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Pensioni, un ponte tra le generazioni

Rendere flessibile il passaggio dal lavoro al non lavoro: part time per chi esce, tutoraggio per chi entra. Perché il rapporto tra vecchi e giovani non è solo contabile

Periodicamente si torna a parlare della riforma del sistema previdenziale con l’obiettivo principale (se non unico) di costruire un assetto sostenibile per la finanza statale, in una fase nella quale l’equilibrio di bilancio continua ad essere, soprattutto per il peso del debito pregresso, una variabile fondamentale di riferimento. Raramente si parla però delle implicazioni delle scelte di politica previdenziale sull’assetto del mercato del lavoro, con riferimento in particolare alle dinamiche connesse a una profonda riorganizzazione del concetto stesso di lavoro nelle strutture economiche e sociali del nostro tempo. Tutta la discussione è impostata in logica di equilibrio finanziario, e si rischia per questa via di realizzare, faticosamente, aggiustamenti contabili che non intervengono sui mutamenti strutturali che al contrario occorre, prima o poi, affrontare.

Sono invece molteplici le implicazioni di politica del lavoro connesse alla riforma del sistema previdenziale. Emergono almeno tre questioni, che meritano di essere affrontate, se si vuole davvero impostare una riforma del sistema previdenziale in chiave strutturale: l’equilibrio intergenerazionale, il ruolo dei lavoratori migranti e la crescita del lavoro autonomo di seconda generazione.

In questa nota ci concentriamo sulla prima questione, vale e a dire il rapporto tra vecchi e giovani nella struttura del mercato del lavoro, che è profondamente condizionato, per come la discussione dell’assetto previdenziale è stata sinora impostata, da un allungamento della vita lavorativa attiva che determina ulteriore barriera all’ingresso dei giovani sul mercato del lavoro, soprattutto in una fase del mercato che non crea offerta occupazionale aggiuntiva in dimensioni significative, se non in logica di precariato.

Il dibattito sulla riforma del sistema previdenziale, e gli interventi normativi che sono stati sinora condotti, sono impostati in chiave esclusivamente di allungamento della vita lavorativa attiva, per effetto della insostenibilità di un sistema che fa gravare su una platea minore di giovani contribuenti il peso di un sistema squilibrato sotto il profilo degli assetti demografici. Accanto all’allungamento della durata della vita lavorativa, si è introdotto il sistema contributivo, in modo tale che ciascuno riceva, al momento della pensione, un salario pensionistico proporzionale a quanto ha contribuito a costruire con i suoi versamenti nell’arco della vita lavorativa.

Non si è posto però in questo modo mano ad un aspetto rilevante delle trasformazioni connesse alle curve demografiche: per la centralità che il lavoro ha assunto nella vita di ciascuno, si sta perdendo l’occasione di costruire un passaggio meno traumatico tra vita lavorativa e vita in assenza di lavoro. La scelta che è ancora al centro delle discussioni è solo lo spostamento del baricentro di tale passaggio, per andare incontro alle necessità di sostenibilità della finanza pubblica.

Non che questo tema non sia ovviamente importante. Ma forse, per la vita delle persone, è ancor più importante che questa transizione sia vissuta in modo meno traumatico, per rendere più flessibile un momento di trasformazione che merita maggiore attenzione, soprattutto quando si impone comunque, per effetto di proiezione delle curve demografiche, la necessità di allungare la durata della vita lavorativa attiva.

Perché non pensare a forme di accompagnamento verso la pensione meno rigide, introducendo, accanto all’allungamento della durata della vita lavorativa, misure di riduzione del tempo di lavoro nella fase conclusiva dell’impiego di una persona ?

Si renderebbe per questa strada possibile una transizione meno traumatica tra tempo di lavoro e tempo di non lavoro, istituzionalizzando anche un passaggio di consegne e di esperienze tra lavoratori esperti e giovani che si avviano al mercato del lavoro. In termini concreti, è possibile ipotizzare che gli ultimi 3 o 5 anni di vita lavorativa, rispetto al termine fissato per poter aver diritto alla pensione, siano caratterizzata da forme di part time istituzionalizzato, nel quale al lavoratore in corso di uscita dal mercato del lavoro siano affidati compiti di affiancamento e di formazione delle giovani generazioni presenti nell’organizzazione.

Una misura di questo genere consente intanto di rendere meno conflittuale l’obiettivo di allungamento della vita lavorativa, in quanto gli anni aggiuntivi necessari a raggiungere la sostenibilità finanziaria sarebbero così caratterizzati da un tempo di lavoro ridotto, che diventa un sistema di transizione tra vita attiva e raggiungimento della pensione. Per molte persone, il passaggio brusco dalla condizione lavorativa di pieno impegno alla immediata trasformazione dell’agenda di vita in una condizione di assenza totale lavorativa costituisce un trauma, che potrebbe essere in questo modo evitato, creando un ponte tra le due esperienze.

Al fianco di questa misura si può costruire anche un ponte tra le generazioni. Ciascuna persona esperta che entra in questa fascia di transizione sarebbe difatti affiancata da un giovane ancora non occupato, che viene posto in fase di formazione e di inserimento, con analogo contratto part time: per l’azienda, i costi dei due contratti part time devono essere eguali al costo della risorsa full time esperta.

Si favorirebbe per questa via la trasmissione delle esperienze e dei saperi, in una fase nella quale si rischia spesso, nei processi di ristrutturazione industriale, di perdere competenze e saperi che possono essere poi non riproducibili. La persona esperta sarebbe motivata a trasmettere il bagaglio delle proprie competenze alla risorsa in fase di formazione.

Dal punto di vista dell’equilibrio previdenziale, si potrebbe immaginare che la riduzione dei contributi per il lavoratore esperto, dovuta alla minore retribuzione del per effetto del part time, sia compensata dai contributi della risorsa giovane in fase di formazione, che sarebbero versati a vantaggio del lavoratore esperto. Per la risorsa giovane, questi anni di inizio del percorso lavorativo sarebbero conteggiati ai fini della età pensionabile, con un coefficiente di accumulo previdenziale commisurato al proprio salario, ed assicurato da versamenti effettuati mediante un prestito bancario, a tassi definiti ed agevolati; tale prestito sarebbe poi rimborsato dal giovane nell’arco della sua vita lavorativa.

L’azienda si deve impegnare a creare le condizioni per un inserimento definitivo della risorsa giovane in affiancamento, al termine del percorso di transizione, sulla base di un meccanismo di valutazione che deve vedere come parte integrante anche il giudizio sulla performance espresso dal lavoratore anziano ed esperto.

Per tale via si posso determinare i seguenti effetti:

  • il lavoratore esperto viene accompagnato verso la pensione con una riduzione del suo tempo di lavoro a parità di pieni contributi previdenziali

  • viene data l’opportunità di ingresso nel mondo del lavoro ad una risorsa giovane, che si avvale anche dalla tutorship di una persona esperta

  • entrambi i soggetti mantengono inalterati i propri diritti al rispettivo versamento pensionistico, in un caso mediante un contributo diretto del giovane entrante a vantaggio del lavoratore esperto, e nell’altro caso mediante un prestito bancario rimborsabile nell’arco della vita lavorativa dal giovane dipendente

  • l’azienda investe sul suo futuro mantenendo le competenze accumulate e trasmettendole alle nuove generazioni.

In tempi caratterizzati da una totale assenza di politiche pubbliche, forse è pretendere troppo. Ma, prima o poi, sarà necessario ripensare in chiave moderna un sistema di welfare, che altrimenti sarà solo smantellato senza essere sostituito da nulla. Salvo poi, in tempi di crisi, a riscoprire, frettolosamente e senza vero respiro, antiche ricette keynesiane.

Tutti si affannano ad inseguire il paradigma di una società della conoscenza, mentre quello che praticamente facciamo è distruggere le basi dell’accumulazione delle competenze, non trasmettendo il sapere esperienziale e non investendo in ricerca e sviluppo. Forse è il momento di invertire la rotta, prima che sia troppo tardi. La riforma delle pensioni può essere una buona occasione per tornare a pensare alle politiche sociali in una chiave non esclusivamente finanziaria.