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Meno salario e più stress per i lavoratori

Stipendi che diminuiscono mentre avanza l’inflazione, divari di genere, stress in aumento, scarsa o nulla formazione e innovazione. E una distanza siderale dei giovani e precari dal sindacato. Il sondaggio della Fondazione Di Vittorio.

I dati Istat sulla povertà pubblicati qualche giorno fa segnalavano come quella relativa sia stabile e quella assoluta in aumento. Le crisi internazionali in serie e l’inflazione colpiscono chi ha redditi non continui e precari ma anche i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato il cui potere d’acquisto, ormai lo sanno anche le pietre, è fermo o diminuito nel corso degli ultimi tre decenni. A pochi giorni da quei dati, il quadro sconfortante trova riscontro in un’importante ricerca/inchiesta condotta dalla Fondazione Di Vittorio della Cgil, che con un lavoro meticoloso di mesi ha sottoposto un questionario da cinquanta domande a decine di migliaia di lavoratori – i questionari completati e considerati validi dal team di ricercatori supera i 30mila. Le domande riguardavano il lavoro, la sua organizzazione, il ruolo del sindacato e le risposte sono di grande interesse. Anche quel che manca è interessante. Riassumiamo qualche elemento importante. 

Per il 68% dei lavoratori intervistati la priorità è l’aumento degli stipendi. Per il 22,3% dei rispondenti, dall’inizio della pandemia a oggi il salario è diminuito. Non il potere d’acquisto, diminuito per tutti, ma proprio il salario, che come si è ricordato non era paragonabile alla media Ue. Va segnalato che l’inchiesta è stata condotta nel 2022 e che dopo un anno in più di inflazione sopra la media, il potere d’acquisto è probabilmente ancora diminuito.

Altro dato avvilente riguarda la parità di genere. Le donne guadagnano poco e molto meno dei maschi anche al netto del fatto che queste lavorano part-time in percentuale molto maggiore. Il 40% di tutti i rispondenti vorrebbe più smart work (al netto che in alcuni comparti come edilizia e agricoltura questo non è dato). A proposito di natalità, stress, qualità della vita e possibilità di realizzazione, le donne sono ancora nella condizione di dover scegliere tra lavoro, salario e maternità. Un governo che pare ossessionato dalla questione demografica dovrebbe guardare a questo dato (e altri mille) per scoprire che invece di aumentare l’Iva sul latte in polvere e regalare un bonus secondo figlio, per invertire un trend che non dovrebbe rendere nessuno contento, servono più servizi all’infanzia, più welfare comunitario e una flessibilità maggiore e scuole aperte più a lungo.

A proposito di questo grande tema: dalle risposte dei più giovani emerge come la qualità della vita, l’equilibrio lavoro/vita sono questioni sempre più pressanti. Come ha detto anche il segretario generale della Cgil Maurizio Landini alla presentazione dei dati, in una fase in cui stiamo assistendo a una enorme riorganizzazione dei processi produttivi e dell’economia tutta, a domande nuove, il ruolo della politica e dei sindacati deve sapere immaginare come sarà domani e lavorare per costruire e affermare diritti in questo quadro nuovo. La domanda di qualità e soddisfazione nel lavoro è stata confermata da sei responsabili delle risorse umane di grandi imprese di diversi comparti che erano presenti alla presentazione.

A proposito di imprese: il 38% dei lavoratori non ha svolto formazione e nelle imprese del 40% dei 30mila che hanno risposto non si investe in tecnologia o prodotti innovativi. Cioè si campa sul costo del lavoro o sulla nicchia statica o locale. I lavoratori delle imprese che fanno formazione e innovazione sono anche quelli che con più frequenza hanno diritto allo smart working. Se vogliamo trarre una conclusione da questi due numeri, possiamo dire che le imprese “moderne” sanno meglio come si tratta il lavoro nell’età contemporanea. Il problema del mercato del lavoro italiano è che pare ce ne siano poche.

Sempre parlando di organizzazione del lavoro e grande trasformazione, i lavoratori sono stressati dal carico e ritmo al quale devono lavorare, dalle incombenze, dal rapporto con un pubblico sempre meno gentile (le risposte di chi lavora nella sanità e nel commercio parlano di questo). Il 68% ritiene che il suo lavoro potrebbe essere sostituito da macchine. E anche questo è un elemento di preoccupazione e stress.

Nel complesso l’indagine della Fondazione è di enorme interesse e ancora di più lo sarà guardare al volume che conterrà un’analisi non sintetica dei dati. Con un ma che riguarda il sindacato e la sua capacità di essere nel mondo del lavoro contemporaneo. Su 30mila risposte infatti, i giovani che rispondono sono pochi e metà tra coloro che risponde non sa cosa faccia il sindacato, non lo ha mai incontrato. I disoccupati e i precari pure pochissimi. Il quadro dell’indagine, insomma, è anche lo specchio della capacità del sindacato di raggiungere le pieghe del mondo del lavoro. C’è un mondo precario nei servizi a bassa qualifica o nella platform economy o di partite Iva improbabili che non viene intercettato e il sindacato non sa come e cosa dirgli, né dove parlarci. Molti tra coloro che rispondono sono iscritti al sindacato, ergo hanno un “educazione” ad alcuni temi. La foto che emerge è insomma quella di un mondo del lavoro grande e tradizionale ma in parte separato da quel mondo precario che è tanto cresciuto negli ultimi decenni a anni (che contratto hanno i migranti che girano in moto portando le lenzuola per i letti dei bnb? I rider? I camerieri dei locali?). E poi c’è il divario geografico, che pure è specchio del mercato del lavoro più o meno stabile: il numero di questionari tornati indietro è alto al Nord e al Centro e basso al Sud. 

L’altro aspetto negativo riguarda le risposte e lo stato della società italiana. Se la questione salariale è pressante e importante per i lavoratori, molto meno lo sono altri temi cruciali come ad esempio la questione climatica. È un discorso lungo e difficile, ma appare evidente che dei lavoratori in pessime condizioni materiali hanno poco tempo e modo di pensare a questioni generali, che pure li riguardano da vicino. Non è un bene per il sindacato e neppure per la società nel suo complesso.