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Macron, le pensioni, la Francia e noi

Il presidente francese non è credibile quando dice che la riforma è indispensabile per l’equilibrio dei conti pubblici mentre vara un gigantesco programma di riarmo e non tocca le grandi diseguaglianze sociali tassando i super ricchi. Ma una lezione la insegna, in negativo.

Macron ha un grande problema

Sono noti a tutti, per il loro rilevante interesse e per l’ampia informazione in proposito fornita dai media italiani, i fatti recenti di Francia, con la lotta tra Macron e i sindacati, sostenuti questi ultimi da una grande parte dall’opinione pubblica, sul progetto di riforma delle pensioni. 

Come è anche noto, la riforma è passata soltanto grazie all’utilizzo da parte del governo dell’articolo 49.3 della Costituzione, che permette in certi casi di varare in Francia una legge senza passare per un voto in Parlamento, mentre il governo aveva ripetutamente negato precedentemente la volontà di farvi ricorso; sullo sfondo c’è il fatto che le ultime elezioni legislative hanno lasciato il partito di Macron privo di una maggioranza assoluta nell’Assemblea. Resterebbero ancora come possibili ostacoli al varo della legge il parere del Consiglio Costituzionale, che dovrebbe essere rilasciato a breve (ci sono in effetti ragionevoli dubbi sulla costituzionalità della riforma e in particolare sull’applicabilità nel caso specifico dell’articolo 49.3), nonché il possibile referendum abrogativo, che per essere portato avanti richiederebbe comunque la firma preliminare di un decimo almeno degli elettori, impresa difficoltosa. 

Più di due terzi dei francesi si sono intanto dichiarati ostili alla riforma e il 78% contrari all’utilizzo dell’articolo 49.3, mentre nelle scorse settimane milioni di persone sono scese in strada a più riprese per contestarla, con una mobilitazione che ha impressionato gli osservatori. Da segnalare la presenza massiccia, nelle proteste, anche della classi medie, apparentemente ormai allo stremo delle forze dopo i recenti sviluppi dell’economia (Saraceno, 2023).

Va ancora sottolineato come il presidente Macron ignori e disprezzi i corpi intermedi della società, l’Assemblea Nazionale, il Senato e soprattutto i sindacati, che si è tra l’altro rifiutato di ricevere per discutere della riforma (July, 2023). Nella sostanza, come ha scritto qualcuno, egli, come strategia generale, vuole tagliare la spesa pubblica, escludendo in tutti i casi di far pagare più tasse ai ricchi, vuole ignorare i sindacati e sostanzialmente deridere la democrazia. Per sovramercato, egli nutre un rigetto totale dello Stato sociale, che è peraltro al cuore dell’identità francese (July, 2023). Eppure nel 2017 il sindacato riformista, la Cfdt, aveva salutato con piacere la sua elezione, perché pensava di collaborare con il nuovo presidente per modernizzare proprio lo Stato sociale (Ungaro, 2013).

Può essere di qualche interesse cercare di analizzare alcuni aspetti di tale conflitto, chiedendoci anche le ragioni dello stesso; lo facciamo attingendo, per la gran parte del testo e a volte in maniera abbastanza estesa, a diversi articoli di stampa apparsi sull’argomento, in particolare ad alcuni quotidiani francesi e soprattutto poi a Le Monde, che ha pubblicato nel tempo diverse analisi abbastanza puntuali.

I numeri di base in gioco

Il nocciolo della riforma, anche se non il solo aspetto della stessa, è costituito dall’innalzamento dell’età pensionabile da 62 a 64 anni (come minimo), con l’aggravante di almeno 43 anni di contributi (in realtà, al di là delle dichiarazioni ufficiali, in certi casi ne servirebbero 44). 

Secondo le cifre rilasciate dal governo (Meoli, 2023), senza riforma il disavanzo della gestione pensionistica varierebbe tra il 2022 e il 2032 da 0,5 punti a 0,8 punti del Pil, vale a dire in valori assoluti da 10 miliardi all’anno in cinque anni a 20 miliardi in dieci anni, sulla base di ipotesi presenti nei calcoli ufficiali che possono essere considerate in qualche modo discutibili. Dalla riforma lo stesso governo spera di ottenere 9 miliardi di euro di risparmi nel 2027 e 15 miliardi nel 2030, anno in cui si dovrebbe raggiungere il pareggio di bilancio nel settore. 

Macron ha dichiarato che non ci sono cento strade per equilibrare i conti e che le uniche alternative sarebbero l’aumento delle tasse, il taglio dei sussidi e quello della spesa pubblica per istruzione, assistenza sanitaria, difesa. 

Ma il presidente francese non ha trovato molti economisti disposti a difendere la sua posizione. In effetti, intanto si prevede che il budget per la difesa cresca dai 295 miliardi del periodo 2019-2025 ai 413 miliardi di quello 2024-2030, con un incremento nel periodo di 118 miliardi (Meoli, 2023). Tale aumento è superiore alle economie generate dalla riforma delle pensioni, ciò che mette in dubbio l’atteggiamento di Macron come difensore dei conti pubblici.  

D’altro canto, il premio Nobel Thomas Piketty ha ricordato in un articolo di qualche settimana fa come negli ultimi dieci anni la ricchezza complessiva delle prime 500 famiglie più agiate del Paese è passata dai 200 ai 1.000 miliardi di euro e che basterebbe tassare moderatamente tali incrementi di ricchezza per far quadrare i conti. Aggiustarli senza aumentare le tasse dei più ricchi, ma attingendo ai poveri, non sembra una posizione giustificabile.

Così la riforma è figlia di una visione neoliberista estrema che non affronta i nodi cruciali del nostro tempo, quali l’aumento delle diseguaglianze, l’emergenza climatica e la bassa crescita dell’economia; un aggiustamento dei conti pubblici dovrebbe affrontare tali nodi, rilanciando appunto una crescita che affronti la crisi climatica e riduca le diseguaglianze. 

Macron, in difficoltà, ha poi di recente individuato un’altra ragione per cui sarebbe necessaria la sua riforma, quella dei mercati finanziari che la vorrebbero in maniera forte. Si può controbattere che gli stessi mercati finanziari non dovrebbero vedere di buon occhio una riforma che porta grandi disordini e instabilità nel Paese. 

Va comunque sottolineato come la comunicazione del governo su questa riforma sia stata pessima, combinando improvvisazioni, errori, menzogne, impreparazione totale. Questa disinvoltura su di una questione così delicata ha contribuito a far crescere incomprensioni e collera (July, 2023).

Bisogna dire che il peso della riforma graverà in particolare sui lavoratori con il titolo di studio più basso e che hanno cominciato a lavorare prima; essi quindi dovranno aspettare più anni prima di poter andare in pensione, mentre quelli con un titolo professionale più elevato che avranno cominciato a lavorare parecchio più tardi ne subiranno un peso molto minore. Ora, i lavoratori meno istruiti hanno un’aspettativa di vita più bassa e la riforma si mostra quindi come regressiva e in grado di aumentare le diseguaglianze (Napoletano, Roventini, 2023); un ulteriore elemento di ingiustizia è rappresentato dal fatto che le donne saranno penalizzate più degli uomini.

La democrazia e la piazza

Nel corso degli ultimi eventi, Macron e i suoi hanno più volte contrapposto la democrazia alla piazza, il bene democratico al male anarchico. Questa rappresentazione delle cose, osserva Alain Supiot, noto esperto di diritto del lavoro (Supiot, 2023), disconosce la natura della nostra democrazia e contribuisce a privarla di una delle due gambe che le permettono di camminare, la sua gamba sociale. La democrazia sociale è un rimedio alle insufficienze di una concezione puramente quantitativa della rappresentazione politica, afferma lo studioso. 

Davanti ai danni della rivoluzione industriale il diritto sociale ha sin dall’inizio mirato a proteggere le popolazioni più deboli. 

Per altro verso, la democrazia è minacciata quando la gestione della cosa pubblica viene affidata a esperti, a tecnici, la cui competenza è eretta a dogma, a danno dei funzionari e degli utenti dei servizi pubblici. Si è così perduta la coscienza che un governo efficace deve tener conto in modo adeguato delle aspirazioni delle grandi masse. Tra l’altro, i teorici dell’ordine spontaneo del mercato vedono i sindacati come delle organizzazioni inutili di fronte a dei dirigenti sicuri di incarnare la ragione economica.

Al di là della presidenza, è tutto l’edificio istituzionale, tutti gli attori politici, che sono discreditati (Garrigues, 2023). La legittimità istituzionale sconnessa dal consenso popolare non è più che un guscio vuoto, un gioco di ruolo cui la maggioranza dei francesi non vuole più credere; ci troviamo così di fronte ai sintomi di una disconnessione radicale tra una buona parte dei cittadini e le élite politiche, di cui il capo dello Stato è l’archetipo. Per altro verso, tale crisi di legittimità istituzionale è in atto già da alcuni decenni e le imprese di Macron non stanno facendo altro che aggravarla in misura rilevante. 

La soluzione passerebbe dalla riconnessione tra la legittimità istituzionale e la legittimità popolare (Garrigues, 2023). Il tempo della monarchia presidenziale è passato e l’esigenza di partecipazione dei cittadini appare un moto irreversibile. E’ venuto il tempo che delle riforme costituzionali e soprattutto delle nuove pratiche politiche vengano a registrare questa domanda sociale.

Una ricerca recente (Conesa, 2023) mostra chiaramente come si registri oggi nella popolazione una diffidenza generalizzata verso le istituzioni, che dà la sensazione di una società malata e fratturata, avvicinando ormai la Francia all’Italia, spiega l’analista. Circa i due terzi dei cittadini francesi valutano che la democrazia non funziona bene (65%), contro il 40% in Germania, il 53% in Gran Bretagna, il 59% dell’Italia. La fiducia nel proprio governo è al 46% in Germania, al 33% in Italia, al 28% in Gran Bretagna, al 26% in Francia. Anche l’Unione Europea non gode di una grande popolarità; la fiducia dei tedeschi verso Bruxelles è al 48%, quella degli italiani al 42% e quella dei francesi al 35%. Questi indicatori sono peggiorati nell’ultimo periodo in relazione alla guerra, all’inflazione, alla crisi energetica, oltre che, in Francia, alla riforma delle pensioni.  

Il caso francese dovrebbe far ovviamente riflettere i sostenitori nostrani del presidenzialismo, formula che evidentemente non risolve molti problemi e ne crea di nuovi.    

La svalutazione del lavoro

Il soggetto centrale della riforma delle pensioni è quello del lavoro. La grande maggioranza degli occupati francesi è contraria soprattutto all’idea di dover lavorare due anni di più dal momento che lo stesso lavoro è diventato sempre più duro, intenso e in perdita di senso per la gran parte degli occupati. Se il progetto di riforma delle pensioni è così male accettato dai due terzi dei francesi e dai tre quarti degli attivi, è in relazione al fatto che la loro esperienza di lavoro è negativa e che la pensione costituisce ai loro occhi la sola ricompensa che resta (Cautrès ed altri, 2023). Tutto questo in relazione alle politiche pubbliche e delle imprese volte da molto tempo a lottare contro il costo del lavoro, in relazione ad un’idea presente in Francia sin dagli anni Ottanta secondo la quale la disoccupazione e la debole competitività delle imprese francesi sarebbero dovute a un costo del lavoro troppo elevato, in particolare in ragione di uno Stato-previdenza troppo costoso, con dei contributi sociali molto elevati (Palier, 2023). 

Ma Paesi come la Germania e la Svezia presentano un costo del lavoro più elevato, pur riuscendo comunque ad essere più competitivi, mentre bisogna constatare che le imprese francesi, invece di cercare di migliorare il livello tecnologico delle loro produzioni, come hanno fatto i Paesi citati, hanno preferito produrre le stesse cose con meno personale, pagato comparativamente di meno. L’efficacia di tale politica è stata molto debole e nello stesso tempo essa non ha permesso di migliorare le deboli posizioni francesi nell’export, mentre ha contribuito a costruire un rappresentazione svalutata del lavoro, ridotto ad un puro costo, invece di considerarlo come in altri Paesi un atout (Palier, 2023). 

Viene spontaneo a questo punto un confronto con il caso italiano. Anche nel nostro Paese, e questa volta ancora prima che in Francia, la Confindustria ha cercato di diffondere l’idea che il problema centrale delle imprese fosse quello del costo del lavoro; il risultato è stato anche nel nostro caso che il lavoro è stato svilito ancora di più che nel Paese transalpino, ciò che ha avuto l’effetto, come in Francia e ancora di più che in Francia, di farci restare molto indietro certo come costo del lavoro, ma anche come livello tecnologico delle nostre produzioni e come posizionamento nella divisione internazionale del lavoro. 

Conclusioni

Per molti commentatori l’utilizzo del 49.3 segna la fine del macronismo (Legrand, 2023), indicando un suo scacco strategico, ma anche l’inutilità o, peggio ancora, la sua nocività per la Francia. Macron voleva dinamicizzare la democrazia, ne ha invece accentuato il suo carattere personalistico. Tra l’altro, non ha mai voluto creare un movimento ideologicamente definito, dai contorni politici chiari e con un progetto di società dai contorni precisi (Legrand, 2023). Nessuno sa quale sia il progetto politico del presidente, plausibilmente neanche lui stesso (July, 2023). Questa indeterminazione ha lasciato il posto all’arbitrio. Così i progetti di legge futuri, quello sull’immigrazione, quello di riforma delle istituzioni, dovranno tutti passare dal 49.3, perché l’opposizione non accetterà di discuterle. In ogni caso la combinazione tra un’inflazione galoppante e una riforma che appare negativa in particolare per gli operai, gli impiegati e tutti i mestieri più umili ha costituito una miscela esplosiva (July, 2023).  

Invece di pensare a Macron, cioè al destino di un presidente diventato politicamente impotente, la Francia avrebbe bisogno di occuparsi dei poveri e delle diseguaglianze, dell’ambiente, della bilancia commerciale e di altri problemi impellenti.

In ogni caso, risulta evidente che le istituzioni della Quinta repubblica sono in grande difficoltà e andrebbero cambiate, portando in particolare ad una costituzione meno autoritaria, mentre bisognerebbe anche pensare a ridefinire il ruolo e il peso del lavoro nella società.

Alla fine, per quanto riguarda il nostro Paese, appare in queste settimane abbastanza sorprendente la sua immobilità di fondo, di fronte invece ai grandi sommovimenti francesi, che coinvolgono fortemente, come già accennato, anche le classi medie, nonché agli importanti scioperi tedeschi e inglesi (con questi ultimi che durano ormai da diversi mesi), nonché ai tentativi dei governi spagnolo e portoghese di cambiare in positivo, sia pure tra diverse difficoltà, la condizione del lavoro nei loro Paesi; eppure la situazione italiana non è certo oggi delle migliori per le classi medie e popolari.

Testi citati nell’articolo

-Cautrès B. ed altri, La réforme des retraites, révélatrice de la crise du rapport au travail, Le Monde, 16 marzo 2023 

-Conesa E., la confiance dans la politique au plus bas, Le Monde, 16 marzo 2023

-Garrigues J., Au-delà de la présidence jupitérienne, c’est tout notre édifice institutionnel est discrédité, Le Monde, 21 marzo 2023 

-Legrand Th., Le 49.3 ou la fin du macronisme, Liberation, 19 marzo 2023

-July S., L’agonie du Macronisme, Liberation, 20 marzo 2023 

-Meoli F., Francia, i numeri della riforma delle pensioni, www.ilfattoquotidiano.it, 1 aprile 2023 

-Napoletano M., Roventini A., La rivolta francese dimostra che non si può ignorare la diseguaglianza, Domani, 28 marzo 2022

-Palier B., Comment les stratégies low cost ont dévalorisé le travail, Le Monde, 19-20 marzo 2023

-Saraceno F., La rivolta delle classi medie non è un problema solo francese. Quando toccherà all’Italia?, Domani, 26 marzo 2023  

-Supiot A., Un gouvernement avisé doit se garder de mépriser la démocratie sociale, le Monde, 16 marzo 2023  

-Ungaro S., In Italia il sindacato potrebbe guidare proteste simili ?, Domani, 25 marzo 2023