La decisione della Germania di aprire le frontiere per accogliere i rifugiati per poi richiuderle ha messo in discussione un caposaldo dell’Unione Europea.
Mentre i ministri dei ventotto paesi Ue non sono riusciti a mettersi d’accordo sull’attuazione del piano di ripartizione proposto dalla Commissione europea, è senza dubbio arrivato il momento di rendersi conto dell’entità dell’avvenimento storico a cui deve far fronte la «comunità» delle nazioni europee, e delle contraddizioni che questo avvenimento ha messo in luce. Estendendo a tutta l’Europa il pronostico che la Cancelliera Angela Merkel ha formulato — «questi avvenimenti cambieranno il nostro paese» — bisogna dire: cambieranno l’Europa. Ma in che senso? Non abbiamo ancora la risposta. Stiamo entrando in una zona di fluttuazioni brutali, dove dovremo dar prova di lucidità e determinazione.
Quello che sta avvenendo è un allargamento dell’Unione e della stessa costruzione europea. Ma, a differenza dei precedenti allargamenti, questo è imposto dagli avvenimenti nel quadro di uno «stato d’emergenza» e non c’è unanimità. Più che per gli allargamenti del passato, quindi, andrà incontro a difficoltà e provocherà scontri politici. Soprattutto, questo allargamento è paradossale, perché non è territoriale ma demografico: ciò che «entra in Europa» in questo momento non sono nuovi stati, ma uomini, donne e bambini. Sono dei cittadini europei virtuali. Questo allargamento, essenzialmente umano, è anche morale: è un allargamento della definizione di Europa, dall’idea che ha di se stessa fino agli interessi che difende e agli obiettivi che si pone. In sostanza è un allargamento politico, destinato a «rivoluzionare» i diritti e gli obblighi dei paesi membri. Può fallire, ma allora la costruzione europea stessa avrà poche possibilità di resistere. Per questo motivo molti oggi in Europa parlano di momento di verità.
È evidente che la situazione materiale e morale creata dall’afflusso dei rifugiati sia «eccezionale». Ma perché parlare di stato d’eccezione, di emergenza, nozione carica di terribili significati, che evoca momenti in cui il quadro istituzionale della vita sociale vacilla e l’identità collettiva dei popoli trema? Evocherò almeno tre ragioni.
Addio a Schengen
La prima è che, de facto, un pezzo importante della «costituzione» europea ha smesso di funzionare: gli accordi di Schengen completati dai regolamenti di Dublino. Questa sospensione era già chiara da quando il governo tedesco ha dichiarato che non avrebbe applicato ai rifugiati siriani la regola dell’immatricolazione nel paese di arrivo in seno alla zona Schengen. La decisione del 13 settembre di chiudere la frontiera con l’Austria, a causa del superamento delle capacità di accoglienza della Germania e della cattiva volontà degli altri paesi europei, non cambia nulla, al contrario. Mostra che l’apertura e la chiusura delle frontiere interne dell’Europa è oggetto di decisioni arbitrarie degli stati e che la libertà di circolazione è sospesa.
La seconda ragione è che il «problema migratorio» dell’Europa è completamente intrecciato allo stato di guerra del Medioriente, che costituisce la fonte principale dell’afflusso dei rifugiati. Si tratta di una guerra civile generalizzata, di una crudeltà e capacità di distruzione senza equivalenti dopo la seconda guerra mondiale nella nostra regione del mondo, che ha acquisito una dinamica propria. Non potremo fermarla nell’immediato, soprattutto non con interventi militari. Il numero delle vittime e dei rifugiati che causa aumenterà. L’esodo, momentaneamente concentrato negli stati «tampone» (Turchia, Giordania, Libano, Tunisia), sta cominciando a travolgerli e minaccia di farli esplodere. Lo spazio investito da questo contagio ingloba tutta l’Europa (ivi compreso beninteso attraverso i rischi di diffusione del terrorismo).
Infine, possiamo parlare di stato d’emergenza poiché la crisi migratoria sta spezzando il consenso sui «valori» costitutivi dello stato democratico, che porta a una messa a confronto dell’Europa con se stessa, suscettibile di assumere forme violente. Tutti questi aspetti sono evidentemente legati tra loro.
La mossa di «Merkiavelli»
Dopo l’esplosione della crisi a fine agosto, la Cancelliera tedesca ha svolto un ruolo determinante nella definizione del carattere politico degli avvenimenti. È lei, in effetti, che ha dichiarato lo stato di emergenza prendendo misure «unilaterali» e ha posto la questione di una rifondazione dei nostri stati di diritto, escludendo qualsiasi «tolleranza» nei confronti delle correnti xenofobe e razziste. Coloro che, come me, deplorano assolutamente il modo in cui la Cancelliera Merkel ha pilotato l’imposizione a tutta l’Europa delle politiche di austerità, in particolare l’umiliazione e l’espropriazione della Grecia, devono oggi saper riconoscere il valore della sua azione e dirlo. Naturalmente, Merkel non ha agito da sola: ha interpretato lo slancio di solidarietà di una parte significativa della società tedesca. Alcuni suppongono che, così facendo, abbia difeso gli interessi dell’economia tedesca, ricordandosi dei benefici avuti dal suo paese dall’apporto di altri rifugiati. Possiamo immaginare che «Merkiavelli» (come l’ha chiamata Ulrich Beck) abbia visto un’occasione per ribaltare l’immagine di inumanità che le era stata affibbiata dopo la «soluzione» della crisi greca. Ma queste spiegazioni non bastano e sono soprattutto incapaci di cogliere l’effetto oggettivo della decisione di Merkel, che trasforma i dati del problema costituzionale in Europa e intensifica il conflitto latente sull’identità europea. Forse Merkel non ha compreso subito fino a dove la sua decisione l’avrebbe portata: ma l’importante è che sia arrivata a un punto di non ritorno di cui deve adesso assumere le conseguenze e difenderne il significato.
Si tratta di quattro ordini di conseguenze di primo piano. Le prime riguardano la gestione delle frontiere dell’Europa, ma anche del loro rapporto con la sovranità nazionale. L’accordo di Schengen si basava sul presupposto ambiguo che è possibile «mettere in comune» la funzione di sorveglianza delle entrate e delle uscite dallo spazio comunitario, continuando però al tempo stesso a considerare sovrani gli stati, responsabili degli individui che si trovano sul «proprio» territorio, dal punto di vista della sicurezza o della protezione. Dall’altro canto, l’Unione europea – attraverso gli allargamenti selettivi – aveva cercato di mantenere contemporaneamente sia l’idea che ha vocazione a incorporare tutte le nazioni europee che l’idea che questa membership comporta delle « condizioni di adesione » da rispettare (più o meno rigorosamente). Di qui la situazione di enclave anacronistica nella quale si trovano oggi alcuni paesi dell’ex Jugoslavia che costituiscono delle «porte di accesso» al cuore dell’Europa. Questa situazione non è tenibile dal punto di vista sia securitario che umanitario: o i paesi balcanici verranno incorporati all’Europa come membri a pieno titolo oppure l’Europa dovrà abolire tutte le procedure di sicurezza comunitarie.
Un continente Borderland
Ma più in generale apparirà che l’Europa «non ha» delle frontiere nel senso classico: né frontiere «federali» né frontiere delle nazioni costituenti. Piuttosto, è essa stessa una «frontiera» di nuovo tipo, proprio alla globalizzazione, un Borderland o un complesso di istituzioni e di dispositivi di sicurezza estesi su tutto il territorio, per «regolare» i movimenti di popolazioni, in modo che può essere più o meno violento, più o meno deciso e controllato democraticamente. Per i cittadini è complicato capire questo, che però avrà un’influenza sempre maggiore sulla loro vita quotidiana e il loro destino.
Di qui la seconda serie di conseguenze, sui regimi migratori. Nella polemica in corso sull’instaurazione delle quote per la ripartizione dei rifugiati in Europa, la Germania e la Commissione europea si aggrappano con tutte le forze alla distinzione tra «rifugiati» e «migranti economici». È facile capirlo: lo fanno per conciliarsi l’opinione pubblica e per mantenere una differenza di trattamento amministrativo per chi arriva, senza la quale, apparentemente, l’unica soluzione sarebbe di decidere l’abolizione delle frontiere. Non dirò che questa distinzione non ha senso, la prima categoria definisce uno statuto di diritto internazionale, che non riguarda la seconda. Non c’è difatti uno «statuto del migrante» nel mondo attuale. Ma è chiaro che la differenza è socialmente arbitraria, poiché la mondializzazione selvaggia tende a trasformare le zone di pauperizzazione in zone di guerra e reciprocamente. Gli abitanti fuggono in massa zone di morte, correndo il rischio di perdere tutto. Soprattutto, bisogna chiedersi con quali mezzi, che non siano violenze su grande scala, l’Unione europea potrà attuare una politica di «rinvio» degli indesiderabili, esclusi dall’ «accoglienza». Questo non ha funzionato a livello individuale, da decenni, e non ha nessuna possibilità di funzionare a livello di massa.
All’opposto delle condizioni di rifugiato o di migrante «indesiderabile», quali prospettive si aprono per coloro che guerre o miseria cacciano verso l’Europa e che arrivano a pericolo della vita? Cosa deve offrire loro l’Europa? Forse è solo l’accesso alla cittadinanza europea. Bisogna quindi che questa nozione esca finalmente dal limbo nel quale è relegata dal rifiuto degli stati di aprire la strada alla sovranazionalità. Dicendo che stiamo assistendo a un allargamento demografico della Ue, volevo appunto indicare questa prospettiva. Deve essere una prospettiva regolata, normalizzata, ma è ineluttabile. Tutti sanno che i rifugiati che arrivano adesso non se ne andranno: non tutti, di sicuro, e non subito. Se non vogliamo creare una popolazione di stranieri relegati in un esilio interno per varie generazioni, bisogna aprire ampiamente la possibilità di integrazione, cioè lavoro, diritti sociali e diritti culturali eguali. Ma la chiave di tutti questi diritti e del loro legittimo possesso, contro tutte le stigmatizzazioni razziste, è la cittadinanza. Visto che il problema si presenta su questa scala, bisogna inventare nuove modalità e nuove prospettive di accesso alla nazionalità, specificamente europee, che per questo stesso fatto ne modificano la definizione. Idealmente, ne individuo due: la prima sarebbe di istituire, accanto all’accesso alla cittadinanza europea attraverso la strada della cittadinanza nazionale, un accesso diretto a una «nazionalità federale». Se questa proposta appare troppo sovversiva o rischiosa, resta un’altra possibilità, senza dubbio migliore : consiste a generalizzare lo «jus soli» in tutta l’Ue. In questo modo, l’avvenire dei figli dei rifugiati sarà garantito dall’Europa, e sappiamo che questa prospettiva è uno dei fattori più potenti di integrazione per gli stessi genitori.
L’inganno delle quote d’accoglienza
In ultimo, la decisione «unilaterale» della Germania di accogliere dei rifugiati, creando lo stato d’emergenza che ci porta all’allargamento «demografico», per l’Europa comporta delle conseguenze economiche strutturali. Si insiste sulle prospettive di trasformazione del mercato del lavoro, ma si comincia anche a parlare del costo dell’accoglienza e dell’integrazione dei rifugiati, degli aiuti comunitari necessari perché alcuni paesi europei possano far fronte ai compiti di salvataggio, registrazione e trasferimento, e delle sovvenzioni che costituiscono la logica contropartita dell’imposizione delle «quote di accoglienza».
Bisogna dire che, in realtà, l’apertura dell’Europa ai rifugiati implica a breve termine un cambiamento di dottrina e di politica che contraddice il regime economico attuale. In cifre assolute, i rifugiati rappresentano soltanto una proporzione minima della popolazione europea. Ma saranno ancora a lungo a carico di alcuni comuni, regioni, paesi che non sono preparati o fanno fronte essi stessi a reali difficoltà economiche e finanziarie. Bisogna quindi rovesciare la tendenza neoliberista, aumentare il budget della Ue in modo significativo, avviare un piano di integrazione su scala europea, promuovere la solidarietà tra stati e costruire in comune una nuova società, vegliando in particolare a che l’integrazione dei rifugiati sul mercato del lavoro non avvenga a detrimento dei «vecchi europei», o inversamente. Ma questa pianificazione deve esigere a sua volta dei cambiamenti di politica monetaria, dei progressi nella costruzione federale, che possono essere decisi e applicati democraticamente, oppure imposti tecnicamente. In quest’ultimo caso falliranno, nell’altro hanno una speranza di riuscire. Cominceremo a capire che ci vuole un’altra Europa, perché l’Europa possa far fronte ai compiti che, improvvisamente, incombono, un’Europa che si trasformi, o che cambi forma politica.
Nulla di tutto ciò, certamente, potrà farsi in modo spontaneo, né all’unanimità. Lo stato di emergenza migratorio ha fatto esplodere, sotto i nostri occhi, le contraddizioni intra-europee mascherate, bene o male, dall’ideologia dell’«interesse comune» e delle «norme comuni». La prospettiva di un nuovo allargamento suscita violente resistenze, che d’ora in ora si stanno trasformando in un «fronte del rifuto» politicamente organizzato. La questione maggiormente discussa è il fossato che si è rivelato tra la «vecchia Europa» (all’ovest) e la «nuova» (all’est): sono state proposte varie spiegazioni economiche, culturali, storiche, politiche, che hanno tutte qualche pertinenza. Ma nei fatti, il rifiuto arriva anche dall’Olanda o dalla Danimarca, non solo dalla Polonia o dalla Slovacchia, per non parlare della Gran Bretagna o persino della Francia, che ha accettato solo tardivamente l’idea di quote vincolanti, sempre cercando di minimizzarne gli obblighi. In realtà, la divisione maggiormente rivelatrice, quella che separa davvero due «Europa», attraversa tutti i paesi, anche se con proporzioni e rapporti di forza diversi. È certo miracoloso che gran parte della popolazione tedesca sia accorsa in soccorso dei rifugiati siriani. Ma è altrettanto significativo che i capi della Csu si siano apertamente desolidarizzati da questa politica, arrivando fino a concludere una alleanza con Viktor Orban e che la Frankfurter Allgemeine Zeitung abbia pubblicato un editoriale per dichiarare che «i paesi dell’est hanno ragione». Dopo la chiusura «provvisoria» della frontiera con l’Austria, gli stessi si rallegrano apertamente per il «passo indietro senza precedenti» della cancelliera.
Xenofobia continentale
In realtà, ciò che è in via di costituzione in Europa è un fronte transnazionale del rifiuto dei rifugiati, di cui i gruppi apertamente razzisti e violenti sono soltanto la punta estrema. Senza dubbio assisteremo per la prima volta a ciò che finora era sempre fallito a causa di rivalità e nazionalismi: l’emergenza di un «partito» xenofobo unificato in Europa. In reazione a ciò, l’Europa della solidarietà non potrà evitare una lotta politica determinata, che comincia con la condanna intransigente delle violenze contro i migranti, e prosegue con la rivendicazione delle condizioni di accoglienza, che ho evocato prima. È questa lotta, se verrà veramente fatta, che «trasformerà» più profondamente l’Unione europea. Ma la vittoria non sarà facile. Da una prospettiva francese, dove il Fronte nazionale ha contaminato tutta la vita politica, possiamo dire che sarà molto difficile. Ma è ineluttabile, poiché la causa dei rifugiati, se non fa passi avanti nell’opinione pubblica e nelle istituzioni, rischia di indietreggiare molto in fretta e brutalmente.
Questa lotta ha quindi bisogno di una forte legittimità: in ogni paese e in tutta l’Unione. Ma la sola legittimità che, in ultima analisi, sia in misura di invalidare e di neutralizzare le resistenze è la legittimità democratica diretta. Questa legittimazione democratica è il solo modo per permettere alla Germania di passare dall’iniziativa unilaterale alla solidarietà comunitaria, senza la quale, malgrado la sua ricchezza e determinazione, non potrà riuscire. È storicamente decisivo che, per la prima volta dopo la riunificazione degli anni Novanta, la Germania abbia di nuovo bisogno della solidarietà di altri paesi europei: questa volta, però, non ne ha bisogno solo per se stessa, ma nell’interesse di tutti. È una caratteristica del «momento europeo» eccezionale che stiamo vivendo.
il manifesto 19 settembre 2015