La corsa all’oro bianco, il litio, fondamentale per le batterie delle auto e per gli accumulatori per le rinnovabili oltre che per computer, smartphone e industria della difesa, è partita anche per l’Italia. Vediamo di cosa si tratta con il geologo del Cnr Andrea Dini.
Anche per l’Italia è partita per la corsa al litio e agli altri materiali critici per la transizione energetica. Il viaggio dei primi di ottobre del ministro degli Esteri Antonio Tajani in Argentina, con al seguito i vertici della società Simest di Cassa Depositi e Prestiti (1), si spiega come un tentativo di accordo di interscambio agevolato dai legami di amicizia, storici e politici, con la Casa Rosada guidata dal turboliberista Javier Milei. L’Argentina è infatti uno dei grandi paesi produttori di litio, materiale al momento essenziale per la filiera delle batterie per l’auto elettrica. E la caccia ai materiali critici è partita anche all’interno del territorio italiano con il decreto Materie Critiche entrato in vigore lo scorso maggio. Il ministro dell’Ambiente Gilberto Picchetto Fratin in una recente question time alla Camera ha già dovuto specificare, incalzato dall’opposizione, che le miniere e i siti che verranno aperti o ri-aperti in virtù di questo decreto non dovranno ricadere entro confini di parchi e aree protette. È il litio in particolare su cui si addensano le speranze estrattiviste del governo.
Prima di parlare del litio italiano con Andrea Dini del Cnr di Pisa bisogna però fare una premessa, per spiegare cosa è, perché e in quale misura è un elemento fondamentale della transizione energetica e della lotta contro il riscaldamento climatico e quali implicazioni può comportare la riattivazione dell’attività mineraria prevista con il decreto, in attuazione delle direttive europee (2).
– Di cosa si sta parlando
Si comincia con il dire che litio è un elemento antico e nuovo; dal greco lithos, pietra, è insieme il minerale più antico della crosta terrestre e il metallo più leggero che esista; è bianco, friabile, di sapore dolciastro (si trova in molti alimenti e ne assumiamo quotidianamente l’equivalente di una zanzara), versatile. Sì, versatile perché chimicamente reagisce sia con molte sostanze inorganiche sia con sostanze organiche, e per queste ultime sue proprietà inizialmente veniva utilizzato quasi solo nella farmaceutica – i sali di litio per la cura delle psicosi si usano ancora oggi ma, pensate, al suo esordio, poco prima della crisi del 1929, la “Seven Up”, la bevanda dolce, limonosa e frizzante in lattina verde, ne conteneva tracce come blando antidepressivo -; mentre per i suoi legami chimici con altri materiali inorganici veniva utilizzato – e ancora si usa, a dire sul vero – nell’industria del vetro e delle ceramiche.
La scienza dei materiali non ha mai smesso di studiarlo, essendo un elemento in grado di essere utilizzato in ambiti disparati che vanno dalla ricerca nella fusione nucleare al suo utilizzo quale cuore attivo delle batterie ad alta capacità. E così possiamo dire che la nuova epoca, quella delle energie rinnovabili, delle tecnologie digitali, della cosiddetta intelligenza artificiale ma soprattutto dell’elettrificazione del sistema energetico, è l’epoca del litio, almeno fin quando non sarà matura una tecnologia migliore come potrebbero essere i supercondensatori o le batterie al sodio che si stanno sperimentando. In effetti lo chiamano “oro bianco” per contrapporlo all’oro nero, il petrolio, non perché sia particolarmente prezioso, ma per segnalare la stessa speculare centralità nel sistema economico, quello futuro. Ancora oggi il mercato del petrolio vale 2.000 miliardi di dollari l’anno mentre il giro d’affari del litio solo 4 miliardi di dollari.
Le energie rinnovabili, essendo senza combustione non producono anidride carbonica e sarebbero perciò “verdi”. Ma come ogni attività umana anche loro hanno un impatto sull’ambiente: sono voraci di metalli, tra cui il litio – eccolo là – necessario in particolare per le batterie agli ioni di litio, le più utilizzate al momento e la parte preziosa dei veicoli elettrici (3). Le celle rappresentano infatti l’80 per cento del prezzo della batteria e circa un quarto del costo della vettura elettrica. Il litio è poi indispensabile per gli accumulatori statici di energia rinnovabile, quelli necessari a stoccare l’energia in assenza di sole negli impianti fotovoltaici o di vento in quelli eolici. Le batterie servono inoltre per biciclette e monopattini elettrici e, sempre più miniaturizzate, nei vari device, dai computer ai telefonini fino ai droni, nelle leghe degli aerei. Uno smartphone contiene da 3 a 5 grammi di litio, un’auto ibrida da 1 a 5 chilogrammi, un autobus elettrico circa 200 chilogrammi.
Il litio delle batterie – dicevamo – non si trova libero in natura, deve essere estratto dalle rocce o decantato dalle salamoie saline o dalle acque vulcaniche. Nelle rocce si presenta sotto forma di pegmatiti solide, dove il metallo è chimicamente legato in silicati di differente composizione, a formare filoni di cristalli. Nelle salamoie è presente, insieme ad altri sali, come cloruro di litio, successivamente trasformato in carbonato per evaporazione dell’acqua e reazione con carbonato sodico. Data la differente origine, il litio che viene estratto dalle rocce granitiche, è, naturalmente, più concentrato. I giacimenti più imponenti di litio sono in Australia e in America Latina, eppure il litio è considerato un materiale strategico e inserito nella lista delle 34 materie prime critiche indicata dalla Commissione europea, che ha anche fissato un regolamento delle attività estrattive in territorio europeo (4). Queste materie prime sono considerate “critiche” nel senso che le loro forniture devono essere monitorate per evitare colli di bottiglia e improvvisi shock – inclusi uragani e altri cataclismi dovuti al riscaldamento climatico – tali che possono mandare i sistemi industriali dei vari paesi in tilt nel giro di poco tempo. È chiaro però che la criticità a cui l’Europa fa riferimento sottintende, anzi è esplicitamente riferita a dipendenze dall’estero e in particolare da paesi con cui possono verificarsi gravi tensioni commerciali a livello internazionale, detto in parole chiare che provengano dalla Cina. La quale però importa il litio, non ne ha. E qui bisogna vederci più chiaro.
– I padroni del litio
Sono cinque le multinazionali che detengono il primato del litio dal punto di vista estrattivo e della sua raffinazione: due sono cinesi, due americane e una cilena. La Albermarle Corporation è la prima produttrice di litio al mondo, incluso gli impianti che ha nel deserto salato di Atacama tra Cile e Argentina, ed è americana. La seconda, sempre americana, è la Livent, con impianti anche in Cina e India, oltre che a Salar del Hombre Muerto in Argentina. Poi c’è la Sociedad Quimica y Minera de Chile, anche lei attiva soprattutto ad Atacama. Quindi le cinesi Tinqi Liuthium e Jiangxi Ganfeng Lithium, attive anche nelle enormi miniere australiane e importanti partecipazioni nelle miniere messicane e argentine. (4)
Il litio è dunque “critico” non perché, come nel caso delle terre rare (5), sia direttamente in mano cinese. Piuttosto perché si prevede che ne servirà sempre di più, in tantissime applicazioni ma soprattutto, come dicevamo, nell’immagazzinamento di energia elettrica e nei trasporti elettrificati. E quindi si prevede che la dipendenza da questo materiale aumenterà esponenzialmente. Quanto? Non si sa. Le previsioni su questo aspetto sbarellano proprio, cioè non seguono un ordine di grandezza coerente.
Uno studio tedesco-finlandese apparso su Nature nel 2020 (6) sulla valutazione della disponibilità a lungo termine del litio al crescere della domanda di batterie ipotizza addirittura 18 scenari diversi, calcolando diversi fattori sulla direttrice dell’avvicinamento o meno alla neutralità carbonica. Lo studio rimarca il fatto che soltanto nelle proiezioni meno ambiziose, sostanzialmente progredendo nella transizione al ritmo che abbiamo adesso – e che però non ci avvicina agli obiettivi Onu del Millennio né alle raccomandazioni degli scienziati dell’IPCC, né agli obiettivi del Green Deal europeo – avremmo abbastanza litio fino alla fine del secolo. Nella previsione più catastrofica e forse solo distonica ne servirà 40 volte quello quanto ne consumiamo oggi globalmente al 2070.
Nello studio citato si evidenzia come i principali produttori avessero già investito 50 miliardi di dollari sulla tecnologia agli ioni di litio fino al 2025.
Ma gli investimenti dipendono molto dalla convenienza ipotizzata, cioè dal rapporto costi industriali-prezzi di mercato e quindi dall’utilizzo previsto. Negli anni scorsi, ad esempio, anche a causa della pandemia che ha rallentato tutto, c’è stata una crisi di sovrapproduzione; inoltre ancora non è dato sapere quando potrà decollare il riutilizzo e il riciclo delle batterie perché sia considerata economicamente sostenibile. Insomma, ci sono troppe incognite, dall’andamento demografico al miglioramento delle condizioni di vita in tutto il pianeta, e probabilmente, dice sempre lo studio, la domanda eccedente inizierà ad agire direttamente sul prezzo solo a partire dal 2030 mentre gli investimenti, dalla scoperta del giacimento alla produzione, passando per i carotaggi e le infrastrutture necessarie all’impianto, hanno un tempo di realizzazione di uno-due decenni. Insomma, la ricerca del lito al momento appare più che altro una mossa preventiva, si muove su una dinamica sfalsata tra prezzi e investimenti e sul timore di un accaparramento da parte di altri.
Investire su nuove fonti di litio è una mossa riconducibile a considerazioni geopolitiche riguardanti le forniture per un’industria europea delle batterie che deve ancora spiccare il volo, mentre è ancora la Cina a detenere i tre quarti della capacità mondiale di fabbricazione delle batterie agli ioni di litio, con colossi come Catl e Byd che importano litio soprattutto dall’Australia e sfornano batterie anche per l’industria dell’automotive europea. E veniamo al punto, alla filiera.
La Commissione di Bruxelles ha avviato un progetto – con investimenti iniziali da 3 miliardi e mezzo di euro – per realizzare una completa filiera europea delle batterie entro il 2031, progetto che va di pari passo a indicazioni agli Stati membri di riavviare la ricerca dell’oro bianco, appunto, in modo da essere meno dipendenti dalle forniture estere, anche se non necessariamente cinesi, e chiudere il ciclo.
– Il collegamento tra gigafactory e litio in Italia
In Italia la realizzazione delle tre gigafactory ipotizzate inizialmente se prima procedeva molto a rilento, ora sembra essersi del tutto fermata. Uno dei tre progetti – la riqualificazione in questo senso dell’ex fabbrica Olivetti di Scarmagno, vicino Ivrea – è abortito quasi subito, il secondo sembra rimasto rattrappito in fase di incubazione a marchio Faam in provincia di Caserta. Poi c’è quello più importante, lanciato da Acc (Automotive Cells Company, un apposito consorzio tra Stellantis, ancora unico produttore di auto in Italia, più Mercedes e TotalEnergie) a Termoli, in Molise. Qui i più ottimisti stimavano potessero essere prodotte, a pieno regime, batterie per 800 mila auto o veicoli elettrici all’anno, cioè il doppio dell’attuale totale produzione di auto, elettriche e non, di Stellantis nel nostro paese. Ma è tutto fermo, in stand by, in attesa di capire i reali piani industriali di Stellantis. Nel frattempo a giugno il ministro Adolfo Urso ha dirottato altrove i 370 milioni di fondi del Pnrr che erano stati destinati alla realizzazione dell’impianto quale contributo pubblico, forse come forma di pressione su Stellantis. Ma anche sul futuro della gigafactory di Termoli l’ad portoghese Carlos Tavares, nella sua recente audizione parlamentare, non ha dato alcuna assicurazione reale (7).
E allora il litio? Certo, se non nasce la gigafactory, interessano di meno i giacimenti italiani, che invece erano stati mappati dall’Ispra. A parte lo storico sito in disuso di Capo Bianco sull’isola d’Elba, inutilizzabile perché in area naturalisticamente protetta e a forte vocazione turistica, in altri siti si ipotizza – o forse sarebbe meglio dire si ipotizzava – una ripresa di esplorazioni ed escavazioni, come ci conferma il geologo Andrea Dini. La vera ricchezza geologica, se così di può dire, è stata individuata nel litio “lisciviato”, che si accumula cioè nei fluidi geotermici, in tutta la zona vulcanica che va dal lago di Bolsena ai Campi Flegrei e in particolare nella Tuscia viterbese. Quest’estate la Regione Lazio ha autorizzato la società australiana Vulcan Energy Resources Limited, molto attiva nella Valle del Reno in Germania con un impianto per l’ottimizzazione dell’idrossido di litio per batterie, a effettuare sue indagini sulle brine geotermiche a Campagnano, alle porte di Roma.
Si tratta di acque che raggiungono i duecento gradi centigradi e che si trovano a migliaia di metri di profondità – spiega Dini – con concentrazioni di litio interessanti per attività di estrazione redditizie e soprattutto, si sottolinea, a bassissimo impatto ambientale e molto sostenibili anche dal punto di vista paesaggistico. Si tratterebbe di applicare la grande esperienza del campo geotermico di Larderello; soltanto che in questo caso, oltre all’acqua ad alta temperatura da utilizzare per teleriscaldamento e per alimentare impianti elettrici come viene fatto in Toscana, dai pozzi potrebbe essere estratto il litio. Il processo di estrazione sarebbe in questo caso senza gli impattanti bacini di decantazione, ma utilizzerebbe resine a scambio ionico e membrane osmotiche. Inoltre i fluidi, purificati chimicamente dal litio, dovrebbero poi essere ri-immessi nei pozzi. Mentre altri elementi minerali che si liberano come il quarzo e i feldspati potrebbero andare ad alimentare l’industria della ceramica. “Perché il litio – ama dire il nostro esperto – è come il maiale, non si butta niente”. (8)
Naturalmente perché tutto ciò si realizzi, serviranno le necessarie compensazioni e il necessario coinvolgimento delle comunità locali, oltre che delle amministrazioni locali e consultazioni anche in forma partecipativa. “Il primo diritto della popolazione coinvolta è quella dell’informazione, è la trasparenza del progetto”, sottolinea Dini.
– Il litio nefasto, Portogallo e Serbia
Nel nord del Portogallo, a Covas de Barroso, c’è un’esperienza che può servire da paradigma negativo nel rapporto tra progetto estrattivo e comunità rurali. Lì nel 2016 è stato scoperto uno dei due più grandi giacimenti di pegmatite nel continente europeo. La società interessata al suo sfruttamento è la britannica Savannah Resources, che vorrebbe estrarne litio in grado di alimentare 500 mila batterie per auto elettriche l’anno. Ma il progetto è fortemente contestato dalla popolazione portoghese, che non dimentica i lasciti del passato di attività minerarie di capitali britannici che, una volta esauriti gli impianti negli anni ’80 e ‘90, hanno lasciato devastazioni, ridotto le terre comuni (baldios) utilizzate per la pastorizia e incrementato lo spopolamento una volta abbandonate le miniere. Così gli oppositori, riuniti nel comitato Unidos em Defensa de Covas de Barroso, appoggiato dal Bloqueo de Esquerda (ambientalisti e comunisti) contestano ai britannici un nuovo estrattivismo neocoloniale e non si fidano delle assicurazioni sulla realizzazione di un sistema idrico chiuso con trattamento delle acque reflue e dei sedimenti e sul limitato utilizzo delle acque sotterranee. Soltanto pochi abitanti hanno accettato finora di vendere i terreni e le altre compensazioni offerte dall’azienda.
– La quasi kryptonite serba
Ancora peggiore è l’impatto sociale e politico nel più grande giacimento europeo, scoperto nel 2007, a Jadar in Serbia. Qui il litio si presenta in una roccia chiamata jadarite, formata anche da altri diversi minerali contenenti boro, sodio e silice. Il megagiacimento è valutato in un milione di tonnellate di litio estraibile. La società interessata è la Rio Tinto, con capitali inglesi e australiani, e l’impatto della miniera in questo caso dovrebbe essere considerevole anche a causa della fragilità del terreno e della necessità di grandi infrastrutture d’accesso all’area dell’escavazione. Il sito di Jadar, insieme a quello portoghese e agli altri più piccoli in Europa potrebbe soddisfare il fabbisogno di litio dell’industria europea nella filiera della transizione almeno in una prima fase, secondo le stime dei tecnici della Commissione, ma per il momento presenta grosse complicazioni geopolitiche. La Rio Tinto ha avuto la concessione dalle autorità serbe poco prima della Brexit e nel frattempo il progetto di escavazione, non più legato all’Unione europea, ha scatenato una ostilità politica che va al di là del progetto stesso, accuse di corruzione e di ecocidio; e ha portato a manifestazioni di decine di migliaia di persone nel 2022 e ancora quest’estate. Il presidente serbo Aleksandar Vučić, inizialmente contrario alla miniera, una volta rieletto ha confermato il progetto Rio Tinto e ora è corteggiato contemporaneamente sia dalla Commissione europea, e dalla Germania in particolare, sia dalla Cina. La visita, lo scorso maggio, del presidente cinese Xi Jinping in Serbia, terza tappa del suo breve tour europeo, può essere letto anche in questa chiave.
CONCLUSIONI
È vero che qualsiasi attività umana ha un impatto sull’ecosistema. È altrettanto vero che l’estrattivismo finora ha generato immani disastri ambientali. Lo sfruttamento del deserto salato di Salar de Uyuni, che conserva la metà delle riserve di litio affioranti del pianeta, in Bolivia, distruggerebbe il luogo sacro e fondante degli indios di lingua Aymara e avrebbe un impatto devastante su un’area ricca di biodiversità (9). Le stesse saline di Atacama sono talmente sovrasfruttate per l’estrazione di litio che le società minerarie hanno dovuto bloccare il pompaggio di acqua e cercare sistemi meno invasivi.
Il litio – almeno fin quando non sarà sostituito da elementi meno problematici come il sodio – è una risorsa strategica per il futuro. A ben vedere è dunque legato a come immaginiamo questo futuro. Ad esempio è un materiale essenziale sia per la transizione energetica, per l’elettrificazione, e quindi per la lotta al cambiamento climatico, ma è fondamentale anche per l’industria aerospaziale e della difesa. Per cosa vogliamo estrarlo dalle viscere della terra? Quanto ne servirebbe senza armi e cacciabombardieri?
È un materiale che serve anche per strumenti di uso comune, dagli smartphone ai computer. Per gli accumuli dei pannelli solari. Dovremmo forse continuare a importarlo da luoghi come Salar de Uyuni e Atacama, dove è estratto, lontano dai nostri occhi, senza gli standard ambientali e di partecipazione democratica che abbiamo conquistato in Europa?
La speranza è che la tecnologia si evolva in senso sempre più sostenibile e che si possa arrivare a una reale differenziazione delle tecnologie energetiche rinnovabili, un bouquet energetico, tale per cui si riduca l’impatto di una richiesta energetica presumibilmente destinata a impennarsi nei prossimi decenni.
* Si ringrazia per la consulenza scientifica Franco Padella, chimico dei materiali
NOTE:
(1) Le Formiche: https://formiche.net/2024/10/terre-rare-e-libero-scambio-il-doppio-filone-della-visita-di-tajani-in-argentina/ Simest è una società per tre quarti pubblica CDP e un terzo delle banche maggiori. Appoggia gli investimenti italiani all’estero
(3) Monta batterie agli ioni di litio circa la metà dei veicoli elettrici del mondo. Cfr “Litio, Caratteristiche, applicazioni, geopolitica” di Michel Jebrak e Christian Hocquard, ed. Tarka 2023
(4) Testo citato
(5) https://sbilanciamoci.info/terre-rare-loro-del-futuro-in-mano-a-cina-e-giappone/
(6) “Assessment of lithium criticality in the global energy transition and addressing policy gaps in transportation” di Peter Greim, A.A.Solomon, Christian Breyer
(8) Nel Lazio, a Ceccano in provincia di Frosinone, questo settembre è stato anche inaugurato un impianto pilota per il recupero di terre rare, altro materiale critico, dalle batterie e dai magneti permanenti (cfr https://www.ilsole24ore.com/art/terre-rare-lazio-impianto-pilota-il-recupero-magneti-permanenti .
(9) cfr Amitav Gosh “La Maledizione della noce moscata”, Neri Pozza 2022