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L’innovazione in Italia, molte ombre e poche luci

Sebbene la ricerca e sviluppo sia il miglior modo per sciogliere i vincoli che costringono la crescita, negli ultimi anni gli investimenti in ricerca e innovazione in Italia sono crollati. Il Rapporto RIO della Commissione Europea

La Commissione Europea, attraverso il JRC Science for policy Report[1], ha presentato un rapporto che indaga lo stato della ricerca e dell’innovazione per Paese (RIO- Rapporto Paese 2016: Italia, – L. Nascia, M. Pianta e L. Isella -).

La cornice economica, sociale e di struttura del Paese che emerge dal rapporto è quella tipica di un sistema industriale ed economico che ha rinunciato a misurarsi con le sfide che le imprese e la pubblica amministrazione dovrebbero aver già affrontato da tempo. Infatti, con il passare degli anni non solo la “conoscenza” è il tratto caratteristico della crescita economica, ma è diventata anche l’unica via per creare lavoro buono e affrontare le sfide di struttura che il sistema economico nel suo insieme deve affrontare. Tra queste sfide tecnologiche emerge, con prepotenza, quella relativa alla green economy che necessità di una programmazione finanziaria e tecnologica che ha pochi precedenti storici[2].

È proprio nei momenti di sofferenza economica che un Paese dovrebbe investire nel futuro. Se poi consideriamo che l’attuale crisi nazionale è più lunga e profonda di quella degli anni trenta, l’assenza di una strategia industriale, di ricerca e sviluppo, unitamente alla continua contrazione delle risorse finanziarie destinare all’innovazione, diventano un vincolo che potrebbe posizionare il Paese ai margini dello sviluppo e della divisione internazionale del lavoro.

Il Report illustra con molti dati lo stato dell’innovazione italiana e le strategie adottate. Sebbene la ricerca e sviluppo (R&S) sia il miglior modo per sciogliere i vincoli che costringono la crescita (il Report ricorda che il PIL italiano non è ancora tornato ai livelli pre-crisi), durante questi ultimi anni si registra una caduta degli investimenti privati e delle risorse finanziarie destinate alla ricerca e all’innovazione, soprattutto se la confrontiamo con la media europea (p. 5). Inoltre, si osserva anche che il sistema italiano di Ricerca e Innovazione è caratterizzato da una serie di fattori che influiscono sulla programmazione della stessa. In particolare, si constata la frammentazione delle strategie (regionali e nazionali), unitamente all’instabilità e all’incertezza degli stanziamenti di bilancio (p.5). Si avverte, sostanzialmente, una manifesta incapacità strutturale del sistema industriale nel sostenere la ricerca e sviluppo. Sebbene la particolare struttura molecolare delle imprese nazionali abbia permesso negli anni passati un certo benessere, le attuali caratteristiche dello sviluppo (knowledge intensive) necessitano di competenze e sapere che le microimprese nazionali non possiedono e, aspetto ben più grave, non possono sviluppare e/o acquistare. Il Report è molto puntuale sul punto: “le piccole imprese non sono in grado di investire in maniera significativa nelle attività di R&S, come illustrato dall’ultimo quadro di valutazione (“scoreboard”) degli investimenti nella ricerca industriale 2015, da cui emerge che oltre il 60% della BERD delle imprese italiane elencate in tale pubblicazione è riconducibile a quattro sole società: Finmeccanica (settore aerospazio e difesa), Telecom Italia (telecomunicazioni), Unicredit e Intesa Sanpaolo (settore finanziario)” (p. 14). Se la ricerca e sviluppo è concentrata in 4 società (il 60% della R&S privata), che tra le altre cose non sono nemmeno società così performanti se comparate alla media delle corrispondenti società europee, i problemi di struttura del Paese emergono in tutta la loro gravità. Il punto politico non è se e come sostenere finanziariamente la spesa in ricerca e sviluppo delle imprese[3], piuttosto è quello di modificare la struttura produttiva in essere che, autonomamente, non può spostarsi da una produzione a basso valore aggiunto verso una attività a maggiore contenuto tecnologico. Come ricorda il Report: “La struttura economica italiana si differenzia da quella di altre importanti economie dell’UE per la minore presenza di industrie e servizi ad alto contenuto tecnologico (…) Nello stesso anno (2015) i servizi ad alta intensità di conoscenza rappresentavano il 33,8%, mentre il valore aggiunto totale nel settore manifatturiero ad alta e media tecnologia rappresentava solo il 6,3%. La concentrazione dell’imprenditoria italiana nelle attività tipiche del “Made in Italy” è generalmente associata ad attività a bassa e media tecnologia” (p. 9). Nonostante questa indiscutibile tendenza, la manifattura nazionale, almeno quella che ancora investe in ricerca e sviluppo, destina risorse finanziarie in R&S pari al doppio di quelle stanziate dal settore dei servizi. Quest’ultimi, inoltre, hanno ridimensionato la spesa in R&S in misura preoccupante.

Il posizionamento tecnologico delle imprese condiziona anche l’offerta di lavoro fin dalle sue fondamenta. Infatti, la percentuale dei 30-34enni con un’istruzione terziaria era del 24,9%, un dato che pone l’Italia in fondo alla graduatoria europea, ben al di sotto della media dell’UE-28 pari al 38,5%” (p. 9). Sebbene il presente sia poco stimolante per conseguire dei livelli di istruzione più alti, ancor più preoccupante è il calo delle immatricolazioni tra il 2001-2 e il 2014-5. In qualche misura si intravvede la sfiducia dei giovani che, in ragione di una domanda di lavoro qualitativamente troppo bassa rispetto ai livelli potenziali di sapere legati al percorso universitario, rinunciano ancor prima di cominciare (completare) al percorso formativo. Tra il 2001 e il 2015 le immatricolazioni diminuiscono del 24,5%. Infatti, “il numero di immatricolati che, secondo le statistiche del MIUR, era a quota 319.264 nel 2001-2002, ha raggiunto il picco di 338.036 nel 2003-2004 ed è in seguito diminuito ogni anno fino a toccare un minimo di 252.457 nel 2013-2014, per poi registrare un modesto incremento, fino a 255.293 nel 2014-2015, concentrato nelle regioni del Nord” (p. 9)[4].

Il Report consegna comunque alcune buone notizie. La prima è legata alla novità programmatica del 2016 è il Programma nazionale per la ricerca (PNR) per il quinquennio 2015-2020, che prevede un nuovo quadro strategico per la politica nazionale in materia di R&I; la seconda è legata alla Strategia nazionale di specializzazione intelligente 2015-2020 sulla base dell’analisi territoriale di Invitalia (2014) che ha definito cinque aree tematiche: 1) Aerospazio e difesa; 2) Salute, alimentazione, qualità della vita; 3) Industria intelligente e sostenibile, energia e ambiente; 4) Turismo, patrimonio culturale e industria della creatività; 5) Agenda digitale, smart communities, infrastrutture e sistemi di mobilità intelligente. Si tratta di una cornice più o meno utile qualora la politica volesse condizionare la struttura produttiva. L’Italia non è competitiva in tutte le 5 aree economiche indicate[5], ma concentrare gli sforzi economici, finanziari e industriali dove possiamo ancora partecipare con cognizione di causa alla catena del valore europeo, magari industrializzando la ricerca pubblica, potrebbe diventare una buona politica.

 

 

[1] La missione del Centro Comune di Ricerca JRC, che costituisce il servizio scientifico interno della Commissione Europea, è fornire un supporto scientifico e tecnico indipendente basato su dati ufficiali, alle politiche dell’UE durante l’intero processo della loro definizione.

[2] R. Romano, 15 giugno 2017, Svolta energetica e crescita 1,5 gradi, ed. Dipartimento degli Studi di Genova, Dipartimento di Architettura e Design.

[3] Il Report descrive puntualmente le iniziative governative sul tema. Si tratta, sostanzialmente, di incentivi fiscali e crediti di imposta per tutte le iniziative innovative adottate dalle imprese. La valutazione di questi strumenti fiscali è sempre difficile, non solo perché non sappiamo se finanziano investimenti che le imprese diversamente non avrebbero fatto, ma soprattutto perché non cambiano la matrice dello sviluppo. La spesa in ricerca e sviluppo è, in fondo, direttamente proporzionale alla specializzazione produttiva.

[4] Innovation Scoreboard (IUS), edizione 2016.

[5] Conoscendo abbastanza bene i fondi strutturali europei. Osservo solo che tutte le regioni italiane hanno riprodotto il modello di cui sopra, sollevando almeno una questione di metodo e di merito: tutte le regioni italiane hanno lo stesso target produttivo e la stessa specializzazione?