Il patrimonio immobiliare pubblico vale 400 miliardi. E si potrebbe usare per una nuova e diversa politica delle abitazioni e degli spazi di lavoro, che risponda a un bisogno sociale ampiamente diffuso, riqualifichi i territori e attivi risorse per lo sviluppo. Ecco come
Il ricorso alla dismissione del patrimonio immobiliare pubblico per contenere la crescita dello stock del debito pubblico è un’ipotesi ricorrente nella strategia degli ultimi governi; lo abbiamo visto ultimamente nella manovra di luglio, nelle esternazioni di Tremonti in vista della successiva manovra abortita e in quelli di esponenti del governo Monti. È un progetto che rivela la visione finanziaria della gestione pubblica che confida di realizzare – attraverso il ricorso a fondi immobiliari, vendite all’asta, cartolarizzazioni – un consistente abbattimento del debito, aspettativa peraltro non avvalorata dai risultati dei due Scip (Società Cartolarizzazione Immobili Pubblici s.r.l.), in particolare del secondo non privo di pesanti strascichi (qualche conto qui). Colpisce che nessuno ricordi tale pesante bagaglio nel curriculum dell’ex ministro dell’economia, nel momento in cui, dall’attuale posizione libera da responsabilità governative, tuona contro il predominio della finanza sull’economia reale e sulla politica (si veda l’intervista di Tremonti al Corriere della sera). Allo stesso tempo, c’è una corsa, o una rassegnazione, alle dismissioni immobiliari anche da parte dei Comuni, pressati dalle esigenze di fare cassa in seguito alla pesantissima riduzione di fondi che hanno subìto per le politiche di austerity dello Stato centrale. Una strada che pare obbligata anche a giunte di tutt’altro orientamento politico sul fronte del beni comuni, come quella di Napoli.
Ma per molti l’insistenza sulle dismissioni non esprime solo la necessità di far cassa, anzi costituisce una grande opportunità. E’ quanto sostengono, ad esempio, ambienti intellettuali come quelli dell’Istituto Bruno Leoni; che vedono nella dismissione immobiliare l’occasione per ridurre la spesa pubblica corrente (per interessi e per costi di manutenzione) nella convinzione che l’amministrazione pubblica sia inevitabilmente inefficiente nel gestire il proprio patrimonio. Anche se si dovesse accettare la critica al lassismo del settore pubblico per aver scaricato, nel passato, le proprie incapacità sul debito pubblico e da qui alle generazioni future, non sembra che lo strumento delle dismissioni non presenti il medesimo inconveniente considerato che l’alienazione del patrimonio collettivo è anch’essa un’operazione che impoverisce le prossime generazioni (come giustamente sottolineato da Scurati). Inoltre, vicende giudiziarie lontane e vicine hanno dimostrato come l’ombra della mala-gestione si allunghi anche sul momento delle vendite, traducendosi istantaneamente in indebite rendite di posizione a vantaggio dei privati che sono trovati ad acquistare patrimoni pubblici a prezzi da saldo. Infine, non è una giustificazione nemmeno il fatto che questo tipo di intervento sia presente nei programmi elettorali di entrambi i maggiori partiti, constatazione che dimostrerebbe solo come l’ottica finanziaria sia ormai dilagante anche a livello di gestione pubblica.
Il patrimonio immobiliare pubblico è ovviamente una ricchezza appetibile. Il suo ammontare è piuttosto consistente (stimata in 400 miliardi di euro ai valori di mercato), dove la maggior parte degli immobili è in mano agli enti territoriali e quindi con una tendenza del loro numero ad accrescersi per effetto dell’attuazione del federalismo demaniale. Va tuttavia tenuto presente che si tratta di un patrimonio destinato in larga parte al funzionamento delle amministrazioni e, a meno di una razionalizzazione degli spazi da esse utilizzati, o del recupero di quella parte dell’Edilizia Residenziale Pubblica (ERP) che non svolge più le finalità sociali per le quali è destinata, solo una sua quota, stimata in 40 miliardi di euro, è suscettibile di essere collocata sul mercato in tempi relativamente brevi (dieci anni). Si tratta di una somma considerevole in termini assoluti, la cui realizzazione avrebbe comunque un rilievo piuttosto ridotto sul riassorbimento del debito pubblico; considerata anche la riduzione degli oneri finanziari e i risparmi di spesa per l’eliminazione dei costi di manutenzione, la loro alienazione migliorerebbe i conti pubblici di qualche miliardo di euro all’anno.
E’ comprensibile dunque che tale manciata di miliardi faccia gola, in un momento come quello che stiamo vivendo. Ma d’altro canto è evidente che si tratta di una prospettiva decisamente non risolutiva del problema generale; di fronte alla quale è utile tener presente che l’alienazione del patrimonio pubblico è uno strumento di redistribuzione della ricchezza esistente a favore dei più ricchi. Ciò risulta oltremodo evidente in presenza di un settore pubblico “improvvido” che si disfa di proprietà collettive a vantaggio dei soggetti (per lo più privati) più “avvertiti” e quindi in grado di sfruttare informazioni, conoscenze, competenze per il proprio stretto tornaconto (come attestano – ultime in ordine di tempo – anche le vicende delle case al Colosseo, tra cui i “colpi di fortuna” che hanno recentemente interessato il ministro Patroni Griffi e l’onorevole Giuliano Cazzola). Di fronte al serpeggiare di proposte che, sfruttando la pretesa modernità della finanza, mirano a privatizzare in maniera soft risorse collettive, è necessario ricercare proposte alternative che pongano su un terreno diverso queste iniziative per il risanamento dei conti pubblici. Per individuare un tale terreno è però necessario rovesciare l’ottica finora dominante: occorre passare dalla finanza alla produzione, dagli interessi di pochi (i soliti “informati”) a quello di molti (per i quali l’abitazione è un bisogno primario non soddisfatto). E introdurre strumenti nuovi, in grado di incrociare anche la nuova domanda di spazi di vita e di lavoro, proveniente soprattutto dalle giovani generazioni, abituate alla condivisione, sia a causa dell’ambiente tecnologico in cui sono cresciute che per necessità.
Una nuova “politica della casa”, con ottica capovolta e strumenti diversi, si può introdurre con il conferimento dell’immobile pubblico a società che, dietro pagamento di una rendita prefissata, siano disposte a riorganizzarlo e a ristrutturarlo, per trasferirlo come abitazione, o come esercizio commerciale, a individui o società. Non dovrebbero essere coinvolti nel progetto i classici ‘palazzinari’, ma direttamente i beneficiari finali, insieme ai progettatori e architetti che gestiscono la ristrutturazione e il passaggio d’uso. Lo schema organizzativo generale potrebbe essere questo: l’ente pubblico affida a una società di architetti e progettisti il compito di riqualificare e ristrutturare l’immobile, coinvolgendo nel processo gli utenti finali, alle cui esigenze il progetto deve essere rivolto; questi ultimi si assumono l’impegno finanziario rimanendo comproprietario, pro-quota con l’ente pubblico, dell’immobile. Ovviamente si tratta di uno schema che si può dettagliare e declinare in vari modi, purché resti chiaro l’assenza di spazio per la speculazione immobiliare e il coinvolgimento delle comunità interessate (dalla fase della lavorazione a quella finale dell’abitazione)
L’intervento favorisce la promozione di società, anche piccole, di architetti e tecnici con l’obiettivo di predisporre edifici a fini di cohousing e di strutture per il coworking, creando un circuito in cui le nuove attività di progettazione sono direttamente connesse a specifici bisogni abitativi e di lavoro; ha inoltre un effetto di volano occupazionale per una filiera professionale e imprenditoriale importante per la valorizzazione di una cultura architettonica del nostro Paese che sia finalizzata al recupero e alla manutenzione degli edifici esistenti, e alla loro riconversione energetica. Il patrimonio immobiliare pubblico verrebbe riportato, da un lato, all’interno di un rilancio della politica della casa – o meglio di una “politica industriale della casa” per il ruolo cruciale attribuito a chi progetta e realizza la ristrutturazione – rispetto alle passate esperienze asfittiche e poco convincenti, come attestano i risultati dell’ERP; e dall’altro si aprirebbe a un uso nuovo, come spazio per la nascita di attività e imprese giovanile caratterizzate da alto tasso di condivisione e innovazione sociale (esperienze che già stanno nascendo nelle realtà metropolitane, ma rischiano di essere strozzate dalla impraticabilità del mercato immobiliare: tra le altre, è molto vitale e innovativa la realta di The Hub, attiva a Milano, Rovereto e in apertura anche a Siracusa, Bari e Roma).
In definitiva, il conferimento degli immobili come capitale permette la loro valorizzazione e, per i molti attualmente in stato di abbandono, il loro recupero; sollecita l’attivazione di una molteplicità di piccole imprenditorialità (cooperative di architetti) data la dispersione dei beni da ristrutturare a livello locale; risponde a un bisogno sociale ampiamente sentito (di single e coppie giovani, italiani e stranieri) sia di abitazione che di ambienti di lavoro (per spazi temporanei di attività professionale, di attività culturali e di intrattenimento); responsabilizza i futuri possessori sia nella progettazione che nella successiva gestione; ridimensiona i costi di manutenzione sostenuti dagli enti pubblici sul loro patrimonio immobiliare; calmiera il mercato degli affitti; fornisce una rendita periodica all’ente pubblico permettendogli di alleggerire permanentemente la gestione economica e quindi indirettamente il contenimento del debito pubblico. Così valorizzato il patrimonio pubblico rappresenta una grande opportunità non solo per la riqualificazione del territorio ma anche, se non soprattutto, per attivare in maniera innovativa risorse disponibili per lo sviluppo dell’attività economica. Ulteriore postilla di tale intervento è un effettivo spostamento di risorse dallo Stato centrale ai Comuni che, veri protagonisti dell’operazione, otterrebbero con il conferimento di una parte del patrimonio immobiliare statale quel “risarcimento” loro dovuto per tutto quel che li è stato tolto nel corso degli ultimi anni. Nonché un passo avanti effettivo sulla strada di quel federalismo solidale tanto invocato a parole quanto calpestato dai fatti.
Sono molte le qualificazioni che una tale proposta richiederebbe per la sua concreta implementazione. La principale è naturalmente l’elaborazione di una struttura di procedure amministrative che garantisca la trasparenza delle operazioni, sia nella fase del conferimento dei capitali da utilizzare che nella successiva fase di attuazione del progetto, che va accompagnata da una costante attenzione per la correttezza tecnica e per quella contabile-amministrativa. Il carattere locale dell’intervento, la presumibile dimensione limitata dei singoli progetti, il coinvolgimento diretto degli utilizzatori finali ridurrebbero il rischio di cadere nelle malversazioni che hanno caratterizzato le due Scip; un di più di trasparenza – ad esempio, la previsione della totale pubblicità e accessibilità on line di tutti gli atti che caratterizzano l’operazione – si rende necessario, dato che sulla questione “casa” la politica è sempre inciampata rovinosamente in passato, sia a livello generale che individuale.
Un altro punto critico riguarda la questione dei finanziamenti, soprattutto per i casi di ristrutturazioni particolarmente rilevanti. A questo riguardo, oltre a prevedere la possibilità che il capitale conferito possa essere posto a garanzia, parziale o totale, dell’iniziativa, non va trascurato che gli eventuali mutui richiesti riguarderebbero solo la parte relativa ai lavori di ristrutturazione, alleggerendo di molto l’onere finanziario rispetto a un eventuale acquisto sul mercato di una casa dallo standard equivalente. Si tenga d’altra parte presente che limitandosi l’ente pubblico al solo conferimento in uso del capitale immobiliare, il rischio dell’attività non sarebbe a suo carico ma rimarrebbe all’impresa produttrice e agli eventuali beneficiari finali dell’iniziativa.
È evidente che questa forma di intervento presuppone il convincimento che l’ente pubblico non sia inevitabilmente inefficiente dal punto di vista economico, mentre possa essere molto più incisivo ai fini dell’equità sociale. È questo convincimento – che richiede un’attenzione continua sulla trasparenza e buona gestione dei procedimenti – che permette di contestare l’utilizzo del patrimonio immobiliare pubblico come risorsa finanziaria da trasferire (definitivamente) in mani private (più spesso società immobiliari poco trasparenti) e giustifica invece il suo conferimento, come capitale produttivo, a soggetti in grado di attivare la predisposizione di servizi socialmente meritevoli di sostegno.
Di fronte alle pressanti esigenze finanziarie di correzione dei conti pubblici, si può assistere all’obiezione che la rendita ottenibile dall’ente pubblico è molto minore dei fondi che si possono ottenere con la dismissione del suo patrimonio. A essa si può replicare che i cespiti delle dismissioni, anche se in un primo momento più elevati, costituiscono delle entrate straordinarie una tantum, mentre dal conferimento degli immobili i bilanci pubblici ottengono un flusso strutturale di introiti che non intacca lo stock di capitale. Ma soprattutto che un riorientamento della politica (industriale) della casa nella direzione proposta dimostrerebbe soprattutto che è possibile conciliare il rispetto dei vincoli di bilancio con la valorizzazione dell’attività produttiva e con il sostegno di bisogni sociali prioritari. Per quanto ridotto, il contributo a una crescita produttiva attenta alle necessità della società sarebbe una prova che dalla crisi si può uscire non con più finanza, ma utilizzandola per favorire una maggiore solidità economica e sociale.