Questo breve articolo non prende spunto da una notizia, ma da un dato che non fa più notizia: “se non verrà fatto nulla per cambiare la tendenza, entro il 2025 in Europa ci saranno 146 milioni di persone ‘a rischio di povertà’, cioè tra il 25 e il 33 per cento della popolazione”.
Un cittadino europeo su tre, quindi, secondo il comunicato di Oxfam – un’organizzazione che solitamente si occupa di povertà nei paesi “in via di sviluppo” –, citando un rapporto di Eurostat. “Ci vorranno 25 anni per tornare agli standard di vita di prima della crisi”, afferma la nota. Le misure di austerità e il bail-out delle banche “troppo grandi per essere lasciate fallire”, costato ben 4.500 miliardi di euro all’Europa, stanno provocando solo danni, mentre le economie non “ripartono” e i debiti pubblici continuano ad aumentare. È il 10 per cento dei più ricchi a beneficiarne – sono gli unici per i quali è aumentato il reddito nell’ultimo decennio –, mentre la diseguaglianza aumenta soprattutto in Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna, Italia – i GIPSI – e Gran Bretagna. A questo si accompagna disoccupazione crescente – tra i giovani e i meno giovani, le donne, i non qualificati, gli immigrati – e salari in diminuzione, con buona pace di Guido Tabellini (non c’è bisogno di intervenire, ci pensa già il mercato quando viene lasciato fare…). In Europa, quasi una famiglia lavoratrice su dieci vive già sotto la “soglia” della povertà (non è ‘a rischio’, è proprio povera). La diseguaglianza nei GIPSI è comparabile ormai a quella di paesi come la Bolivia, il Paraguay o i Sudan.
Certo si può sempre discutere di quale definizione di povertà stiamo usando, di quale diseguaglianza stiamo parlando, di quali redditi e salari, di quale disoccupazione (e qualcuno lo fa, dicendo che sono i numeri a ingannare). Eurostat chiama l’indicatore AROPE – At Risk of Poverty or social Exclusion – per dire che non sono poveri solo coloro con un certo reddito (o spesa) sotto un dato livello, ma anche quelli che si trovano in una “situazione di severa privazione” ovvero coloro che vivono in famiglie “a bassa intensità lavorativa”. Con queste definizioni, l’AROPE in Europa nel 2012 (ultimo dato disponibile) aveva raggiunto il 24.8 per cento della popolazione – un quarto –, in aumento rispetto agli anni precedenti (non era mai stato così alto). Se in Germania, “solo” un cittadino su 5 è povero, in Italia ci avviciniamo al 30 per cento (come in Spagna e più che in Portogallo), in Grecia sono più di un terzo, mentre in Romania e Bulgaria sono quasi la metà della popolazione.
Le tendenze, ribadite ormai da molte fonti e riprese da molti articoli e studi, chiaramente dipingono una situazione allarmante. Ma questo non sembra cambiare il corso della politica economica e sociale europea, che ancora continua a ripercorrere gli schemi consueti e desueti. “I paesi della UE”, afferma il comunicato della Commissione a commento dei dati, “sono lontani dagli obiettivi per il 2020 e la situazione sociale in via di peggioramento per via della crisi economica sta minando alla base la sostenibilità dei sistemi di protezione sociale”. Non potrebbe essere più ipocrita. Per quanto possiamo ripetere l’allarme sulla situazione economica e sociale, quello che più colpisce è la cecità, la falsità, l’ipocrisia di questo modo di vedere. Che va denunciata, gridando contro questa impostura, reagendo: ipocrita Europa, ipocriti governanti!
Dare la colpa alla “crisi economica” per il peggiorare della situazione economica e sociale non solo è comodo, ma è fuorviante. Come dire: un incendio stava distruggendo le stalle, abbiamo chiuso l’acqua perché era insufficiente, ora bruciano anche i fienili, com’è possibile? Dobbiamo intervenire in modo che anche le abitazioni non corrano lo stesso pericolo, togliamo l’acqua! La logica del bail-out delle banche – salviamole per impedire una reazione a catena che travolga l’intero sistema economico – non solo ha salvato le banche – il settore bancario è tra quelli che sta registrando i maggiore profitti, ultimamente – ma non ha contribuito a isolare il sistema dalla crisi. Anzi, le banche hanno reagito strozzando il credito a imprese e famiglie, la liquidità in circolazione è stata usata per rafforzare la patrimonializzazione e ridurre il debito e l’economia è andata in crisi comunque. A pagare, come pare, come sempre, sono state le famiglie, il lavoro, il sistema di protezione sociale.
Se il sistema rischia di non essere più “sostenibile”, come dice la Commissione Europea – ed è già stato dimostrato e lo ripetiamo – non è perché “costa troppo” ma perché le risorse vengono spese altrove. Quello che colpisce è l’inerzia delle istituzioni, dei governi e delle forze politiche che accompagna, giustifica e alla fine promuove l’ipocrisia dell’allarme. Se la UE fosse davvero allarmata della situazione sociale che vede un quarto della popolazione in povertà opererebbe diversamente. Eppure non ci sono tracce di rivolta sociale, non si vedono proclami di forze politiche o leader di movimenti che prospettano rivoluzioni, tutto sembra rientrare nell’ordine naturale delle cose.
Se guardiamo bene al “dibattito” – di cosa si discute sui giornali stampati e on-line, nei partiti e in parlamento – ci rendiamo conto non solo di quanto siamo lontani dall’affrontare i problemi alla radice, ma anche della bassa qualità del dibattito stesso. La famosa “agenda” politica è fitta di tutt’altri temi, tutt’altre preoccupazioni. Sì, certo, c’è Repubblica che fa la lista degli “sprechi” e degli “enti inutili” (mi sembra fosse già stato Spadolini a dichiarare che “si dovevano eliminare gli enti inutili”). Poi c’è il Fatto Quotidiano che arringa contro questo o quel politico della “casta” che fa solo ciò che torna utile al proprio tornaconto (ma guarda, mentre l’evasore vicino di casa che fa?). C’è chi abbaia contro gli immigrati, anche tra i ministri del governo targato PD (alla faccia della solidarietà), c’è chi blatera contro i sindacati “perché non capiscono che il mondo è cambiato”, anche nel governo targato PD. Per non parlare dell’accidia che va registrata in tema di fatti internazionali: noi Italiani, naturalmente, non abbiamo colpe e nulla potremmo fare per quello che sta succedendo in Iraq, Siria, Libia, Palestina, Afghanistan, Ucraina. Il vuoto, l’encefalogramma piatto. Una grande classe di governo.
Tra tagliuzzi e ricette e promesse spending review, la pantomima quotidiana rimesta una minestra che è ormai indigesta anche ai più avvezzi alle peggiori telenovelas. In realtà, alla maggioranza della popolazione va bene così, che ormai ci ha fatto l’abitudine, come alle serie televisive. Finendo per crederci: “il sistema è iniquo, ingiusto, ma qualcuno ce la fa. Forse potrei essere io…”. Non solo però nessuno tiene presente che il sistema non è affatto “mobile” (se sei figlio di operaio, operaio resterai, o peggio), come viene fatto credere, ma la sua iniquità si sta solidificando a livello sovranazionale e globale. Cosa fanno le istituzioni dell’economia globale se non fare sì che il sistema continui sui binari tracciati?
Le tendenze degli ultimi anni sono chiare, evidenti. Una volta superata la “crisi”, forse la disoccupazione tornerà a diminuire (ma certo, l’innovazione toglierà posti di lavoro, che possiamo farci), ma saranno salari più bassi per un numero crescente di giovani e meno giovani, minori tutele, precarietà maggiore. La democrazia liquida ha prodotto l’economia liquida. È la miseria dei governanti – culturale, politica, morale – a fare impallidire, l’impudicizia, la mancanza di vergogna per avere fatto di un’ipocrisia un modus vivendi. Senza fare della “fenomenologia di Renzi” – che ogni giorno ce n’è una nuova – e senza entrare in personalismi, è una classe di potere, politica e burocratica, che va stigmatizzata. È la loro pochezza ipocrita che va denunciata, senza giacobinismi ma con indignazione.
Per ministri che solo un paio di decenni fa dai quaderni del Cespe o dai palchi dei convegni argomentavano contro il capitale e le politiche keynesiane troppo liberali, il “cambiamento di opinione” è di rilievo. Cambiare opinione è segno di intelligenza, a volte. Ma sono stati l’entrare nella “stanza dei bottoni” e fare “pappa e ciccia” con il potere che conta, e il pedigree riciclato nelle organizzazioni internazionali che hanno fatto il resto. Ora non sono più considerati dall’Economist, loro malgrado, “ex comunisti” al governo, che sono pur sempre ex funzionari di banche globali o organismi internazionali. Meglio che fare il professorino universitario in una cittadina di periferia, certo. Il buon PC Padoan, quand’era all’OCSE, sottolineava quanto l’austerity stesse dando buoni frutti. Ora fa il contabile al Tesoro, non ha cambiato quella opinione più di tanto (ma quella sulle politiche keynesiane, sì!), e fa dire al suo Presidente del Consiglio a Brussels che “l’Europa deve essere più flessibile” (bah). Ci sono giovani ministri e ministre e sottosegretari che con i loro tagliuzzi e ricette, come sartine alla scuola di cucito, alzano le loro vocine contro i “professoroni” pensando a Riforme (con la maiuscola) che loro vorrebbero destinate a passare alla Storia. Poi, il massimo della Storia cui sono capaci di ricorrere è … De Gasperi (l’atlantista, colui che ha fatto chiudere con la Resistenza e il CLN, che ha avuto tra i suoi gli Scelba e i Tambroni, ah! Com’è ingannevole la memoria!).
Guardiamo indietro alla Storia e ai nomi di questi ultimi anni: Moratti, Gelmini, Calderoli. Quali statisti, quale cultura politica! Anche guardando un po’ più indietro, chi e che cosa c’era stato? La flessibilità, Treu più Biagi più Fornero. Il professor Monti, il grande economista e, prima di lui, il fiscalista Tremonti. Ma c’era anche stato, tra i Ministri, uno che faceva il gesto dell’ombrello e si faceva fotografare in canottiera tuonando contro il berluskaiser… L’università italiana non è mai stata smantellata, vituperata, svilita come sotto i governi dei professori, milanesi e bolognesi: tagli e “meritocrazia” (e poi guardiamo a chi fa carriera). E i nostri ricercatori vanno all’estero.
L’Italia è uno dei Paesi che più è intervenuto in tema di legislazione del lavoro ed è oggi uno dei Paesi con il mercato del lavoro più flessibile (fonte: OCSE, ai tempi di Padoan). Quanto la flessibilità abbia migliorato la produttività del lavoro e dell’economia italiana è però sotto gli occhi di tutti. La flessibilità è servita ad aumentare la precarietà abbassando il livello reale dei salari (fonte: Eurostat) senza far aumentare la produttività. La Germania, dove i tre quarti dell’aumento dell’occupazione è stato nei mini-jobs e nel lavoro part-time, si è arricchita grazie ai paesi europei – cui vende il suo prodotto industriale – e comprandone il debito. Ma i governanti nella loro miseria non vogliono vedere, non sanno vedere, non potrebbere vedere che è altrove che dovrebbero intervenire per cambiare il rapporto tra salario e profitto, per una tassazione progressiva, per una redistribuzione del reddito, per uno stato a dimensione umana. E continuano a ripetere il mantra appreso altrove: “Bisogna rendere il mercato del lavoro più flessibile!” Il governo dell’economia, quello che regola la nostra quotidianità dipende più, comunque, dal nostro voto, dalla nostra opinione: le istituzioni sovranazionali hanno lentamente sottratto democrazia ai governi perdendo tanto in accountability quanto in credibility. Affidarsi ai mercati – finanziari, in particolare – e lasciare che un punto di PIL – che vale l’assistenza e il sostegno di milioni di persone – sia affidato ad una variazione del portafoglio di alcuni investitori non ha nulla da temere, evidentemente, dal giudizio degli elettori. Forse di quello delle consulting e dei consigli di amministrazione degli amici delle finanziarie, sì, però. Nemmeno Ian Fleming avrebbe saputo immaginare un governo più efficiente e meno fantascientifico della Spectre come quello dei Soci di Davos.
Il reddito europeo e mondiale negli ultimi decenni è aumentato, ha continuato ad aumentare come mai prima. Eppure oggi siamo in molti a stare peggio di trenta o quaranta anni fa. Siamo la maggioranza a stare peggio. E siamo disillusi, non partecipiamo neppure più alla dialettica democratica, non andiamo a votare, ci affidiamo a burloni e croupier che ci piace sentirli raccontare storielle – le loro sono più appetibili di quelle dei banchieri centrali e dei funzionari di Brussels. E cosa fanno i nostri governanti? Nella loro miseria non sanno vedere, e chi sta bene – una buona minoranza – se la gode in silenzio nella Compagnia di Davos, sui ghiacciai alpini che, per loro, non si ritirano mai.