Buon lavoro/Sottooccupati e sottopagati per attività di bassa qualità e per le quali non è necessaria un’elevata istruzione. O assunti con contratti d’ingresso, d’apprendistato, finte partite Iva e tirocini non pagati
La crisi ci ha fatto poveri, quasi greci. L’Italia – in effetti insieme alla Grecia, oltre che ai paesi iberici e a molti di quelli appena entrati nell’Unione come Romania, Lituania e Ungheria – ha maturato negli ultimi anni uno degli incrementi maggiori del rischio di povertà associata al lavoro. Sì, povertà e lavoro insieme: si chiama in-work risk of poverty ed è un fenomeno così nuovo che sembra uscito da un vicolo della Londra di Dickens, segnala il rischio familiare di sprofondare al di sotto della soglia di povertà relativa, con uno o più familiari che lavorano sottopagati.
Secondo un rapporto del Cnel del 2014 i lavori sottopagati (o working poor) si basano essenzialmente su un ridotto numero di ore, oltre che su una bassa retribuzione, e si associano ad alcune tipologie familiari e lavorative. Lavori brutti, senza qualità, per cui servono basse competenze professionali e basta una scarsa istruzione, spesso in microimprese, che impiegano lavoratori al nero o sotto-occupati (perché occupati involontariamente a tempo parziale o in cassa integrazione). Coinvolgono famiglie che sono tanto più oltre la soglia di povertà quanto più aumentano i figli minori o comunque a carico e quanto più la madre non lavora, resta a casa per seguire le attività domestiche e di cura. I ricercatori dicono che la quota di famiglie con capofamiglia occupato che si trovano in condizioni di povertà assoluta, ovvero, con livelli di consumo inferiori alla sussistenza, e raddoppiata rispetto alla situazione precedente la crisi, passando dal 2,7 al 5,5 per cento. Il Cnel stima che le famiglie con reddito disponibile inferiore al 60 per cento del reddito mediano, quindi in condizione di povertà relativa, siano 2 milioni e 50mila, pari all’8,1 per cento delle famiglie italiane. In termini individuali, la in-work poverty interessava già nel 2011 quasi 6 milioni 500mila persone, pari al 10,6 per cento della popolazione residente. I dati più recenti sono ancora più agghiaccianti.
Fin qui la radiografia di quel cancro sociale che va anche sotto il nome di economia informale. Ma c’è dell’altro.
L’ultimo rapporto Benchmarking Working Europe sul mondo del lavoro nell’anno 2015 in Europa pubblicato a Bruxelles in questi giorni, dice infatti che il rischio povertà sta crescendo (nell’Europa a 27 dal 2008 al 2012 il rischio è aumentato di oltre 10 punti e nel 2013 di un altro 0,7 per cento fino a interessare il 24,5% delle famiglie) e anche in settori non tanto marginali della società, soprattutto nelle fasce giovanili, ragazzi sotto i 30 anni, anche altamente scolarizzati.
Colpa dei salari d’ingresso, degli apprendistati, dei tirocini non pagati, dei contratti a formazione, a tempo parziale involontario, a tempo determinato ultra flessibile, dei contratti da parasubordinato, delle partite Iva da finto autonomo, magari in qualche studio professionale «per fare esperienza», sempre prigionieri di una interminabile scala che alla fine dovrebbe portare a un lavoro regolare, con diritti e tutele, non ricattabile. Una scala piena di trappole da cui si rischia di non uscire mai, in una architettura alla Escher, per finire scoraggiati o Neet. Ma se prima della crisi era altamente improbabile che un impiegato o un piccolo imprenditore venisse risucchiato dalla in-work poverty, da qualche anno in queste categorie le percentuali in Italia, specialmente nel Mezzogiorno, sono a due cifre.
Si calcola inoltre che un giovane su 10 resti imprigionato nella trappola di un working poor e che solo poco meno della metà (43 per cento) di quelli che hanno iniziato con un lavoro sottopagato riesca a venirne fuori, gli altri continuano a girare in tondo o finiscono disoccupati, espulsi o auto-espulsi. L’Italia ha tassi di povertà occupazionale più alti della media europea, in crescita, mentre come occupazione a bassa remunerazione – lo scaglione di reddito appena superiore – ha una incidenza più bassa della media europea e persino dell’area-euro. Questo perché dove arriva il sindacato e dove arriva la contrattazione collettiva, si riesce generalmente a superare la soglia di povertà o almeno la sua trappola.
Per combattere la in-work poverty il Jobs Act prevede l’introduzione in via sperimentale di un salario (si parla di «compenso») minimo orario nei settori non regolati dai contratti collettivi. Sbilanciamoci! condivide le forti resistenze che vengono dai sindacati sui rischi di una deriva di decontrattazione e di generale ribasso delle retribuzioni. Perciò propone che si attui finalmente l’articolo 39 della Costituzione, rendendo effettiva l’efficacia erga omnes, per legge, dei contratti collettivi. E chiede che si coinvolgano le parti sociali per studiare un meccanismo che ancorando saldamente il salario minimo ai minimi contrattuali cerchi di estendere una tutela contro l’impoverimento eccessivo a settori di lavori atipici e finora non sindacalizzati.
Resta comunque essenziale che la battaglia contro i lavori poveri e l’impoverimento sia combattuta a livello europeo, una battaglia da fare collettivamente, governi e parti sociali, nel campo della strategia per l’agenda di Europa 2020. Sarà capace l’Europa di uscire dalla corsa a una sempre maggiore deregolamentazione del lavoro e del capitale per un nuovo patto sociale inclusivo e democratico? A questa domanda Richard Hyman, professore emerito in Relazioni industriali alla London School of Economics, ha ipotizzato tre risposte possibili in un recente saggio pubblicato dalla Rivista Internazionale del Lavoro (Ilo). La risposta più pessimista, o più realista, è che continui quella che chiama la rimercificazione del lavoro e con essa la distruzione del patto sociale nato nel dopoguerra per la ricostruzione. Il secondo scenario, ottimista e riformista, prevede l’azione di una élite progressista capace di sterzare verso una mondializzazione giusta e solidale e verso un Green New Deal. La terza ipotesi è quella di un movimento dal basso che unisca gli scontenti e la tradizionale base sociale dei sindacati, un movimento ancorato a identità collettive in modo da non rischiare una deriva fascistoide e lepenista ma in grado di cambiare i rapporti di forza, ora decisamente penalizzanti per le classi lavoratrici e il loro portato storico. Il professore londinese, che cita Antonio Gramsci, si dice cosciente del fatto che molta parte del mondo sindacale europeo sia divenuto una «forza prudente, conservatrice, preoccupata solo degli interessi dei loro aderenti», ma conserva la speranza che la sua natura solidaristica e mutualistica sia una radice ancora viva.