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Non c’è lotta per il clima senza equità fiscale

Combattere l’evasione delle multinazionali del fossile e abolire i sussidi ambientalmente dannosi elargiti dallo Stato: ecco che cosa serve per contrastare il riscaldamento globale.

“Senza giustizia fiscale, la lotta ai cambiamenti climatici è destinata a fallire”. A sostenerlo, lui come ormai molti altri, è John Christensen, fondatore del Tax Justice Network, un gruppo di economisti, consulenti finanziari, avvocati e attivisti specializzati in evasione e concorrenza fiscale, impegnati in una vera e propria mappatura globale dei paradisi fiscali.

La correlazione tra giustizia fiscale e giustizia climatica, e dunque quella tra iniquità e collasso socio-ambientale, è infatti quanto mai evidente, con l’1 per cento più ricco del pianeta responsabile per il 16 per cento delle emissioni di CO2, pari a quella prodotta dal 66 per cento della popolazione globale, ovvero circa 5 miliardi di persone. È questo il tema della quarta giornata della Global week of Action, mobilitazioni, iniziative e un calendario di eventi sui cambiamenti climatici.

I principali fruitori dei paradisi fiscali sono poi le multinazionali del fossile (petrolio, gas, carbone), come Exxonmobil, Shell, BP, Total Energies e l’Eni, che nel 2022 ha chiuso con un utile operativo adjusted di 20,4 miliardi di euro. A trainare i profitti record del gigante a sei zampe, per gran parte destinati al riacquisto di azioni tramite dividendi a vantaggio degli azionisti (il 70 per cento dei quali privati), sono le attività di esplorazione e produzione di idrocarburi e di raffinazione e vendita di gas, petrolio e semilavorati, incompatibili con gli obiettivi prefissati dall’Accordo di Parigi e dunque con la transizione ecologica.

La lotta ai cambiamenti climatici può avvalersi di una vera fiscalità ambientale che favorisca le produzioni e i consumi sostenibili, non inquinanti, verso un modello di sviluppo di qualità. Non si tratta di “monetizzare” i costi delle produzioni inquinanti, continuando a farle sopravvivere, ma di finanziare attraverso la leva fiscale le produzioni sostenibili, come propone ogni anno la campagna Sbilanciamoci nella sua “Controfinanziaria”.

Nonostante l’evidente ruolo dell’industria fossile nella produzione di emissioni climalteranti, però, le multinazionali del fossile continuano a percepire enormi sussidi statali, sotto forma di agevolazioni fiscali, sovvenzioni dirette, investimenti nelle infrastrutture e piani che appaiono complementari e simmetrici agli investimenti e alle strategie di quest’ultime.

Un esempio lampante di questa dinamica è senza dubbio il Piano Mattei, che prevede ingenti investimenti in idrocarburi, biocarburanti, e impianti di cattura e stoccaggio dell’anidride carbonica (Ccs), tecnologie centrali alla strategia di “decarbonizzazione” di Eni e Sace, l’agenzia di credito all’esportazione, grazie alla quale l’Italia è il primo finanziatore europeo di progetti fossili all’estero.

Alessandro Volpi, docente di storia contemporanea alla facoltà di scienze politiche dell’università di Pisa, ha sottolineato come, soprattutto nel caso di Eni, la logica della partecipazione dello Stato alla compagine azionaria “sia stata concentrata in questi anni esclusivamente sul rendimento finanziario. […] Lo Stato non promuove più una politica energetica ma lascia che a realizzarla siano le sue partecipate”. Meccanismo, questo, che ancora una volta sottolinea la mancanza di una politica industriale per la giusta transizione, delegata a una manciata di multinazionali i cui interessi si focalizzano su buyback e profitti stellari, marciando sull’esternalizzazione dei costi ambientali e sociali.

Processo, quest’ultimo, facilitato da attività esplorative ed estrattive portate avanti in terre “lontane”, altre, dove troppo spesso l’occhio occidentale non arriva, o meglio non vuole arrivare, poiché benefattore indiscusso di un sistema energetico neo-coloniale basato sulla parcellizzazione degli ecosistemi, lo sfruttamento di luoghi e persone, e il mantenimento di margini e gerarchie che fanno in modo che a subire maggiormente i sintomi più tangibili della crisi climatica siano coloro che hanno contribuito in forma minore, o nulla, all’inasprimento di quest’ultima.

Sempre di più serve dunque un’organica fiscalità ambientale che colpisca le produzioni e i consumi ambientalmente dannosi: bisogna riprendere il discorso della carbon tax e tante iniziative che sono state fermate in questi anni, come è il caso in Italia della plastic tax. Centrale è anche la contestazione all’immobilismo dell’Italia nel superare i sussidi ambientalmente dannosi (Sad): si tratta di una sfida importante nella lotta ai cambiamenti climatici.

* Articolo pubblicato anche su Collettiva.it