Corpi intermedi nuovi a metà tra volontariato e lavoro, tra nuovo mutualismo e consumo critico, con una sorta di individualismo altruista. Una prima radiografia nella ricerca “Alla scoperta della green society”.
Si parla molto di dati sulla green economy, sulla crescita della raccolta differenziata, del biologico, del cicloturismo, di imprenditori che innovano, riducendo consumo di energia e di materia, e di consumatori che scelgono stili di vita sostenibili. Ma è solo un movimento di imprenditori illuminati e di consumatori “rivoluzionari”, cioè di singoli individui impegnati sulla strada del cambiamento sostenibile, o c’è dell’altro? Ovvero, c’è una dimensione comunitaria che produce società? La ricerca “Alla scoperta della green society” nasce da qui.
E’ stato un viaggio di esplorazione, senza partire da definizioni preconcette di green society, cercando nei territori esperienze di innovazione sociale, che producono società perché creano relazioni che cambiano i contesti in un orizzonte di amicizia con le persone, con l’ambiente, con il futuro.
Il risultato è stato entusiasmante. Le 101 storie raccontate dal libro, come ho potuto verificare nelle tante presentazioni fatte in giro per l’Italia, sono solo un piccolo assaggio di una società che si sta riorganizzando, che si sta aggregando, in forme e modi diversi dal passato, con alcuni tratti distintivi comuni.
Il primo e decisivo è che sono tutte esperienze prodotte non da iniziative di singoli ma da gruppi di cittadini che insieme si attivano intorno ad interessi e bisogni locali, per difendere o valorizzare un bene comune, per realizzare un progetto di partecipazione, per creare nuove opportunità di mobilità, di turismo, di coltivazione e consumo alimentare, di riuso di spazi e oggetti, di solidarietà e accoglienza, di produzione culturale. Spesso al di fuori delle grandi associazioni nazionali o comunque di organizzazioni preesistenti.
Tutte queste storie si muovono nell’interfaccia tra aspetti ambientali e aspetti sociali, e se pure partono da uno o l’altro aspetto (può essere l’accoglienza dei migranti o un intervento contro la povertà, la pulizia di un’area verde o la riqualificazione di uno spazio o l’attivazione di una ciclofficina), finiscono sempre per intrecciarsi (migranti coinvolti nella pulizia delle starde o nella gestione degli orti urbani, centri e mercati del riuso che alimentano l’azione della Caritas, interventi ambientali che di fatto riducono le disuguaglianze nell’accesso a servizi e beni comuni, ecc.).
Nascono in genere nella dimensione del volontariato, ma in alcuni casi creano le condizioni per inventare occasioni di lavoro, per creare nuove imprese, spesso di impianto cooperativistico, e comunque producono un fenomeno nuovo: è la domanda di nuovi stili di vita che crea mercato e lavoro. C’è una società orizzontale che si sta aggregando, e che produce anche occasioni di economia, il cui obiettivo principale è però un altro: la qualità delle relazioni tra persone, la condivisione di valori e azioni, il fare le cose insieme… come in quel vasto mondo che oggi si riconosce nell’economia civile.
Ma la cosa che trovo più interessante di queste storie è la motivazione: tutti partono da una sorta di egoismo altruistico. La motivazione che porta le persone ad agire nasce dal bisogno egoistico (se possiamo sdoganare il termine da tutto il significato negativo che si porta appresso) di trovare innanzitutto una propria soddisfazione personale, perché stanno meglio con se stesse, ma trovano soddisfazione e piacere solo se lo fanno insieme ad altri e se si impegnano per la difesa e valorizzazione di beni comuni, non per il proprio vantaggio privatistico. Da questa motivazione scaturisce non solo una nuova centralità dell’azione comunitaria, ma anche una reazione (ed è la prima volta che la leggiamo in modo così diffuso) all’ideologia dominante dalla fine degli anni Ottanta dell’individualismo thatcheriano (“esistono gli individui, non la società”). E’ un primo passo verso la diffusione di una nuova antropologia comunitaria, ed è la risposta ad un nuovo bisogno di socialità e di coesione sociale, che non deriva dagli input di un’ideologia, di un modello calato dall’alto, ma nasce come controtendenza ad un’ideologia dominante che ha disseminato di solitudine, rancore, paure e nuove povertà, le società industriali dell’occidente.
D’altra parte alcune di queste storie raccontano anche di un nuovo welfare, comunitario, perché il riuso o il recupero di cibo intervengono, in parte, sulle povertà e sulle disuguaglianze, perché nel territorio, o nei condomini, si creano relazioni di vicinato che battono la solitudine e creano occasioni di mutuo aiuto, perché i richiedenti asilo o le comunità straniere agiscono sul territorio come abitanti a pieno titolo che si prendono cura insieme agli altri di quel territorio.
Certo, sono esperienze fragili, molto locali, spesso isolate, ma sono esperienze che, in qualche modo, più o meno consapevole, dialogano con alcune delle principali emergenze della nostra epoca: le emergenze ambientali (compresa quella climatica), la creazione di nuovo lavoro, l’esplosione delle disuguaglianze e delle povertà, l’erosione dei diritti e della partecipazione democratica, le migrazioni, l’individualismo esasperato, la diffusione di un clima di paura e rancore …. ma tutto ciò avviene al di fuori di un modello ideologico di società, al di fuori di un’azione politica organizzata.
Queste realtà esistono, si muovono nel basso, costruiscono società orizzontale, non si muovono dal basso per interloquire con la politica, perché non si proiettano verso una visione consapevole della società, verso un nuovo interesse generale, ma si accontentano di agire per migliorare la propria realtà collettiva. Rimangono nel basso, non cercano di essere raccontate, men che meno cercano di interloquire con la politica, a meno che non si tratti del sindaco, del governo locale, ma qui le situazioni variano a seconda delle modalità di azione delle diverse giunte (e non dal colore politico).
Ci troviamo di fronte ad un’effervescenza sociale diffusa. Sono esperienze di innovazione sociale che ci parlano di un fenomeno fatto di contaminazione tra culture e obiettivi diversi, tra questioni ambientali e sociali, in cui c’è l’impegno consapevole a produrre cambiamento e c’è la voglia di riappropriarsi di un pezzo di territorio, c’è la ricerca di una nuova qualità di relazioni umane, che supera la parcellizzazione individualistica degli anni passati, c’è la voglia di impegnarsi con il volontariato nel proprio territorio per un problema concreto e per il bene comune, c’è l’espressione di bisogni e domande di consumo diversi. Sono esperienze ed episodi, certo ancora minoritari, che però attraversano tutte le regioni italiane con protagonisti e motivazioni molto variegate.
Ed oggi, una domanda sorge spontanea: e se dovessimo ripartire da qui per rilanciare un progetto di cambiamento politico del nostro paese?
Vittorio Cogliati Dezza, ex presidente di Legambiente