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Oppenheimer è l’inizio, ora urge raccontare la fine

La speranza è che il film sullo scienziato stimoli a riflettere sul grave pericolo esistenziale che l’arsenale atomico globale rappresenta ancora per tutti noi. Uscirà l’8 settembre per Altreconomia il libro«Disarmo nucleare»: l’evoluzione delle armi nucleari, i loro depositi in Europa e il pericolo della «teoria della deterrenza».

Il film sulla figura di Oppenheimer, coordinatore scientifico del Progetto Manhattan, può essere una buona occasione per continuare a riflettere sul pericolo ancora oggi rappresentato dalle armi nucleari. Una consapevolezza riemersa dopo decenni di sottovalutazione (nei quali solo le organizzazioni della società civile hanno continuato a sottolineare la necessità di arrivare a un disarmo completo) a seguito dell’uso latentemente “ricattatorio” che Putin ne fa nel contesto della guerra in Ucraina.

Ben venga quindi aprire una finestra sul percorso che ha portato all’utilizzo come arma delle forze nascoste negli atomi (e poi nei nucleari), progetto inedito per complessità e dimensioni e di certo guidato da ingegni eccezionali. Senza però cadere in due errori che potrebbero essere gravi: pensare che tutto questo, e ciò che ne è seguito per decenni, sia da ascrivere solo a personalità straordinarie mentre invece è il frutto di un processo allargato su vari livelli, che riecheggia davvero quella “banalità del male” troppo spesso dimenticata.

E, soprattutto, dimenticare la questione più grave e concreta: gli impatti sulle persone, non solo in Giappone ma anche in tutti quei luoghi in cui sono stati condotti i circa 2.000 test nucleari dal 1945 in poi.

In pratica occorre evitare di farsi trascinare nei soli incubi personali del fisico protagonista di questa biografia per immagini: il vero delirio è stato (e continua ad essere) collettivo. Tanto più che Oppenheimer, tormentato per anni da visioni di funghi atomici su città e ondate di radiazioni distruttive come conseguenza della potenza che il suo lavoro stava scatenando come moderno vaso di Pandora, non poteva nemmeno avere la consapevolezza degli scenari ancora peggiori che gli studiosi hanno potuto elaborare successivamente.

Oggi infatti sappiamo che una singola guerra nucleare, anche una combattuta con sole poche decine di testate, potrebbe mandare la Terra in uno stato apocalittico chiamato inverno nucleare (un raffreddamento anche di 15 gradi indotto da un inquinamento così forte da bloccare i raggi solari) con miliardi di persone che morirebbero di fame. Senza dimenticare che buio, freddo e radiazioni nucleari distruggerebbero gran parte della vita animale e vegetale della Terra.

Gli analisti ritengono che una guerra nucleare tra Stati uniti e Russia potrebbe far morire di fame cinque miliardi di persone, cioè un numero di vittime più di dieci volte superiore a quelle che morirebbero per gli effetti diretti delle bombe lanciate. Una guerra nucleare di minore entità tra India e Pakistan porterebbe invece a una scenario con circa due miliardi di morti.

Oltre il ricordo di una storia di certo spartiacque nella storia umana, il film di Christopher Nolan avrà una reale utilità culturale solo se porterà gli spettatori a domandarsi perché nel XXI secolo esistano ancora armi nucleari, come potrebbero essere usate e le motivazioni di chi continua a volerle. Rigettando ogni deriva di “fascinazione” per la grande impresa tecnologica realizzata che un racconto così epico potrebbe invece generare.

La genialità scientifica è infatti inevitabilmente accompagnata da fallimenti e fragilità umane. E le scelte di molte persone se corrotte da ego, potere e ambizione, possono plasmare la storia portandola quasi alla folle autodistruzione. Senza però dimenticare che il Gadget – soprannome della prima bomba fatta esplodere nel luglio del 1945 durante il Trinity Test – e tutti gli ordigni a esso successivi sono strumenti costruiti dall’umanità che possono (devono!) essere smantellati dall’umanità.

La speranza è che anche questo film stimoli molti a riflettere sul grave pericolo esistenziale che l’arsenale nucleare globale rappresenta per tutti noi, ancora oggi. Rendendosi conto che un qualsiasi uso di armi nucleari (anche se presentato come razionale, o derivante dalla falsa teoria della deterrenza) sarebbe una catastrofe senza limiti per la quale non sarebbe possibile alcuna gestione emergenziale.

E in questo l’opera di Nolan commette un grave errore: concentrandosi così intensamente sul dramma di una persona riduce ad aspetto secondario gli effetti reali della devastazione nucleare su esseri umani in carne e ossa, sui loro cari, sulle loro case, città, terre, acque e clima. Che invece sono fondamentali.

Mancano all’appello l’esproprio delle famiglie locali e delle popolazioni indigene a Los Alamos, la mancanza di misure di protezione per le popolazioni sottovento al fallout del Trinity Test (che oggi sappiamo aver coperto quasi tutti gli Stati uniti arrivando fino al Canada e al Messico) che ha causato per decenni malattie legate alle radiazioni e persino la morte di due scienziati del Progetto Manhattan.

E ovviamente l’incenerimento degli abitanti di Hiroshima e Nagasaki con bombe lanciate espressamente per causare il massimo numero di vittime umane: due armi nucleari di dimensioni tattiche relativamente piccole per gli standard odierni) capaci di uccidere 230mila persone. Nessuna considerazione sulle armi nucleari dovrebbe essere separata da ciò che tali armi effettivamente provocano.

Perché invece le elucubrazioni del potere sui temi legati allo sviluppo di armamenti cercano sempre di massimizzare i “vantaggi” politici e strategici (spesso più teorici che reali) eliminando dall’equazione le persone e i popoli.

Lo dimostra la stessa storia del Progetto Manhattan, la cui motivazione di base derivava dal timore che la Germania nazista fosse in vantaggio nello sviluppo della bomba atomica e che, se fosse arrivata prima, non avrebbe esitato a usarla con effetti terrificanti. Ma già alla fine del 1944 era diventato chiaro come il programma tedesco fosse in fase di stallo per nulla vicino ad ottenere un ordigno funzionante.

Perché a quel punto il progetto statunitense non fu abbandonato? Perché ormai l’investimento politico, finanziario e scientifico che vi era stato riversato aveva acquisito uno slancio tale da farlo proseguire a pieno ritmo in una maniera ormai inarrestabile. Solo uno degli scienziati coinvolti, Joseph Rotblat, in seguito insignito del Premio Nobel per la pace per i suoi sforzi a favore del disarmo, ebbe l’integrità e il coraggio morale di abbandonare il Programma quando le ragioni per cui era stato istituito, e per cui lui stesso vi si era associato, svanirono.

L’uso della bomba contro il Giappone non faceva parte di tali ragioni originarie e già nel 1944 l’obiettivo politico principale del programma era diventato quello di massimizzare l’influenza e il potere postbellico degli Stati uniti d’America contro l’Unione sovietica.

Addirittura fino al primo test nucleare Trinity del 16 luglio 1945 vi era incertezza scientifica sulla possibilità che l’esplosione potesse incendiare l’atmosfera terrestre e porre fine alla vita sulla Terra (fino all’ultimo momento lo stesso Enrico Fermi aveva raccolto scommesse a riguardo…): anche se l’evidenza scientifica lo considerava molto improbabile, il fatto che il test sia stato condotto nonostante non si potesse escludere una possibilità così devastante è profondamente inquietante. E significativo: come si è potuto decidere di correre un rischio così terribile?

Dopo il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki, Oppenheimer e molti altri scienziati del Progetto Manhattan erano profondamente preoccupati per le implicazioni del frutto del loro lavoro sul futuro dell’umanità: “L’atomo lacerato, non controllato, può essere solo una minaccia crescente per tutti noi”, scrisse profondamente convinto che l’accesso alla bomba atomica si sarebbe inevitabilmente allargato in assenza di un controllo internazionale.

Non a caso in una conferenza stampa del marzo 1963 l’allora presidente degli Stati uniti John F. Kennedy disse chiaramente: “Vedo la possibilità che negli anni Settanta il presidente degli Stati uniti debba affrontare un mondo in cui 15 o 20 o 25 nazioni possano avere armi nucleari. Lo considero il più grande pericolo e rischio possibile”. Tra questi c’era anche l’Italia, con il proprio programma nucleare militare implementato vicino a Pisa.

Una strada ben diversa, e ancora oggi pericolosa, da quanto scritto invece nel 1948 da Robert Oppenheimer: “Se la bomba atomica doveva avere un significato nel mondo contemporaneo, doveva essere quello di dimostrare che non l’uomo moderno o i suoi eserciti, ma la guerra stessa era obsoleta. Cosa si può fare con questo terribile sviluppo per renderlo uno strumento per la conservazione della pace?”.

Per decenni non si è fatto nulla ma ora non c’è più tempo da perdere: le armi nucleari sono “kamikaze globali” che potrebbero colpire tutti. Sono state create in maniera collettiva, perciò anche la loro totale eliminazione dalla storia dovrà nascere da uno sforzo allargato, in cui tutti (persone, comunità, istituzioni) sono chiamati a dare il proprio contributo.

Testo pubblicato da il manifesto del 23 agosto 2023