Quello romano è uno dei tanti casi che mostrano come i processi di deregolamentazione dei servizi pubblici abbiano favorito la diffusione di pratiche illecite. Un numero tematico della rivista Meridiana
L’inchiesta «Mafia Capitale» ha portato a ipotizzare l’esistenza a Roma di una mafia autoctona, «originaria» e «originale», ovvero di un’organizzazione criminale assimilabile sul piano giudiziario alle associazioni di tipo mafioso, quindi perseguibile attraverso l’articolo 416 bis del Codice Penale.
L’accusa ha avviato una vivace discussione non solo sul piano politico e istituzionale, ma anche tra gli addetti ai lavori e gli studiosi. Il problema non è solo quello di certificare – almeno per via giudiziaria – la presenza della mafia a Roma, quanto piuttosto di individuarne caratteristiche e peculiarità, di valutare cioè se siamo di fronte a una forma di criminalità organizzata che si può definire «di tipo mafioso».
La questione è quindi innanzitutto giuridica e giudiziaria, ma chiama in causa anche la ricorrente domanda su «che cos’è la mafia», a cui studiosi e analisti rispondono da sempre in modo assai differenziato. Un aspetto importante dell’inchiesta riguarda l’aver messo a fuoco un rapporto peculiare tra mafia e corruzione, nel senso che la «capacità di pressione intimidatoria» del sodalizio criminale sarebbe scaturita in gran parte da un sistema pervasivo di accordi e scambi corruttivi. Risulta infatti che esso abbia esercitato un controllo su una porzione consistente dell’amministrazione pubblica capitolina attraverso una serie di «intese corruttive» con funzionari e politici.
Dall’inchiesta emerge il coinvolgimento di un’ampia rete di imprese e cooperative attive nel campo dei servizi sociali, dell’accoglienza dei rifugiati, della gestione dei campi Rom, della raccolta rifiuti, dell’emergenza abitati- va, della gestione del verde pubblico. Sono tutti settori che sono stati interessati negli ultimi anni da intensi processi di esternalizzazione e privatizzazione, di cui è necessario tenere conto per meglio comprendere la loro vulnerabilità a pratiche illegali e a forme, più o meno organizzate, di criminalità. Le mafie trovano spesso varchi e opportunità in assetti di governance ispirate da logiche di mercato, che in realtà danno luogo a relazioni opache tra legale e illegale. Quello romano è infatti uno dei tanti casi che mostrano come i processi di deregolamentazione del welfare e, più in generale, dei servizi pubblici abbiano favorito la diffusione di pratiche illecite, avvantaggiando comitati d’affari e gruppi criminali. In quest’ottica, le vicende di Mafia Capitale sono quindi rilevanti per esplorare modalità e dinamiche che riguardano l’area grigia delle collusioni e complicità fra mafie, economia e politica.
Oltre agli articoli specificamente dedicati alla vicenda di Mafia Capitale, questo fascicolo comprende altri saggi che riguardano sempre il tema delle mafie e, soprattutto, dell’antimafia: la questione delle origini, la presenza delle mafie italiane all’estero, la continuità storica della «normale eccezionalità» della legislazione antimafia, il profilo degli amministratori giudiziari chiamati a gestire i beni sottratti alle mafie. Nel complesso questo numero, a partire dal caso di Mafia Capitale e allargando poi lo sguardo su altri temi, intende contribuire alla riflessione in corso su come riconoscere e perseguire le mafie in contesti molto differenti tra loro, analizzando in modo congiunto le strategie della criminalità organizzata e quelle dell’azione antimafia.