Molte le misure, con obiettivi ambiziosi, del recente Pacchetto Clima dalla Commissione europea. Ma manca una piena consapevolezza sull’impatto che queste misure comporteranno sul lavoro e sul tessuto industriale in Italia, e sulle scelte da fare per centrare gli obiettivi attesi. A partire da quelle su investimenti e politiche industriali.
Le misure per l’ambiente varate dalla Commissione europea lo scorso 14 luglio (il cosiddetto “pacchetto clima”) sono sicuramente un passo avanti, un fatto positivo nell’accelerazione verso il Green Deal. Ne ha già parlato Monica Frassoni in modo approfondito sul nostro sito. Si tratta di migliaia di pagine da studiare attentamente. Tra le misure più citate, il divieto di circolazione dal 2035 delle vetture diesel, gas e benzina (e anche le ibride) e l’aumento dal 40 al 55% dell’obiettivo della riduzione delle emissioni al 2030, per arrivare al 2050 con zero emissioni.
Si tratta di obiettivi condivisibili e ambiziosi. La Commissione ha varato anche una sorta di “fondo sociale” per far fronte alle conseguenze di natura economica e sul lavoro di questa imponente trasformazione portata dal Green Deal: lo spettro dei “gilets jaunes” si aggira oltre che a Parigi anche a Bruxelles.
Ora, i tempi sono strettissimi e non sembra che molti paesi europei si rendano conto delle conseguenze di questi impegni varati a livello europeo. In sostanza sembra mancare la consapevolezza dei giganteschi e auspicabili investimenti necessari per riconvertire il nostro sistema industriale a questo scopo. Facciamo un solo esempio: entro il 2035 le industrie automobilistiche dovranno produrre solo auto elettriche.
Ma, in realtà, questo obiettivo dovrà essere raggiunto già diversi anni prima: è improbabile che all’avvicinarsi della scadenza ci siano molti acquirenti di vetture diesel e a benzina, sapendo che esse saranno “fuori mercato” dopo poco. In assenza di una poderosa riconversione del nostro sistema produttivo (impiantando anche fabbriche di batterie elettriche, ad esempio) questo obiettivo non potrà essere raggiunto. E poi c’è un problema di predisposizione entro quella data di centinaia di migliaia (a fronte delle migliaia odierne) di centraline di ricarica, che oggi mancano.
E poi c’è un ulteriore problema, quello fiscale. Ad esempio per l’Italia, grazie alle accise, entrano nelle casse dello Stato circa 80 miliardi di euro. Dal 2035 queste entrate non ci saranno più. E poi ci saranno gli effetti sull’indotto e sulla intera filiera: pensiamo alle officine di manutenzione e di riparazione che con le auto elettriche verranno largamente meno. In Italia ci sono quasi 21mila pompe di benzina (circa 40mila lavoratori) e quasi 27mila meccanici, senza contare gli occupati delle imprese collegate.
A gennaio del 2020, con Sbilanciamoci! ne avevamo parlato con la FIOM, i delegati di fabbrica e le associazioni ambientaliste in un importante convegno tenutosi a Torino. È opportuno rivedersi, magari sempre a Torino, con le organizzazioni dei lavoratori e delle associazioni ambientaliste per aggiornare l’analisi e mettere a punto nuove proposte.
Serve un’efficace azione di rilancio di un’azione coordinata e organica della mobilità sostenibile che sappia salvaguardare e creare nuove opportunità di lavoro. A questo ci chiamano le sfide del PNRR e del “pacchetto clima” della Commissione europea.