Negli ultimi anni si è andata sempre più affermando l’idea che la storia la facciano i leader. Il secondo posto sarebbe occupato dai mezzi di comunicazione, con la loro notevole capacità di occultare o di sovraesporre i fatti, a seconda della convenienza. Il protagonismo popolare, invece, è occultato in modo sistematico comune-info.net
Nella grande confusione semantica che segna in profondità il nuovo millennio, qualcuno, a queste latitudini, lo chiama curiosamente populismo. In Sudamerica, ma anche in Spagna, si fa un riferimento molto più preciso al caudillismo. Anche nei movimenti sociali, da tempo, si discute il tema: la salutare critica del leaderismo. Sono tutti concetti diversi, naturalmente. Come ricorda Raúl Zibechi, però (dopo un’affermazione nefasta quanto significativa del vicepresidente boliviano, prestigioso intellettuale ed ex guerrigliero), così si esprime solo una cultura di destra che serve a negare la soggettività, la potenzialità di determinare il proprio destino, a chi sta in basso. Sappiamo bene che la gente e, soprattutto, chi annaspa nei fondali delle nostre società respira un’aria intrisa degli argomenti e dei valori propugnati dalle élite. L’antidoto a questa presunta debolezza delle “masse”, tuttavia, esiste. Sarebbe ben noto e andrebbe, in teoria, coltivato fin dai banchi di scuola. Si chiama pensiero critico. Il capitalismo vive, sosteneva uno dei suoi maestri, Cornelius Castoriadis, se la gente resta persuasa che le cose importanti siano monopolio dei signori e degli specialisti, il vero team di fiducia dei grandi e potenti leader dei giorni nostri