Il reddito di base va maneggiato con cura; ma con la necessaria consapevolezza che esso è anche, inequivocabilmente, parte integrante dei diritti di cittadinanza
La recente crisi economica, che ha esacerbato i rischi di povertà e di vulnerabilità, e le tendenze di più lungo periodo del capitalismo contemporaneo, con i connessi fenomeni di precarizzazione e distruzione di tante occupazioni, rendono sempre più centrale la domanda di come assicurare a tutti un reddito decente. Questo volume si è concentrato sul reddito di base, intendendo con tale termine un trasferimento monetario, finanziato dalla collettività attraverso le imposte e volto ad assicurare a tutti uno zoccolo di reddito, liberamente spendibile sulla base delle preferenze dei beneficiari, senza vincoli di destinazione.
Quattro sono i principali contributi che vorremo avere offerto. Il primo è la messa a fuoco della pluralità di configurazioni che il reddito di base può assumere. Vi sono configurazioni al centro della discussione pubblica, quali il reddito di cittadinanza, ossia un reddito indirizzato a ciascun individuo a prescindere da qualsiasi condizione, e il reddito minimo, ossia un reddito vincolato alla condizione di essere poveri e, da alcuni decenni, alla condizione della disponibilità all’attivazione, innanzitutto, grazie al lavoro. Vi sono, altresì, l’imposta negativa, ossia un programma integrato di spesa-imposta, grazie al quale chi guadagna un reddito inferiore al reddito-soglia riceve un trasferimento (appunto, l’imposta negativa) e chi ha redditi superiori paga l’imposta (positiva) limitatamente alla parte di reddito eccedente il reddito-soglia; il reddito di partecipazione, ossia un reddito di cittadinanza vincolato alla disponibilità all’attivazione e dotazioni una tantum di capitale.
Le diverse configurazioni possono poi declinarsi in forme parziali. Ad esempio, tutte possono introdurre una qualche categorialità. Il reddito di cittadinanza può essere limitato ai minori; il reddito minimo agli anziani poveri e le imposte negative ai lavoratori.
Infine, qualsiasi sia la scelta, ciascuna configurazione può differenziarsi a seconda di quelle che abbiamo individuato come le variabili fondamentali di qualsiasi schema di reddito di base, vale a dire, i criteri di accesso, l’ammontare e la durata del trasferimento, le modalità di amministrazione e lo spazio occupato all’interno delle più complessive politiche di sostegno al reddito.
Conoscere questa varietà è utile contro il pressapochismo che talvolta si riscontra nel dibattito pubblico dove non è inusuale definire reddito di cittadinanza un reddito minimo e salario minimo un reddito di base, quando quest’ultimo rappresenta un trasferimento finanziato dalle imposte e il salario minimo una regolamentazione delle retribuzioni. Certamente, non esiste la definizione «corretta» e non abbiamo ricercato «purezze» terminologiche. Chiamare una cosa con un nome tipicamente riservato a un’altra rischia, tuttavia, di oscurare il senso e la forza delle proposte considerate. Inoltre, essere consapevoli della pluralità di scelte che restano aperte anche dopo avere effettuato la decisione iniziale a favore dell’una o dell’altra configurazione di reddito di base permette di contenere il rischio di effetti diversi dagli attesi. Il diavolo, insomma, è spesso nei dettagli.
Il secondo contributo è la presentazione aggiornata di cosa si sta muovendo in Europa e in Italia in materia di reddito di base. Si dovrebbe, anzi, parlare di redditi minimi, essendo questa la configurazione assunta nella pratica e, tranne alcune eccezioni, anche la più difesa sul piano delle proposte. Utilizzando le variabili fondamentali sopra richiamate, si sono messe a fuoco le principali differenze e somiglianze tra gli schemi di reddito minimo oggi esistenti nei Paesi europei. Le somiglianze includono diversi aspetti critici, quali il difficile accesso alla misura da parte delle fasce giovanili, la capacità, in alcuni casi piuttosto scarsa, di contrastare la povertà, e i vincoli, crescentemente sanzionatori, relativi alla disponibilità all’attivazione. A completare il quadro, sono state ricostruite le principali azioni intraprese dall’Unione europea in ambito di lotta alla povertà e all’esclusione sociale e si sono descritte alcune recenti proposte a favore dell’introduzione, nell’Unione, di un reddito di base.
Successivamente, abbiamo descritto l’elevata frammentazione, tanto categoriale quanto territoriale, delle misure di contrasto alla povertà esistenti in Italia. Abbiamo, altresì, descritto e confrontato nel dettaglio le principali proposte a favore di un reddito di base oggi presenti nel nostro paese. Tali proposte, pur differenziandosi lungo molte dimensioni, sono tutte, a prescindere dal nome, misure di reddito minimo: sono indirizzate a chi è povero, ancorché adottino soglie diverse di povertà e modalità differenti di prova dei mezzi. Tutte contemplano, inoltre, richieste di attivazione attraverso il lavoro, talora presentando vincoli anche più marcati di quelli esistenti negli altri Paesi europei.
Il terzo contributo è la disamina delle principali obiezioni che, nella letteratura e nel dialogo pubblico, sono mosse al reddito di cittadinanza e al reddito minimo. Seppure con argomentazioni in parte diverse, esse vertono essenzialmente sulle carenze nella tutela dai bisogni, sul parassitismo e sull’adozione di una visione riduttiva della giustizia sociale, che si limita a assicurare un po’ di assistenza/compensazione/protezione. Comportando una diminuzione dell’offerta di lavoro, parassitismo e assistenza comprometterebbero, altresì, l’efficienza.
Il reddito di cittadinanza sarebbe poi insostenibile sotto il profilo finanziario, mentre il reddito minimo, con il vincolo all’attivazione, comprometterebbe l’indisponibilità dei diritti (rendendo il trasferimento dipendente dai comportamenti) e, con la selettività, sancirebbe una divisione fra cittadini di serie A e di serie B.
Abbiamo risposto a queste obiezioni, mostrando come sia il reddito di cittadinanza sia il reddito minimo siano difendibili in termini non solo di giustizia sociale, ma anche di efficienza, in quanto stimolo, fra l’altro, alla cooperazione. Il contributo appare particolarmente importante negli attuali mercati del lavoro, caratterizzati da transizioni frequenti da un posto di lavoro a un altro, come sottolineato anche da molti documenti europei sul costo delle «non politiche sociali».
Dirimente è come si specificano le diverse variabili. Per quanto concerne i redditi minimi, ad esempio, dirimente, ci sembra l’adozione di una prospettiva di «reciprocità equa» che obbliga a definire i processi di selezione e le misure di attivazione da una posizione di comune uguaglianza morale fondamentale.Considerando i redditi minimi esistenti in Europa e proposti per l’Italia analizzati nei capitoli secondo e terzo, la realtà attuale ci sembra, tuttavia, spesso assai distante dal soddisfare tale requisito.
La consapevolezza delle ragioni etiche ed economiche a favore sia del reddito di cittadinanza sia del reddito minimo non può, tuttavia, mettere in ombra le criticità di entrambi. Il reddito di base, qualunque sia la configurazione, è una misura delicata. Il che spinge ancora una volta a sottolineare l’importanza dei dettagli. Ad esempio, nonostante le ragioni in termini di diritto alle risorse comuni nonché di diritto a un’esistenza decente, il reddito di cittadinanza rimane esposto a rischi di parassitismo. Similmente, nonostante le possibili ragioni in termini di diritto a una compensazione in presenza di cattiva sorte, il reddito minimo rimane esposto ai tanti rischi della selettività. Basta che si definiscano in modo leggermente diverso la soglia che separa gli aventi dai non aventi diritto e/o le risorse da verificare nella prova dei mezzi e varia anche il novero dei beneficiari.
Proprio alla luce della compresenza di diverse luci e ombre, e questo è il quarto contributo, abbiamo presentato due possibili configurazioni che ci paiono in grado di minimizzare i possibili punti critici. Esse sono il reddito di partecipazione e quello che abbiamo definito, nonostante l’apparente ossimoro, un reddito minimo di cittadinanza.
Va, tuttavia, riconosciuto che, per quanto importanti, tali configurazioni e il più complessivo reddito di base non possono e non devono essere caricati di tutto l’onere del contrasto alla povertà e alla vulnerabilità che i mercati hanno creato e stanno creando. Sono, pertanto, urgenti anche una ridefinizione delle responsabilità del mercato e delle imprese che in esso operano e, dunque, nuovi equilibri fra pre-distribuzione e, con essa, politiche dell’occupazione e politiche di regolazione dei mercati e delle imprese, e redistribuzione.
In breve, il volume offre una gamma di conoscenze analitiche, descrittive e normative a chi vuole opporsi sia alle accuse di assistenzialismo spesso mosse al reddito di base, sia alle sterili contrapposizioni fra sostenitori del reddito minimo e sostenitori del reddito di cittadinanza, sia, ancora, alla sempre presente retorica della perversità (Hirschman, cit.) secondo cui qualsiasi intervento, anche se mosso dalle migliori intenzioni, è destinato a generare esiti negativi.
L’abbiamo detto più volte. Il reddito di base va maneggiato con cura; ma con la necessaria consapevolezza che esso è anche, inequivocabilmente, parte integrante dei diritti di cittadinanza.
Il testo pubblicato sono le conclusioni al volume di Elena Granaglia e Magda Bolzoni “Il reddito di base”, in uscita per Ediesse a inizio aprile.