“Cambiare consumo e risparmio per cambiare l’economia”. Come incidere dal basso su un sistema che non funziona più. Un libro di Becchetti, Di Sisto e Zoratti
Se l’80% dei cittadini del nostro Paese decidesse improvvisamente di assumersi la responsabilità di fare qualcosa in prima persona per aumentare il benessere della società e il proprio, si troverebbe di fronte due strade. Potrebbe percorrere la prima e fare una donazione. La strada più battuta, ma molto spesso di efficacia limitata. Oppure potrebbe imboccare la seconda, via via sempre più frequentata, ma ancora un po’ invisibile agli occhi del grande pubblico: il «voto con il portafoglio», una scelta concreta contenuta nelle pagine del libretto “Il voto nel portafoglio: Cambiare consumo e risparmio per cambiare l’economia”, scritto dall’economista Leonardo Becchetti insieme a Monica Di Sisto e Alberto Zoratti della cooperativa equosolidale Fair. Nel primo caso l’impatto sui problemi complessi che abbiamo di fronte – dalla crisi globale all’impoverimento all’esclusione economica e sociale, al superamento dei limiti del pianeta – non sarebbe particolarmente forte. Il sistema delle donazioni, infatti, è importante ma non incide e non modifica i meccanismi di mercato. Oltre al fatto che è soggetto ad una serie di problemi di efficienza che spesso possono vanificare le intenzioni dei donatori. Noi tutti, al contrario, attraverso le nostre scelte di consumo e di risparmio, possiamo incidere dal basso sul sistema socioeconomico in maniera decisiva. La forza di questo vero e proprio voto deriva dal fatto che il sistema, e in particolare le imprese, dipendono dalle quote di consumo e dalle quote di risparmio che riescono a catturare sul mercato. Fare attenzione non solo al prezzo di un prodotto, ma anche alla sua qualità sociale e ambientale, permette di orientare le proprie scelte verso quelle aziende all’avanguardia dal punto di vista della sostenibilità. Un atteggiamento apparentemente semplice, ma che può spostare concretamente l’asse dell’interesse delle imprese, creando un effetto «imitativo». Se imboccassimo con decisione questa seconda via ci troveremmo, secondo gli autori, di fronte ad una rivoluzione vera e propria, con le imprese che, per fronteggiare una domanda etica forte ed esigente, e dunque per sopravvivere, dovrebbero mettere la sostenibilità al primo posto. Questa possibilità oggi non è una pura utopia, ma poggia su solidi dati di realtà. Numerose indagini di mercato sui gusti dei consumatori in diversi Paesi europei, mostrano che siamo disposti in misura crescente a spendere anche di più per acquistare prodotti ad alto valore sociale e ambientale. Questa quota di mercato è in crescita in Olanda, Germania, ma anche in Italia, dove il 50-60% dei consumatori preferirebbe un prodotto del Commercio equo e solidale – lo schema più diffuso ed efficace di filiera etica – a parità di prezzo, mentre un 20-25% di essi sarebbe disposto a preferire il prodotto equosolidale anche pagando un differenziale di prezzo fino al 10-15% superiore a quello di un prodotto tradizionale. Nel 2007 almeno il 30% degli italiani, secondo una rilevazione dell’Istituto Italiano della Donazione ha destinato denaro proprio alla beneficienza1. Ma secondo un altro sondaggio realizzato da Spaziolibero nel mese di maggio 2006, circa 1 italiano su 2 ha già sentito parlare di Commercio equo e solidale, mentre 1 su 3 ne ha già acquistato almeno una volta i prodotti. tipo di provvedimento sarebbe maggiore rispetto alla scelta effettuata essendo certi di vivere in un Paese ricco. Per evitare di affrontare seriamente il tema dell’equità, tuttavia, come società ci siamo nascosti per anni dietro concetti esotici, come quello del trickle down, cioè dello «sgocciolamento». Si ammette cioè che la nostra società premia chi è già ricco, ma si postula che se è il ricco a creare il profitto, la ricchezza scivolerà comunque a valle arrivando a far felici un po’ tutti. Ad essere sinceri e rigorosi è possibile verificare persino di persona che di «sgocciolamenti» ce se sono stati proprio pochi, e quasi certamente non ce ne sono stati almeno per lo «zoccolo duro» dei poveri, quel miliardo di persone, il “botton billion” che secondo tutti gli studi più recenti anche quando il numero dei poveri negli anni scorsi si è ridotto sensibilmente, è rimasto clamorosamente inchiodato alla propria miseria.Le iniziative economiche descritte dagli autori sono tutte ispirate ad una diversa lettura dei problemi socioeconomici. Se non adottiamo uno sguardo a tre dimensioni sulla situazione che stiamo vivendo, è la tesi espressa nel libro, non riusciremo a capire la portata dei problemi che ci troviamo di fronte in questa fase storica. Esistono tre assi fondamentali, tre dimensioni lungo le quali ricollocare tutti i nostri elementi d’analisi: – quella materiale, con la triade concettuale-operativa povertà-produttività-crescita, cui tradizionalmente guardano gli economisti; – la sostenibilità ambientale, che ci porta a misurarci con il limite delle risorse ed il cambiamento climatico; – la qualità della vita, messa in luce molto bene dai più recenti studi sulla felicità. Il vero problema che ci troviamo di fronte è che oggi pochissimi tra gli esperti hanno le competenze e sono in grado di ragionare a tre dimensioni. La maggior parte di essi, infatti, si focalizza solo su di una, creando dei paradossali effetti di non comprensione della realtà. Gli economisti, dal canto loro, sono tradizionalmente portati a ragionare sulla prima dimensione, quella materiale, e vedono come principali obiettivi della propria azione la crescita, l’aumento della produttività e l’aumento dei consumi, senza rendersi conto di alimentare delle distorsioni sulle altre dimensioni. Una crescita senza controllo, però, come ha dimostrato la crisi recente, può creare cortocircuiti gravissimi sul piano della sostenibilità ambientale, ed è stato dimostrato recentemente che può mettere in crisi anche la terza dimensione, quella della qualità della vita. Tutti gli studi sulla felicità nascono da alcune osservazioni: Richard Easterlin dimostra, ad esempio che nel secondo dopoguerra il reddito pro-capite degli statunitensi è aumentato in modo sensibile, ma la quota di coloro che si dichiaravano felici è rimasta stabile fino a quel momento, mentre successivamente ha cominciato lentamente a declinare. Questo paradosso è riscontrabile in molti altri Paesi d’Europa e, se vogliamo, il dato più scioccante è senza dubbio quello che ci rivela Diener, che mette a confronto i livelli di felicità media degli uomini più ricchi del mondo (considerati secondo la rivista «Forbes»), con quelli rilevati tra i componenti di una tribù di Inuit della Groenlandia, di una comunità di Amish statunitensi e di una tribù di Masai del Kenya. Incredibile a dirsi, ma il livello medio di felicità dichiarata tra soggetti tanto diversi tra loro è lo stesso.
Leonardo Becchetti, Monica Di Sisto, Alberto Zoratti. Il voto nel portafoglio. Cambiare consumo e risparmio per cambiare l’economia, il Margine ed., 2008, 14 euro