dovuto fare ancora maggiori sforzi per cercare di convincere alcuni membri abbastanza riluttanti del Direttorio della BCE a portare ancora avanti la politica di quantitative easing in atto. Ma, naturalmente, egli ha dovuto accettare un compromesso con i suoi rigidi colleghi del Nord.
Ritenendo che il tema del QE sia, alla lunga, più importante anche per il nostro paese rispetto a quello della riconferma di Visco, è su di esso che concentriamo l’attenzione.
Dunque, alla fine, la BCE ha deciso di continuare con la sua politica di moneta facile, ma abbassando la spesa mensile per l’acquisto di titoli da 60 a 30 miliardi di euro e questo a partire dal gennaio 2018. Il programma sarà peraltro prolungato temporalmente sino al settembre del 2018, ma, per fortuna per il nostro paese, è stato previsto che, in caso di sviluppi negativi in particolare nei paesi del Sud, la Banca possa di nuovo riaprire le macchine da stampa. Ma dalle parti di Francoforte si fa anche capire che in qualche modo il programma continuerà anche dopo settembre. I tassi di interesse sono stati invece mantenuti invariati e dovrebbero rimanerlo di nuovo sempre almeno fino a settembre del prossimo anno.
L’annuncio delle misure è risultato alla fine tanto in linea con le attese che, come sottolineava un commento a caldo del Financial Times, esso è stato raccolto quasi con un sentimento di delusione. Ne è seguita sui mercati una caduta del valore dell’euro e una crescita delle Borse, effetti anche questi del resto scontati.
Il banchiere centrale tedesco Jens Weidmans, altro membro del direttivo della BCE, facendosi anche portavoce dell’establishment del suo paese, non ha peraltro mancato, ancora una volta, di far rimarcare la sua opposizione alla politica di Draghi e al provvedimento specifico, indicando che egli avrebbe preferito una netta cessazione degli acquisti; egli non è stato peraltro il solo, dal momento che altre tre persone, su di un totale di 25 membri del Board, si sono opposte.
Bisogna sottolineare a questo punto come, mentre il nostro governo celebra i sia pur modesti miglioramenti in atto dell’economia italiana come un risultato derivante dalle proprie illuminate politiche, molti economisti e non solo loro, sono invece consapevoli che gran parte della crescita attuale dell’economia dell’Unione Europea, oltre che di quella nazionale, è dovuta all’azione svolta in questo ultimo periodo dalla BCE. E questo proprio con la politica del quantitative easing e dei tassi di interesse molto bassi.
Il problema semmai è costituito dal fatto che quello monetario è da tempo the only game in town, il solo gioco disponibile in città, come affermava, qualche tempo fa, un noto specialista internazionale della materia, Mohamed A. El-Erian e come molti altri hanno già da tempo messo in rilievo (El-Erian, 2016).
In effetti, sembrava chiaro, a Draghi come ad altri, quando fu avviata l’accomodante politica monetaria attuale, che essa avrebbe dovuto servire per dare tempo alla politica di mettere in campo le mosse necessarie per innescare un percorso virtuoso di sviluppo. Ma il problema è che tali politiche non sono mai arrivate sulla scena, le banche centrali si sono caricate di troppe responsabilità, anche politiche e ci ritroviamo ancora oggi al punto di prima, senza alcuna reale strategia di crescita economica. E anche di questo si era già discusso.
Per altro verso, le riforme strutturali auspicate dalla BCE e chieste dalla stessa ai politici di turno non coincidono certo con quelle che a nostro parere sarebbero invece necessarie per far ripartire stabilmente l’economia; non sorprende, a questo proposito, che lo stesso Draghi abbia lodato ad esempio l’introduzione da noi del cosiddetto Jobs Act.
Certo, tornando alle conseguenze della politica di QE, appare vero che il livello della crescita economica, nei paesi dell’Euro in generale ed anche in Italia, sta un poco aumentando e che quello della disoccupazione si è ridotto, ma la situazione del lavoro è diventata sempre più precaria e il livello dei salari è al palo un po’ dovunque, mentre l’inflazione si ostina a non crescere come Draghi sperava.
In ogni caso, ora, specialmente nel nostro paese, non si può che guardare comunque con ansia al momento in cui Draghi staccherà del tutto la spina del QE e poi a quello in cui, nel 2019, momento per noi ancora più grave, egli lascerà l’incarico per scadenza dei termini e ci ritroveremo con un nuovo governatore, che potrebbe magari essere, come molti auspicano e non solo in Germania, lo stesso Weidmann; allora, forse, cercheremo di richiamare in patria il nostro amico per tentare di salvare il salvabile.
Ma c’è un’altra conseguenza poco piacevole delle politiche di moneta facile che in Europa come negli Stati Uniti stanno andando avanti.
Questa conseguenza è sottolineata anche da una notizia apparentemente minore data in questi giorni dalla stampa specializzata, quella secondo cui la ricchezza dei circa 1540 miliardari in dollari censiti nel mondo è cresciuta nel 2016 di quasi un quinto rispetto all’anno precedente, raggiungendo il livello di 6 trilioni di dollari.
Come sottolinea in proposito un recente articolo sempre del Financial Times (Webb, 2017), i banchieri centrali dovrebbero riflettere meglio alle negative conseguenze economiche, sociali e politiche che le loro mosse hanno portato negli ultimi dieci anni. I ricchi sono diventati più ricchi, la ricchezza delle imprese è andata sempre più concentrandosi, la crescita dei prezzi delle case nelle grandi città ha avuto conseguenze sociali molto pesanti, mentre il boom in atto degli asset a livello mondiale potrebbe preludere, come temono in molti, ad un’altra crisi.
Ma da qualche parte qualcuno cercherà di avviare una politica diversa?
Testi citati nell’articolo
-Webb M. S., Billionaire boom is a sign that rates need to rise, www.ft.com, 28 ottobre 2017
-El-Erian M., The only game in town, Central Banks, instability and avoiding the next collapse, Random House, New York, 2016