A colloquio con Ismail Dawood, pacifista iracheno, a vent’anni dalla Seconda guerra del Golfo scatenata dagli Usa con il pretesto delle armi di distruzione di massa (mai trovate). Per parlare della Baghdad di allora e di adesso.
Incontriamo Ismail Dawood, attivista iracheno, nella sua casa di Pisa, città che lo ospita insieme alla sua famiglia dal 2009. Da cooperante di Un Ponte Per è in procinto di partire per Baghdad, la città in cui è nato e cresciuto, per seguire alcuni progetti di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale iracheno fortemente danneggiati da decenni di guerre e che rappresentano una grande possibilità di riscatto per il nuovo Iraq. Il nostro dialogo avviene in prossimità del 20 marzo, ventesimo anniversario della Seconda guerra del Golfo scatenata dagli Usa con il pretesto delle armi di distruzione di massa -mai trovate- che rapporti prefabbricati davano in possesso al regime di Saddam Hussein
Ismaeel, dove ti trovavi il 20 marzo del 2003? Che ricordo personale hai di quel giorno?
Mi trovavo a Baghdad e a casa nostra ci stavamo preparando alla guerra. Avevamo messo lo scotch su tutti i vetri, chiuso le finestre e sigillato alcune porte. C’era una forte apprensione perché sapevamo che questa volta i bombardamenti avrebbero colpito la città. Dal 1991 l’Iraq oltre che ad un embargo pesantissimo era sottoposto ad una limitazione della propria sovranità nazionale con la “no fly zone”: nessun aereo poteva entrare o uscire dall’Iraq. Sistematicamente si assisteva a bombardamenti statunitensi su basi militari o infrastrutture ma questa volta era diverso. Sapevamo che avrebbero colpito le città.
A proposito del periodo dell’embargo, vuoi ricordare le condizioni in cui era costretto a vivere il popolo iracheno?
Il periodo dell’embargo per noi non è stato un periodo di pace ma un periodo di sospensione di alcuni diritti fondamentali. Quello alla salute in primo luogo: gli ospedali non avevano i pezzi di ricambio per i macchinari, mancavano medicinali salvavita, si moriva per malattie curabili per assenza di medicine. Anche il cibo scarseggiava, mentre l’acqua, mancando i pezzi di ricambio per potabilizzatori ed acquedotti, spesso era contaminata. C’era una chiusura totale verso l’esterno della società irachena. Ricordo che non sapevamo cosa succedeva nel mondo. Alla dittatura si sommava questo isolamento. Alcuni alimenti come le banane, non potendole importare, erano spariti dal mercato. Facevamo gran uso di datteri e the.
In Italia e in tutto il resto del mondo ci furono in quel periodo grandi manifestazioni per impedire la guerra all’Iraq. Quella del 15 febbraio del 2003 fu la più grande in assoluto della storia dell’umanità, che attraversò l’intero pianeta seguendo il fuso orario del sole. Che eco arrivava dii quelle mobilitazioni?
Sotto il regime l’informazione era tutta controllata. Arrivavano poche notizie e su quelle che arrivavano avevamo seri dubbi sulla loro autenticità. Delle mobilitazioni per la pace sono venuto a conoscenza tramite alcuni attivisti del Partito Comunista Iracheno che ci parlavano di questa mobilitazione della società civile internazionale. Ovviamente, vista la determinazione di Bush, c’erano poche possibilità d’impedire la guerra però quelle notizie delle mobilitazioni per la pace erano per noi una speranza. Una luce che vedevamo in fondo al tunnel. Non sapevamo se questa luce era vera o falsa, ma per noi sapere che c’erano persone nel mondo che sentivano come propria la nostra sofferenza era importante.
La guerra, nonostante oceaniche manifestazioni, scoppia lo stesso. Inizia l’invasione delle truppe occidentali dell’Iraq. Baghdad è occupata. Il 9 aprile 2003 un gruppo di soldati americani, con alcuni cittadini iracheni, butta giù la statua del dittatore Saddam Hussein in piazza Firdos. Le immagini fanno il giro del mondo. Tu eri ancora a Baghdad?
Si ero sempre in città. Una volta caduto il regime e con gli americani in casa cercavamo di capire cosa potevamo fare, soprattutto noi giovani che ci consideravamo vicini alla sinistra irachena. Facemmo una riunione per capire il da-farsi e abbiamo dato forma alla prima iniziativa della società civile per i diritti umani. La nostra posizione era: “va bene la caduta del regime, ma l’occupazione non significa liberazione”. I diritti umani erano lo stesso calpestati e ci siamo messi a raccogliere informazioni e scrivere dei rapporti su questo. I civili pagavano un prezzo altissimo all’occupazione. In ogni quartiere di Baghdad i militari americani aprivano il fuoco, uccidevano persone, c’erano arresti arbitrati e rastrellamenti casa per casa, molte delle quali venivano distrutte. Fondammo Occupation Watch che si occupava della violazione dei diritti umani sotto l’occupazione Usa, ma non rinunciavamo a raccoglierle anche su quelle perpetrate sotto il regime di Saddam. Eravamo un gruppo di giovani di sinistra, formatosi grazie all’attività e alla stampa clandestina durante gli anni della dittatura.
Un Ponte Per, allora Un Ponte Per Baghdad, già operava in Iraq. Avevate preso rapporti con loro?
Sì, certamente, Occupation Watch nasce anche per iniziativa di Paola Gasparoli di UPP, che venne a stare a Baghdad, contribuendo a documentare la violenza dell’aggressione. È tramite questo contatto che entriamo in relazione con il World Social Forum, che mi permette di partecipare nel 2004 al Social Forum in India e nel 2005 a quello di Porto Alegre in Brasile. Questa esperienza nel World Social Forum è stata fondamentale perché allora mi fu tutto chiaro: queste erano le persone che si mobilitavano per noi, per impedire la guerra in Iraq. Erano i nostri simili. Questo rapporto con il movimento mondiale contro la guerra è stato decisivo. Abbiamo fatto Tribunali della società civile internazionali contro i crimini dell’occupazione. Abbiamo studiato e compreso il metodo e l’iniziativa non violenta, il battersi per la costruzione per la pace. Abbiamo iniziato ad adottare questo metodo di organizzazione che ci ha consentito poi di formare l’Iraq Social Forum. Noi in Iraq abbiamo rappresentato la terza via tra la dittatura di Saddam e l’occupazione. Siamo stati quelli che cercavano i diritti e la pace.
E il tuo rapporto con il movimento italiano quando nasce?
Un Ponte Per mi chiese di venire in Italia per spiegare questa terza via, il punto di vista della società civile. È il 2004 faccio molti incontri pubblici a Roma e Milano, oltre che tantissime conferenze stampa e interviste radio e sui giornali. Continuo la mia collaborazione anche quando decidiamo di fare un rapporto sulla situazione di Falluja, dove gli occupanti si macchiarono di un crimine enorme.
Falluja e il fosforo bianco. Forse una dei momenti più terribili ed atroci dell’occupazione statunitense.
Sì, esattamente. I soldati americani erano entrati in città senza ostilità e combattimenti, ma invece di aprire una interlocuzione con la popolazione iniziano a installare una base militare e mandare squadre di militari per controllare casa per casa. Questo era offensivo per la popolazione e alcuni si rifiutarono di aprire. Iniziano per questo delle manifestazioni contro la base militare, ma i soldati aprono il fuoco su di esse. Questo ha spinto diversi abitanti a supportare la resistenza armata. La rabbia è cresciuta fino a quando gli Usa hanno deciso di chiudere la città, uccidendo un numero enorme di civili e utilizzando bombe al fosforo bianco (che bruciano i corpi senza poter essere spenti Ndr). I civili erano in una enorme trappola, mentre questa politica scriteriata rafforzava la resistenza armata. È in quell’epoca che emerge anche una figura come Muqtada Al-Sadr, religioso sciita, che manda messaggi di solidarietà alla popolazione di Falluja.
Falluja era considerata una dei lati del cosiddetto triangolo sunnita dove è stata più forte l’opposizione armata all’occupazione
Guarda, noi non capivamo neanche cosa fosse questo “triangolo sunnita”. Era una frase utilizzata dai mass media occidentali e da chi, come il Governatore Lewis Paul Bremer, pensava di dominare l’Iraq dividendola per confessioni religiose. Ricordo che nel mio viaggio in Italia tutti mi domandavo se ero sunnita, sciita o curdo e io rispondevo semplicemente che ero iracheno.
Un altro episodio che fece scalpore dell’occupazione furono le torture nel carcere di Abu Ghraib
Il nostro blog fu tra i primi a denunciare l’uso sistematico della tortura in quel carcere. Pubblicammo un rapporto molto dettagliato che venne ripreso dalla stampa internazionale a cominciare da Al Jazeera.
Durante l’occupazione, nel 2004, Un Ponte Per subì il rapimento di due cooperanti Simona Pari e Simona Torretta. Come avete vissuto quei giorni?
Lo ricordo benissimo. Dopo quell’episodio Un Ponte Per è stata costretta a lasciare Baghdad e a trasferire la propria attività prima ad Amman e poi ad Erbil. Ricordo bene quei giorni del rapimento. Facemmo come società civile una conferenza stampa nella sede di Un Ponte Per spiegando che cos’era questa organizzazione, che era contro la guerra, che stava dalla parte del popolo iracheno. Abbiamo manifestato per chiedere la liberazione delle due Simone. Era un periodo terribile, quello. C’era stato nell’agosto del 2003 l’attentato alla sede delle Nazioni Unite con l’uccisione di Sérgio Vieira de Mello, una persona che ascoltava la società civile ed era molto scomoda per gli occupanti. C’erano stati altri attentati, come quello alla Croce Rossa Internazionale. Si volevano punire tutti gli attori internazionali. Buona parte di questi, Onu compresa, si spostarono nella Green zone, una zona vigilata dagli americani separata dal resto della città e dagli iracheni. Un Ponte Per era rimasto invece al fianco degli iracheni. Ci siamo battuti per la vita e le libertà delle due Simone, dicendo chiaramente che erano amiche del popolo iracheno e che dovevano essere rilasciate.
Intanto Saddam Hussein era stato catturato dagli occupanti. Come avete vissuto voi attivisti sociali e dei diritti umani il processo e la sua condanna?
È stato uno dei momenti in cui ci è stato tolto il diritto di conoscere tutta la verità. Hanno fatto un processo molto sommario e parziale. Hanno parlato solo dei crimini contro i leader dei partiti islamisti sciiti, mentre hanno messo così a tacere su tutti gli altri crimini. Quali erano le responsabilità di Saddam contro i militanti di sinistra o contro i curdi? Chi altri era coinvolto? Quale ruolo ha avuto nel sostegno al regime la comunità internazionale e nel fatto che Saddam utilizzò le armi chimiche? Da dove venivano? In più hanno rischiato di trasformare Saddam in un simbolo, in una vittima, oltre ad aver ha impedito la ricerca della verità. D’altronde gli Usa facevano tutto male e in fretta. Come quando hanno sciolto l’esercito nazionale iracheno o lo stesso corpo di polizia. Ci hanno imposto una loro Costituzione basata sulla divisione settaria. Scrivemmo anche alle Nazioni Unite per dire che non potevamo accettarla.
Alla prima resistenza baathista (i seguaci del partito Baath di Saddam) si sostituisce presto una resistenza legata allo jihadismo.
In Iraq questo esito è stato in qualche modo voluto dall’occupazione. Hanno creato un vuoto dentro l’Iraq e aperto le frontiere. Noi iracheni non eravamo abituati a fare i conti con estremisti e fondamentalisti, ma la totale assenza delle istituzioni ha rappresentato per loro un vero e proprio pozzo dal quale attingere. Inizia la seconda generazione di Al Qaeda (la prima è quella dell’Afghanistan) e poi dalle sue ceneri ci sarà la terza generazione, quella di Daesh. Gli islamisti hanno capito le sofferenze e le frustrazioni degli iracheni e le hanno strumentalizzate. Hanno di fatto spiantato la prima resistenza quella del Ba’ath party e dei nazionalisti. Reclutavano facilmente dai militari delle vecchie forze armate lasciati al loro destino. Sono diventati per questo più pericolosi perché potevano adesso contare sull’esperienza di generali, ufficiali, gente abituata ad agire nel mondo militare. Prima Al-Qaeda diventa un attore importante e poi Daesh diventa una forza armata in grado di occupare un terzo dell’Iraq e una parte importante della Siria.
L’Iraq di oggi è sicuramente figlio di quelle scelte. Da un punto di vista geopolitico sembra un condominio tra Usa e Iran, con la Turchia che un giorno prima e un giorno dopo interviene militarmente nel Kurdistan iracheno. Ad uscire fuori da questi schemi c’è stata la rivolta del 2019 contro la divisione settaria, la corruzione, l’ingiustizia sociale.
Durante la guerra contro Daesh effettivamente c’è stato una sorta di accordo tra Stati Uniti e Iran per rifornire di armi alcuni gruppi di milizie. Ognuno armava la sua parte e lottavano quasi insieme. Il generale iraniano Qasem Soleimani (ucciso in un attentato dagli Usa il 3 gennaio 2020 Ndr) entrava e usciva dall’Iraq durante la guerra contro Daesh, con una certa connivenza da parte dell’esercito degli Stati Uniti o della coalizione. Il conflitto tra Iran e Usa non riguarda l’Iraq, ma l’Iraq è “la tavola da gioco” su cui questo conflitto viene praticato. Noi non c’entriamo niente nelle questioni dell’accordo nucleare o nei progetti di estrazione del gas iraniano. Si tratta della sicurezza d’Israele… E questa situazione strana continua ancora oggi con il governo di Mohammed Shia al-Sudani, molto vicino all’Iran ma che non dispiace agli Usa. La rivolta del 2019 rompe questo schema: gli slogan dei ragazzi e delle ragazze che tengono per mesi la piazza sono rivolti sia contro l’Iran che contro gli Stati Uniti. Dicono: “voi avete distrutto questo paese, noi non vi vogliamo, Usa e Iran, tutti fuori”. La rivolta nasce da un processo dal basso ed includente. Gli strumenti che abbiamo fornito alla società civile irachena in questi anni sono stati determinanti per avere una mobilizzazione così grande basata sull’autogestione delle piazze. Le iniziative del Social Forum Iracheno o quelle della Maratona per la pace a Baghdad, hanno puntato al coinvolgimento di giovani al di là delle loro etnia e religione. La partecipazione di donne e ragazze è stato un altro motore decisivo. Parte di qui il rifiuto dell’attuale Costituzione irachena, così come la richiesta di scioglimento delle milizie settarie. Un movimento che rifiuta le scelte economiche che hanno portato alla distruzione del sistema sanitario e dell’economia. È questo movimento che porta per la prima volta nel contesto politico le questioni ambientali o il diritto all’acqua. La Turchia sta andando avanti nella costruzione di dighe e nessun governo o milizia ha fatto niente per proteggere l’interesse iracheno sul Tigri. L’Iran ha fatto le stesse cose su alcuni fiumi che danno molto acqua al Tigri.
Dunque un nuovo Iraq si prospetta all’orizzonte. Possiamo chiudere con questa nota di speranza?
Abbiamo lavorato tanto per aprire questa prospettiva. Si tratta di una lotta a lungo termine. La situazione geopolitica è complessa e noi iracheni siamo ancora molto vulnerabili. Il 75% della popolazione irachena ha sotto i 25 anni, non vuole più guerre, clientelismo, distruzioni. Si c’è speranza e sta crescendo nella società civile.
*Alfio Nicotra è co-presidente nazionale di Un Ponte Per