Il nuovo ordine post bellico segnerà il declino dell’ordine di Maastricht e l’ascesa di un ordo-occidentalismo sempre più di marca atlantica? Dal nuovo sito fuoricollana.it diretto da Antonio Cantaro e Federico Losurdo ospitiamo uno dei contributi nel numero dedicato a “Russia, ieri oggi e domani”.
Trenta anni fa, mentre alcuni Stati europei discutevano il Trattato di Maastricht, arrivava nelle librerie di mezzo mondo il famigerato saggio di Francis Fukuyama La fine della Storia e l’ultimo uomo. Il testo teorizzava che la fine dell’Urss avrebbe aperto una nuova era di stabilità, con la democrazia liberale capace di diffondersi in tutto il mondo, portando benessere e crescita economica dappertutto. Presto nel corso di questi trent’anni e, segnatamente, nel corso di questi mesi, il mondo avrebbe decisamente cambiato direzione.
La Russia sta cambiando il mondo, ma forse anche il mondo (atlantico/occidentale) ha contribuito da tempo a cambiare la Russia. E, l’Unione ci ha messo del suo. A partire, in tempi recenti, dalla risoluzione del Parlamento Europeo del 19 settembre 2019 che sostanzialmente equiparava nazismo e comunismo e riscriveva la Storia della Seconda guerra mondiale in chiave revisionista. Una risoluzione che rovesciava quelle dello stesso Parlamento Europeo che sino ad allora aveva riconosciuto il contributo decisivo dato dall’URSS alla sconfitta del nazifascismo.
La pace e l’ordine di Maastricht
Alla luce della postura bellicista con cui le attuali classi dirigenti europee stanno affrontando in queste settimane la guerra in Ucraina non si è trattato solo di un grave errore, ma dell’annuncio di un capovolgimento del paradigma con cui anche l’Unione aveva a lungo tematizzato, sia pur ambiguamente, la questione della pace e della guerra. L’ordine di Maastricht è, infatti, nato nell’epoca del dopo guerra fredda e grazie al dopo guerra fredda. Grazie ad un contesto che rendeva plausibile declinare, in primo luogo da parte della Germania, la filosofia ordoliberalista della competizione economica come una sorta di continuazione della politica di potenza con altri mezzi. Con mezzi non bellicisti.
Ancor più inequivocabilmente, nei trent’anni precedenti a Maastricht, al processo di integrazione europea era stato affidato dalle classi dirigenti europee il compito di porre le basi per impedire lo scoppio di un’altra guerra mondiale. All’origine, infatti, l’integrazione sovranazionale era stata lanciata con l’espresso scopo di traghettare i settori industriali di guerra – carbone, acciaio, nucleare – al di fuori della sfera degli Stati nazionali. L’intero processo era stato progettato per limitare rivalità di potere, dispute territoriali, e narrative di esclusività che avevano già contribuito allo scoppio della Prima guerra mondiale.
Con la firma dei trattati di Roma, nel marzo del 1957, questi obiettivi pacifici non vengono più affidati alla esplicita costruzione di una comune identità politica. E tuttavia non vengono meno. Si punta prevalentemente sull’integrazione economica, sulla prosperità derivante dallo sviluppo dei commerci (insieme al benessere economico e sociale derivante dalla costruzione di robusti Stati sociali nazionali) quale veicolo per favorire una cooperazione più integrata tra i governi europei. La comunità europea, come si chiamava allora, ha in questa fase il dichiarato scopo di diluire nazionalismo e rivalità di potere, aiutando tutti nel prosperare, sostituendo la logica a somma zero della politica di potenza europea con quella a somma positiva di un processo decisionale comune.
Sia pur tra alti e bassi questa anima pacifista è stata quella prevalente nei decenni che precedono la firma del Trattato di Maastricht. Ma persino tanti di coloro che ne furono poi i fautori erano animati da questo spirito. L’idea di Jacques Delors era che la maggiore crescita economica derivante dal completamento del mercato unico e dall’unione monetaria avrebbe ulteriormente consolidato la pace. D’altronde, si diceva, l’Unione Sovietica e il suo blocco militare non erano stati sconfitti su di un campo di battaglia. Al contrario, erano stati sconfitti economicamente e la Comunità Europea vi aveva contribuito approfondendo la logica dell’integrazione e non armandosi fino ai denti.
Già qualche anno dopo la ratifica di Maastricht l’idea del processo di integrazione economica come veicolo in sé di pace comincia a vacillare. Mentre il continente europeo veniva retoricamente rappresentato come unito e libero, conflitti minori nascevano in diverse parti d’ Europa. Se la Cecoslovacchia si era divisa pacificamente, la Jugoslavia si era sgretolata in tanti piccoli pezzi macchiandosi di crimini di guerra e pulizia etnica. E gli anni successivi, ben prima dello scoppio dell’attuale guerra, si incaricavano di mostrare quanto problematica fosse l’idea di un automatismo tra massimo sviluppo dell’integrazione economica e pace all’interno e all’esterno dei confini dell’Ue.
Rimilitarizzazione e la bipolarizzazione del sistema internazionale
Cionondimeno, nell’epoca di Maastricht, la guerra, nella sua forma classica, non ha costituito un elemento-cardine della politica degli Stati europei, lasciando spazio solo a tipi residuali e marginali di conflitti armati. Da una parte guerre civili combattute al di fuori dello spazio centrale del sistema internazionale da fazioni a propria volta marginali delle rispettive società; dall’altra guerre di polizia condotte dai paesi occidentali nelle aree periferiche, attraverso l’uso di strumenti militari incomparabilmente superiori per capacità tecnologiche e organizzative ai propri nemici. Un terreno che escludeva che l’Europa sarebbe stata coinvolta pesantemente in una dinamica di rimilitarizzazione. La guerra in Ucraina sembra riportarci, invece, alla più tradizionale delle guerre interstatali europee. E a questa eventualità stanno tornando a prepararsi tutti gli Stati europei, aumentando le rispettive spese per la difesa.
Fianco a fianco alla militarizzazione è plausibile prevedere che la guerra in Ucraina contribuirà ulteriormente ad alimentare la bipolarizzazione del sistema internazionale lungo l’ambiguo asse retorico dello scontro tra democrazie ed autocrazie. Con un impatto ambivalente sull’Europa. Da un lato, essa ha il vantaggio di allontanare lo spettro dell’abbandono periodicamente agitato dalla precedente amministrazione Trump, restituendo all’Europa l’antico ruolo di interlocutore privilegiato degli Stati Uniti. Ma, dall’altro lato, il ‘richiamo all’ordine’ dell’Europa ha lo svantaggio di intralciare sul nascere la flessibilità diplomatica che sembrerebbe più consona a un contesto multipolare quale quello a cui la stessa Unione europea ha anche nell’epoca di Maastricht dichiarato sempre di volersi ispirare. E di intrappolarla, al contrario, in una competizione regionale con la Russia e globale con la Cina, sfumando ulteriormente le chance di accrescere il tasso di autonomia politica e strategica dagli Stati Uniti.
La globalizzazione a rischio
A sua volta, l’approfondimento delle fratture politiche e strategiche rischia di disarticolare lo spazio economico internazionale, rovesciando anche un altro dei luoghi comuni della fase di ascesa del nuovo ordine liberale seguito alla fine della guerra fredda. Se, ancora fino a pochi anni fa, la convinzione prevalente era che la globalizzazione economica si sarebbe portata dietro presto o tardi qualche forma di globalizzazione politica e culturale, oggi scopriamo che sono le fratture politiche e geopolitiche a mettere a rischio la globalizzazione economica. I segnali in questa direzione sono inequivocabili e si sommano a quelli già prodotti dalla pandemia. La spinta politica più ancora che economica a “riportare a casa” attività in precedenza delocalizzate, almeno in settori nuovamente dichiarati “sensibili”, la riscoperta della promessa di “confinamento” e della “messa in sicurezza” dei confini dei singoli Stati nazionali e delle organizzazioni regionali (Unione Europea in primis), la rinnovata enfasi sulla necessità strategica dell’autonomia energetica, vedono sempre di più la globalizzazione come un vettore di vulnerabilità invece che di mutuo arricchimento.
Certo, la guerra in Ucraina sembra apparentemente rimettere l’Europa al centro delle tensioni e dei calcoli strategici dei principali attori internazionali. Ma lo fa in un contesto nel quale il baricentro politico, economico e strategico del sistema internazionale rischia ulteriormente di spostarsi altrove. Come lascia presagire il fatto che ad oggi le pur limitate possibilità di trovare una via d’uscita al conflitto tra Russia e Ucraina vedono sinora in campo potenze extraeuropee e Stati dell’Unione considerati sino all’altro ieri assai poco europeisti.
Il tramonto dell’ordine di Maastricht
Le roboanti dichiarazioni ufficiali delle classi dirigenti dell’Unione rimuovono questo dato e, invece, di cominciare a ragionare su come uscire in avanti dall’ordine di Maastricht e costruirne stabilmente uno nuovo, sembrano piuttosto, al momento, dirette a guadagnare tempo. La Commissione, per bocca del commissario europeo all’economia Paolo Gentiloni, ha affermato l’intenzione di prorogare ulteriormente la sospensione del famigerato Patto di stabilità e crescita al fine di fronteggiare le conseguenze economiche della guerra in corso. La Presidente della BCE Christine Lagarde, premesso che «L’Unione bancaria e l’Unione dei mercati dei capitali sono gli obiettivi fondamentali per l’Unione Europea», ha affermato che «la congiuntura attuale è favorevole e va sfruttato questo momento per fare passi avanti». L’attuale Presidente della Commissione europea ha dichiarato che l’UE finanzierà per la prima volta l’acquisto e la cessione di armi a un Paese sotto attacco. Ma nessuno spiega come potrà la fragilissima architettura fiscale e di bilancio dell’UE supportare simili ambizioni e quale sarà il ruolo che assumerà la politica monetaria in tutto questo.
D’altra parte, l’inversione di rotta della Germania, tanto nella politica energetica che nella spesa militare, sembra più il coronamento della politica USA tesa a impedire la nascita di un “grande spazio” europeo che non la realizzazione di una politica comune europea energetica e di difesa comune. Mentre è assai dubbio che la Francia voglia “comunitarizzare” l’arma atomica, come a suo tempo volle la comunitarizzazione del marco e della Bundesbank in cambio dell’assenso alla riunificazione tedesca. Se c’è una permanente tendenza di fondo dell’UE, che accomuna la gestione delle precedenti crisi (economica e pandemica) all’attuale crisi bellica, è quella di fare troppo affidamento sulla politica monetaria e sulla BCE, stavolta utilizzata come arma con cui sganciare l’inedita “bomba economica” del congelamento delle riserve estere della banca centrale russa. Un ordigno assai dirompente anche per chi lo sgancia, capace di minare la fiducia nel dollaro e nell’euro, sminuendo l’affidabilità delle banche centrali occidentali, e di incoraggiare Cina e Russia ad aggirare l’infrastruttura finanziaria occidentale e ad incentivare monete internazionali alternative come il bitcoin (Guazzarotti).
Anche da questo tutt’altro che secondario punto di vista, l’ordine di Maastricht più che una nuova alba potrebbe essere avviato a percorre la strada del tramonto. Un tramonto che potrebbe aprire le porte ad una rinascita dell’Europa su basi completamente nuove. Un lavoro di lunga lena, difficile, faticoso che espone a diversi rischi coloro che si volessero cimentare con questa temeraria impresa. Ciò che al momento è realisticamente più probabile è che il nuovo ordine post bellico segnerà la nascita di un’epoca non più sotto l’egida dell’ordoliberalismo tedesco bensì sotto quella dell’ordo-occidentalismo atlantico. Se così sarà, vorrà dire che, come dicevano i ragazzi delle primavere arabe, l’Europa sta invecchiando e sta invecchiando male. Torneremo, presto, a parlarne nelle pagine di fuoricollana.it.