Sabato 5 marzo a Roma migliaia di persone scenderanno in piazza per il “cessate il fuoco” in Ucraina e non solo temporaneo: sarà una grande manifestazione contro la guerra e per ribadire le ragioni di una soluzione negoziata e condivisa. Consapevoli che questa guerra non si fermerà con le armi, ma facendole tacere. Non si bloccherà mostrando i muscoli, ma percorrendo le vie del dialogo e del confronto; non si arginerà con il riarmo, ma con il disarmo.
L’aggressione e l’invasione russa dell’Ucraina hanno sollevato proteste in tutto il mondo: migliaia di pacifisti russi sono in carcere; in tantissimi paesi si sta manifestando per chiedere la pace. Ma non si pone fine a questa guerra scegliendo la strada del protagonismo e dell’espansione della Nato, dell’invio delle armi da parte dei governi (incluso il nostro), della mobilitazione militare in cui molti paesi europei si sono gettati. Invece di favorire una nuova escalation, bisogna smontare le dinamiche militari del conflitto in corso. Inviare armi significa alimentare la guerra, non fermarla.
Di fronte all’aggressività criminale di Putin l’occidente ha sbagliato prima e sta sbagliando ora. Ha sbagliato prima fomentando l’espansione della Nato fin sotto le porte di Mosca: una provocazione da «guerra fredda», foriera di conseguenze drammatiche, come stiamo vedendo in queste ore. Sta sbagliando ora, alimentando una logica di guerra, invece di disinnescarla. Quanto a Putin, speriamo che questa sanguinosa avventura militare sia per lui un boomerang, un’accelerazione verso il suo suicidio politico e verso la ribellione della società russa. La sofferenza della popolazione ucraina è enorme e come ogni guerra è la popolazione civile a farne le spese. Non bisogna, non si deve essere neutrali come se fosse una guerra tra Stati. Non bisogna essere equidistanti tra gli eserciti e la popolazione civile. Bisogna stare da una parte: dalla parte delle vittime ucraine, dei pacifisti russi, di tutti quelli che non si arrendono alla logica delle armi, di tutti quelli che pensano che solo la pace sia la soluzione. Dalla parte dei diritti umani.
Il governo italiano si è allineato, decidendo insieme ad altri paesi europei di inviare armi e prendendo a pretesto la guerra in Ucraina per un enorme aumento delle spese militari, da 25 a 38miliardi si dice, spese che già quest’anno (prima della guerra) sono aumentate del 5,4%. Nel 2021 le spese militari nel mondo sono cresciute – rispetto al 2020 – di 50miliardi di dollari, dieci volte tanto il fondo mondiale Covax, creato durante la pandemia per inviare vaccini ai paesi poveri.
Ma la guerra e le armi non hanno portato la pace e la sicurezza in questi anni e si illude chi pensa che con le armi arrivi la stabilità: sta a dimostrarlo il fallimento della guerra americana e della Nato in Afghanistan e succederà lo stesso con l’aggressione e l’invasione russa in Ucraina. I due Bush ci avevano promesso la pace in Medio Oriente, dopo le guerre all’Iraq e abbiamo avuto un conflitto senza fine in Siria e la perdurante condizione bellica del tallone di ferro israeliano sulla popolazione palestinese.
La manifestazione di sabato serve a ribadire questi principi. Ed è un peccato, un errore, che dalla versione finale della convocazione della manifestazione, siano scomparse la critica al governo italiano per l’invio delle armi e all’allargamento della Nato. Bisogna evitare che la manifestazione si trasformi in una raccolta di posizioni contrastanti e ambigue che bene non fanno al movimento per la pace.
Le posizioni devono essere chiare. Serve un nuovo assetto delle relazioni internazionali fondato non sull’allargamento della Nato, ma su un sistema di sicurezza comune ancorato alle Nazioni Unite e agli altri organismi internazionali per la sicurezza e la cooperazione in Europa. Tutto questo, nel rispetto dei principi della legalità internazionale, della sovranità, dell’autodeterminazione dei popoli, del rispetto dei diritti delle minoranze. Ottenuto il «cessate il fuoco» – queste ore dei negoziati di Brest alimentano le speranze -, allora si può anche prevedere un’azione immediata delle Nazione Unite, concordata tra Russia e Ucraina, per una missione di peace keeping delle Nazioni Unite con un contingente di paesi condiviso con le rispettive parti.
Finita la stagione dei blocchi, dopo il 1989, l’errore drammatico degli americani e degli europei è stato quello di pensare di fondare la stabilità del pianeta sulla Nato, un’alleanza militare di parte. In realtà occidentali e Nato avevano più semplicemente come obiettivo di allargare la loro sfera di influenza, illudendosi che Russia e Cina sarebbero stati a guardare.
L’Ucraina, la popolazione civile è vittima di questo gioco, di questi calcoli sbagliati, degli interessi contrapposti di Nato e Russia che non hanno avuto nessuna intenzione a ricomporre le divisioni in una soluzione condivisa. Fermata la guerra, prima possibile, è necessario costruire la pace. Bisogna farlo su basi diverse. E queste non sono le armi e una nuova guerra fredda, ma un diverso assetto delle relazioni internazionali, fondato non sulle alleanze militari, ma sulle Nazioni Unite.
Sabato 5 marzo a Roma migliaia di persone scenderanno in piazza per il “cessate il fuoco” in Ucraina e non solo temporaneo: sarà una grande manifestazione contro la guerra e per ribadire le ragioni di una soluzione negoziata e condivisa. Consapevoli che questa guerra non si fermerà con le armi, ma facendole tacere. Non si bloccherà mostrando i muscoli, ma percorrendo le vie del dialogo e del confronto; non si arginerà con il riarmo, ma con il disarmo.
L’aggressione e l’invasione russa dell’Ucraina hanno sollevato proteste in tutto il mondo: migliaia di pacifisti russi sono in carcere; in tantissimi paesi si sta manifestando per chiedere la pace. Ma non si pone fine a questa guerra scegliendo la strada del protagonismo e dell’espansione della Nato, dell’invio delle armi da parte dei governi (incluso il nostro), della mobilitazione militare in cui molti paesi europei si sono gettati. Invece di favorire una nuova escalation, bisogna smontare le dinamiche militari del conflitto in corso. Inviare armi significa alimentare la guerra, non fermarla.
Di fronte all’aggressività criminale di Putin l’occidente ha sbagliato prima e sta sbagliando ora. Ha sbagliato prima fomentando l’espansione della Nato fin sotto le porte di Mosca: una provocazione da «guerra fredda», foriera di conseguenze drammatiche, come stiamo vedendo in queste ore. Sta sbagliando ora, alimentando una logica di guerra, invece di disinnescarla. Quanto a Putin, speriamo che questa sanguinosa avventura militare sia per lui un boomerang, un’accelerazione verso il suo suicidio politico e verso la ribellione della società russa. La sofferenza della popolazione ucraina è enorme e come ogni guerra è la popolazione civile a farne le spese. Non bisogna, non si deve essere neutrali come se fosse una guerra tra Stati. Non bisogna essere equidistanti tra gli eserciti e la popolazione civile. Bisogna stare da una parte: dalla parte delle vittime ucraine, dei pacifisti russi, di tutti quelli che non si arrendono alla logica delle armi, di tutti quelli che pensano che solo la pace sia la soluzione. Dalla parte dei diritti umani.
Il governo italiano si è allineato, decidendo insieme ad altri paesi europei di inviare armi e prendendo a pretesto la guerra in Ucraina per un enorme aumento delle spese militari, da 25 a 38miliardi si dice, spese che già quest’anno (prima della guerra) sono aumentate del 5,4%. Nel 2021 le spese militari nel mondo sono cresciute – rispetto al 2020 – di 50miliardi di dollari, dieci volte tanto il fondo mondiale Covax, creato durante la pandemia per inviare vaccini ai paesi poveri.
Ma la guerra e le armi non hanno portato la pace e la sicurezza in questi anni e si illude chi pensa che con le armi arrivi la stabilità: sta a dimostrarlo il fallimento della guerra americana e della Nato in Afghanistan e succederà lo stesso con l’aggressione e l’invasione russa in Ucraina. I due Bush ci avevano promesso la pace in Medio Oriente, dopo le guerre all’Iraq e abbiamo avuto un conflitto senza fine in Siria e la perdurante condizione bellica del tallone di ferro israeliano sulla popolazione palestinese.
La manifestazione di sabato serve a ribadire questi principi. Ed è un peccato, un errore, che dalla versione finale della convocazione della manifestazione, siano scomparse la critica al governo italiano per l’invio delle armi e all’allargamento della Nato. Bisogna evitare che la manifestazione si trasformi in una raccolta di posizioni contrastanti e ambigue che bene non fanno al movimento per la pace.
Le posizioni devono essere chiare. Serve un nuovo assetto delle relazioni internazionali fondato non sull’allargamento della Nato, ma su un sistema di sicurezza comune ancorato alle Nazioni Unite e agli altri organismi internazionali per la sicurezza e la cooperazione in Europa. Tutto questo, nel rispetto dei principi della legalità internazionale, della sovranità, dell’autodeterminazione dei popoli, del rispetto dei diritti delle minoranze. Ottenuto il «cessate il fuoco» – queste ore dei negoziati di Brest alimentano le speranze -, allora si può anche prevedere un’azione immediata delle Nazione Unite, concordata tra Russia e Ucraina, per una missione di peace keeping delle Nazioni Unite con un contingente di paesi condiviso con le rispettive parti.
Finita la stagione dei blocchi, dopo il 1989, l’errore drammatico degli americani e degli europei è stato quello di pensare di fondare la stabilità del pianeta sulla Nato, un’alleanza militare di parte. In realtà occidentali e Nato avevano più semplicemente come obiettivo di allargare la loro sfera di influenza, illudendosi che Russia e Cina sarebbero stati a guardare.
L’Ucraina, la popolazione civile è vittima di questo gioco, di questi calcoli sbagliati, degli interessi contrapposti di Nato e Russia che non hanno avuto nessuna intenzione a ricomporre le divisioni in una soluzione condivisa. Fermata la guerra, prima possibile, è necessario costruire la pace. Bisogna farlo su basi diverse. E queste non sono le armi e una nuova guerra fredda, ma un diverso assetto delle relazioni internazionali, fondato non sulle alleanze militari, ma sulle Nazioni Unite.