I paragoni tra Monti e Draghi sono fuori luogo: diversa è la storia personale dei due tecnici, l’ancoraggio culturale e il contesto. Le incognite sono ancora molte su cosa avverrà e vedremo alla prova dei fatti. Fondamentale però sarà la consultazione con le parti sociali già richiesta dal premier incaricato.
Con l’avvento di Draghi nella politica italiana, i paragoni con il governo Monti di dieci anni fa si sono moltiplicati, ma fuori luogo. Allora Monti doveva tagliare la spesa pubblica, fare politiche di austerità, riformare le pensioni, rispondere ai vincoli del Patto di Stabilità europeo. Oggi Draghi deve gestire una immensa mole di finanziamenti, fare politiche di investimenti pubblici ed è libero dai vincoli europei. Monti doveva fare politiche restrittive e di tagli, oggi Draghi può fare politiche espansive e di spesa. Monti è un professore bocconiano, Draghi un banchiere gesuita. Monti si è formato nel milieau neoliberista, Draghi ha avuto come maestri i gesuiti e il keynesiano Federico Caffè. Monti si è dimostrato un politico sui generis, naif; Draghi nei suoi anni di BCE ha dimostrato di essere un fine politico, trattando con la Merkel e Macron, e soprattutto di sapere, da buon gesuita, come funziona il potere. E sempre da buon gesuita nella crisi di governo – la prima volta nella storia delle crisi di governo- consulta anche le parti sociali e non solo i partiti. Nonostante ciò, Monti conosceva meglio l’Italia e soprattutto la sua borghesia – quello che ne è rimasto – mentre Draghi, l’Italia di oggi la conosce poco, e anche gli italiani: senza mettere piede troppo alla Trilateral e al Bilderberg è un frequentatore dell’establishment globale e dell’élite finanziaria mondiale.
Ma non è detto che questo possa essere un limite. Draghi può usare questa estranietà – forse anche un po’ voluta – all’Italia reale per volare alto, superare i problemi sollevandosi ad essi, come una chiave per subire meno il peso dei condizionamenti dei gruppi di potere delle piccole e grandi corporazioni, di una élite sgangherata che non è più classe dirigente, di una politica ridotta ad avanspettacolo di pupi e mercanti in fiera.
Praticamente tutti i commentatori e gli analisti hanno evidenziato come l’arrivo di Draghi abbia segnato il fallimento della politica e l’impotenza delle istituzioni parlamentari. Dopo i governi tecnici nulla è stato come prima. Dopo il governo Ciampi nella prima metà degli anni Novanta, furono cancellati i partiti della prima Repubblica e arrivò Berlusconi. Dopo il governo Monti, poco meno di dieci anni fa, fu travolto il bipolarismo e arrivarono i Cinque stelle; e dopo Draghi le incognite sono veramente molte: sicuramente verrà spazzato via l’equilibrio – chiamiamolo così – di questi anni, sostituito da qualcosa di nuovo, che includerà forze e leader nuovi o quasi, forgiati probabilmente ancora una volta dalla temperie populista e mediatica. E dai poteri economici.
Non ci attendiamo svolte particolarmente virulente (né politiche ultra-liberiste) rispetto alle scelte dei precedenti governi: i binari sono posti, la direzione di marcia tracciata, molte delle controriforme strutturali più importanti e sensibili (pensioni, mercato del lavoro…) sono già state fatte: tra le più importanti ancora da fare c’è quella fiscale e della pubblica amministrazione. Vedremo alla prova dei fatti. Che per noi sono quelli di una nuova politica economica fondata sul lavoro, sulla sostenibilità e la riconversione fiscale, la lotta alle diseguaglianze e il welfare, il rafforzamento del sistema sanitario pubblico e l’istruzione.
Stralci da La lunga marcia nella società, in uscita nel numero di marzo de Gli Asini