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L’ex Ilva serve, la cura c’è: vento e idrogeno verde

La vera opportunità per Taranto e la Puglia risiede in una strategia integrata che leghi lo sviluppo delle rinnovabili alla produzione di idrogeno verde per la siderurgia. Soluzioni tampone basate sul gas sono miopi e fallaci. Un piano industriale pubblico per evitare una grave perdita per l’intera industria italiana.

Il percorso verso una siderurgia sostenibile e il dibattito sul futuro dell’ex ILVA di Taranto, con il suo drammatico intreccio di posti di lavoro a rischio e impatto ambientale, continuano a riproporsi ciclicamente, rivelando, a livello governativo, il perpetuare dell’assenza di una visione prospettica, unica in grado di fornire una soluzione che non ripeta il passato di inquinamento e progressivo smantellamento dell’impianto. Contro questo destino disegnato lo scorso 16 ottobre si è svolto con successo lo sciopero generale dell’intera ex ILVA e del tema della riconversione ambientalmente sostenibile di Taranto si è occupato il 17 ottobre un convegno di Legambiente, all’interno del quale è stato presentato uno studio dell’Università di Bari verso tale direzione. Taranto rappresenta molto più dell’emergenza nazionale, che pure è: è il simbolo della centralità della siderurgia per un Paese industrializzato, e della necessità di mantenere una capacità produttiva in un momento di profonda trasformazione degli assetti politici e tecnologici del mondo. Troppo spesso, nel fiume di parole che da anni circonda l’ex ILVA, si perde di vista la centralità dell’acciaio nella società attuale e futura, materiale centrale in qualunque settore dell’industria manifatturiera che non è possibile relegare ad un più o meno glorioso passato. La questione, del tutto irrisolta nel caso di Taranto, non è se sia necessario produrre acciaio, ma come farlo in modo sostenibile per l’ambiente e per il territorio. 

L’acciaio è una lega metallica composta principalmente di ferro e carbonio, quest’ultimo in quantità inferiori all’1,7%. Simbolo stesso dell’industrializzazione, ancora oggi l’acciaio rappresenta oltre il 90% dell’intera produzione di metalli raffinati nel mondo. Viene prodotto rimuovendo chimicamente l’ossigeno dai minerali di ferro, il processo tradizionale avviene ad alta temperatura, con formazione di anidride carbonica. Nel 2024 la produzione di acciaio grezzo mondiale è stata di 1,88 miliardi di tonnellate, con 3,7 miliardi di tonnellate di CO2 emessa, tra il 7 e l’11 % delle emissioni globali. Circa 200 milioni di tonnellate di emissioni provengono dall’Europa. Queste sono le cifre globali della siderurgia. Il tutto in un quadro normativo e tecnologico in piena evoluzione all’interno del quale l’Italia, con le sue ripetute e disastrose cessioni della siderurgia ex pubblica, nei fatti appare aver rinunciato ad avere un ruolo attivo. Un ruolo che solo un intervento sistemico, non lasciato alle buone volontà dei passati come di futuri acquirenti industriali, può garantire. 

Prendendo spunto dallo sciopero del gruppo ex ILVA del 6 ottobre scorso e dal convegno di presentazione del report sulla riconversione di Legambiente, questo testo si propone di fare chiarezza su cosa è la produzione di acciaio, affrontando il tema della riconversione sostenibile della siderurgia attraverso qualche spiegazione delle tecnologie e dei processi che possono guidare la transizione. L’obiettivo è fornire gli strumenti per comprendere di cosa si parla, oltre il rumore di fondo che da troppo tempo caratterizza la questione dell’ex ILVA.

Le condizioni al contorno: l’Emission Trading System e il Carbon Border Adjustement Mechanism

La Comunità Europea regola le sue emissioni di anidride carbonica (dette anche emissioni di carbonio) attraverso un meccanismo di commercio detto Emissions Trade System (ETS ). Questo è un sistema “cap-and-trade” (tetto e scambio) nel quale la Comunità fissa un limite massimo alle emissioni totali consentite per impianti ad alta intensità energetica (tra i quali la siderurgia). Il tetto stabilito si riduce nel tempo. Nello scambio vengono allocate o vengono messe all’asta delle “quote di emissione”, le quali, nel caso di non utilizzo, possono esser vendute alle aziende che emettono più delle quote loro precedentemente assegnate. Si crea in questo modo un mercato delle emissioni, nel quale la CO2 emessa assume una quotazione economica portando, conseguentemente, ad un aumento dei costi di produzione. E’ previsto che il meccanismo assuma forme via via più stringenti nel tempo con la graduale riduzione delle quote di emissione gratuite, secondo un percorso di eliminazione (phase-out) ben preciso, stabilito nel pacchetto “Fit for 55“.

A partire dall’inizio nel 2026 è prevista una riduzione lineare delle quote gratuite, per finire con la loro eliminazione nel 2034. L’ingresso di prodotti da Paesi non soggetti al sistema ETS verrà regolato da un meccanismo di aggiustamento alla frontiera (Carbon Border Adjustment Mechanism-CBAM) con il quale saranno tassate le importazioni di merci carbon-intensive (come nel nostro caso l’acciaio). Questo per evitare lo spostamento delle produzioni verso Paesi con regole più deboli. Il CBAM imporrà un prezzo del carbonio sulle importazioni di acciaio (e altri beni) pari a quello che l’importatore avrebbe pagato se il prodotto fosse stato fabbricato sotto l’ETS europeo. Con il CBAM la siderurgia europea perde la protezione interna dovuta alle quote gratuite, guadagnando al contempo una protezione alla frontiera contro la concorrenza estera. 

Già oggi, ancora in presenza delle quote di assegnazione gratuite, il prezzo della CO2 vale circa 80-90 €/tonnellata (2023-2024) un valore che le proiezioni della Commissione UE, come quelle di analisti indipendenti, indicano già essere pari alla metà del valore in grado di rendere profittevoli gli investimenti in tecnologie verdi nelle attività siderurgiche. Raggiunto tale valore non sarà più economicamente sostenibile la produzione d’acciaio per vie tradizionali, spingendo la siderurgia verso la trasformazione green sia per obbligo normativo che per convenienza economica. La combinazione di CBAM e ETS, nella prossima assenza di quote gratuite, crea così il quadro per una siderurgia europea decarbonizzata e competitiva. Ed è in tale quadro che si stanno muovendo colossi europei quali Tyssen Krupp, o progetti di sviluppo molto avanzati come Hybrit.

La produzione tradizionale: altoforno e convertitore finale

Il percorso dell’acciaio ha inizio dal minerale di ferro, costituito principalmente ematite e magnetite. Il minerale grezzo viene successivamente frantumato, arricchito e agglomerato con sostanze fondenti per poi essere processato nell’altoforno. Quest’ultimo è un reattore chimico verticale dove a temperature che superano i 2.000°C il minerale viene trasformato in ghisa. Il processo è guidato dalla presenza di carbone che reagisce chimicamente con il minerale alle diverse temperature dell’altoforno, perdendo gradualmente ossigeno e producendo ferro e anidride carbonica. Le sostanze fondenti, fondamentalmente calcare, estraggono le impurità formando la ganga ed ulteriore emissione di CO2.

Il prodotto di questo processo è ghisa, ferro con alto contenuto di carbonio disciolto (3-4%), fragile e non utile per la maggior parte delle applicazioni. La trasformazione finale in acciaio avviene in convertitori, sorta di crogiuoli dove viene insufflato ossigeno puro, che estrae il carbonio disciolto nel fuso producendo ancora CO2. Il materiale residuo, ora acciaio, contiene a questo punto un tenore di carbonio inferiore al 2%.

Complessivamente il processo di produzione vede 2 tonnellate di CO2 emessa per ogni tonnellata di acciaio prodotto. È questo l’impatto dell’acciaio primario da altoforno, strettamente connesso alla tecnologia di produzione. È questo che rende necessario il cambiamento dell’intero assetto produttivo. Ed è questo, infine, che ha visto finora fallire ogni ingresso di imprese private all’ex ILVA di Taranto. 

L’alternativa all’altoforno: il  forno elettrico

Nelle discussioni attuali attorno alla siderurgia la parola chiave appare essere il forno elettrico ad arco (Electric Arc Furnace – EAF), definito alternativa “verde” all’altoforno. La realtà, tuttavia, è più complessa. Nelle tecnologie correnti il forno elettrico si nutre di materiali di riciclo, prodotti da un’economia circolare certamente positiva nel caso dell’acciaio, ma con limiti tecnologici nella qualità dell’acciaio finale prodotto. Il cuore del processo EAF è il rottame ferroso. A differenza dell’altoforno, che partendo da minerali deve compiere un articolato processo chimico di riduzione, il forno elettrico fonde semplicemente un materiale che è già acciaio. Il forno elettrico è strategico nell’economia del riciclo, e circa il 60% di acciaio europeo è prodotto in tal modo, con l’UE leader mondiale nel riciclo, con un tasso del rottame che supera l’80%. La media globale è ben più bassa, attestandosi intorno al 30-35% della produzione globale. Economie come la Cina e l’India, che dominano la produzione mondiale, si basano ancora pesantemente sull’altoforno per soddisfare una domanda di acciaio primario in crescita esplosiva. In sintesi, su circa 1,9 miliardi di tonnellate di acciaio prodotto globalmente ogni anno, poco meno di 1/3 proviene dalla rifusione dei rottami in un forno elettrico. Essendo il rottame un materiale “sporco” dal punto di vista metallurgico, l’acciaio riciclato ha tuttavia dei limiti nella qualità del prodotto finale. Durante i suoi cicli di vita, contaminanti diffusi quali rame, stagno, cromo, nichel ed altro si accumulano nel bagno di acciaio fuso rendendo l’acciaio fragile e non adatto ad applicazioni critiche come, ad esempio, le lamiere per automobili o le travi per grandi infrastrutture. A questo si aggiunge il fatto che la domanda di acciaio primario è in crescita, trainata dai Paesi in via di sviluppo e dalla insufficienza del rottame disponibile su scala globale.

Ecco perché il forno elettrico EAF non puo’ sostituire l’altoforno, ma deve essere integrato in un processo più complesso, in maniera tale da costituire una nuova tecnologia di produzione. È qui che interviene un “nuovo” materiale di cui da un po’ di tempo si sente la denominazione. Si tratta del DRI (Direct Reduced Iron, ferro da riduzione diretta).

Il ferro da riduzione diretta 

Il DRI, o Ferro da Riduzione Diretta, non è un semplice “nuovo” materiale di partenza da immettere nel forno elettrico, ma il prodotto di processo chimico completamente alternativo all’altoforno. Comprendere il DRI è la chiave per capire il cambio che la siderurgia richiede. 

Chimicamente, il DRI è ferro metallico prodotto dalla estrazione chimica dell’ossigeno dal minerale allo stato solido. Questo avviene in assenza di fusione del metallo, attraverso un gas in grado di reagire con l’ossigeno presente nel minerale solido. DRI ottenuto ha un aspetto spugnoso e poroso (da cui il nome “ferro spugna”) perché la rimozione dell’ossigeno dagli ossidi di partenza e in assenza di fusione lascia vuoti nella struttura microscopica del materiale. Il DRI è ferro metallico per l’85-95%, con ossido residuo (3-8%), carbonio (0.5-2%) e scorie (3-5%). Il materiale è piroforico e quindi per renderlo facilmente maneggiabile e facilitarne trasporto e stoccaggio è compresso in pani densi e non più piroforici. A differenza dell’altoforno, che “mangia tutto”, il processo DRI è più sensibile ed esigente. Fondamentali sono gli ossidi di partenza, che devono possedere purezza e proprietà fisiche superiori. La forma di partenza è costituita da pellets, sorta di palline con una buona uniformità dimensionale (10-15 mm) e composizionale, ottenute agglomerando polvere di minerale di ferro finemente macinata (concentrato) e “cotte” ad alta temperatura evitando la fusione. Questa forma garantisce una permeabilità ottimale al passaggio del gas riducente all’interno del reattore DRI. Il tenore di ferro deve essere il più alto possibile, idealmente maggiore del 67%, mentre i contaminanti minerali debbono essere in quantità minimali o nulle. Rispetto all’altoforno, i requisiti del materiale di partenza sono stretti e ben definiti, rappresentando essi stessi un elemento fondamentale di differenziazione dal processo tradizionale.

Nelle discussioni sul futuro dell’ILVA appare finalmente anche il termine DRI, ma insieme a questo, come un fantasma fossile, aleggia lo spettro del gas naturale, ad occhi distorti visto come chiave di volta per il processo di ambientalizzazione. Ma ancora una volta la realtà è più complessa e il gas naturale non è la soluzione. 

Il DRI a gas naturale

Quando si parla di produrre “ferro spugna” o DRI su larga scala, la tecnologia che domina il panorama attorno alla questione ILVA di Taranto parla di gas naturale. Questo idrocarburo ha un ruolo non solo come fonte energetica, ma fornisce anche la “chimica” necessaria per strappare l’ossigeno dal minerale. Su questo gas, in maniera miope, appare da tempo affidarsi l’orizzonte istituzionale di ambientalizzazione della siderurgia primaria italiana.

Come funziona la produzione di DRI con il gas naturale? Il processo non inizia direttamente nel forno di riduzione. Il gas naturale, composto principalmente da metano, deve subire una trasformazione preliminare in reazione con acqua. In un apposito reattore detto reformer, il metano viene fatto reagire con vapore acqueo ad alta temperatura. Viene prodotto un gas, detto syngas, costituito da una miscela di monossido di carbonio e idrogeno. E’ il syngas che viene fatto reagire con minerale di ferro in pellets, portato a temperature comprese tra gli 800 e i 1.050°C. Il syngas attacca il minerale, ne estrae l’ossigeno e forma il ferro DRI solido e spugnoso pronto per essere fuso in un forno elettrico. Anche qui il punto cruciale, ancora una volta, è costituito dalle emissioni. Con il DRI a gas naturale, l’anidride carbonica non è un semplice sottoprodotto accidentale ma è intrinseca alla reazione chimica stessa. Ogni volta che una molecola di CO, prodotta da metano, riduce il minerale, genera una molecola di CO₂. Questa è la fonte principale di emissioni, e la sua produzione è inevitabile in questo schema chimico. Altra CO2 viene emessa dalla combustione, necessaria per generare il calore che alimenta il reformer e mantiene il reattore alla temperatura operativa. Considerando le emissioni indirette, legate all’energia elettrica che fa funzionare pompe, compressori e altri ausiliari, abbiamo che per ogni tonnellata di DRI prodotta con syngas ottenuto da metano l’atmosfera si carica di 1,2 – 1,6 tonnellate di CO₂. Se è vero che è un netto miglioramento rispetto alle quasi 2 tonnellate dell’altoforno, è altrettanto chiaro che questa rimane una tecnologia lontana dall’essere la soluzione definitiva per un’acciaieria a zero emissioni. La sopravvivenza economica del DRI ottenuto da gas è legata a un “paracadute” normativo destinato a sparire: le quote di emissione di CO₂ gratuite assegnate dall’Unione Europea. Man mano che le aziende saranno costrette a pagare per ogni tonnellata di CO₂ emessa, il costo di produzione del DRI a gas naturale schizzerà alle stelle, erodendone rapidamente la competitività. Il conto alla rovescia per il DRI a gas naturale è già iniziato. La sua finestra di opportunità come tecnologia-ponte è determinata dal prezzo crescente del carbonio e dalla scadenza delle agevolazioni. Investire oggi in un nuovo impianto DRI a gas naturale senza un piano chiaro per la rapida conversione all’idrogeno verde significa rischiare di ritrovarsi in una condizione velocemente antieconomica. 

Il DRI ad idrogeno

Il processo che utilizza idrogeno verde è il solo che può essere definito quale meta realistica per la decarbonizzazione dell’acciaio primario. Il concetto è radicale: sostituire completamente il gas naturale con idrogeno verde, e cioè prodotto esclusivamente da elettricità rinnovabile.

Il processo centrale avviene in un elettrolizzatore, un apparato alimentato da corrente elettrica che scompone le molecole d’acqua in idrogeno ed ossigeno. Il processo richiede circa 50 kWh di energia elettrica per produrre un chilogrammo di H₂. L’idrogeno verde viene immesso direttamente nel reattore di riduzione diretta, dello stesso tipo di forno utilizzato per il gas naturale. All’interno, a temperature tra gli 800 e i 1.050°C, avviene la reazione che trasforma il minerale. L’idrogeno strappa l’ossigeno dagli ossidi di ferro, producendo la sola emissione di vapore di acqua. Dal reattore fuoriesce un “DRI verde”, identico nell’aspetto al suo predecessore fossile, ma con emissioni di CO₂ azzerate, in quanto la reazione chimica produce solo vapore acqueo e non anidride carbonica. Le emissioni di combustione sono azzerate in quanto non c’è combustione di idrocarburi. Il calore necessario può essere generato elettricamente o recuperando e riciclando i gas del processo stesso, sempre alimentati da energia rinnovabile. Le emissioni indirette possono essere azzerate. Se l’intero sistema (elettrolizzatore e ausiliari dell’impianto) è alimentato da elettricità rinnovabile, anche queste emissioni si annullano. In sintesi, la produzione di una tonnellata di “DRI verde” può virtualmente avvenire con zero tonnellate di CO₂ emesse direttamente dal processo. Le uniche emissioni residue, che possono essere ulteriormente mitigate, sono quelle legate all’estrazione e al trasporto del minerale di ferro. Questo processo trasforma la siderurgia da uno dei principali responsabili delle emissioni globali a un’attività potenzialmente a impatto climatico nullo.

La Puglia, le fonti Rinnovabili e l’idrogeno verde per una siderurgia pulita

La Puglia è la regione leader italiana nelle rinnovabili, avendo un totale di 7.36 GW di potenza rinnovabile installata (fotovoltaico più eolico). A tale potenza corrisponde una produzione stimata di 16,5 TWh annui di energia pulita. Tuttavia la Puglia ha ancora un’enorme capacità di crescita: entro il 2030 potrebbe raddoppiare la potenza installata, raggiungendo una capacità produttiva tra i 28 e i 36 TWh annui (1 TWH=1000000 kWh). Il fotovoltaico è destinato a trainare questa crescita, con progetti di agri-voltaico e comunità energetiche che potrebbero portare la produzione da fonte solare a 12-15 TWh. L’eolico a terra, già robusto a 9 TWh, può puntare sul “repowering”,  sostituzione dei generatori obsoleti, per arrivare a 14 TWh. Completa il quadro l’eolico offshore, con progetti in sviluppo che potrebbero contribuire con almeno ulteriori ulteriori 3-6 TWh annui. In questo quadro il surplus energetico può trasformarsi in una concreta opportunità per la riconversione industriale. 

Una produzione realistica di acciaio nell’ex ILVA di Taranto si può assestare tra i 4 e i 6 milioni di tonnellate annue. Considerando un consumo di 50-55 kg di H₂ per tonnellata di DRI prodotto questo porta ad una valutazione di 200.000-300.000 tonnellate annue di idrogeno, con un corrispondente consumo di energia tra i 10 ed i 15 TWh/annui, un valore di circa la metà del potenziale rinnovabile previsto nella regione al 2030. Questi numeri, come ben sottolineato all’interno dello stesso convegno di Legambiente, evidenziano con chiarezza che la riconversione sostenibile dello stabilimento è tecnicamente possibile, ma richiede lo sviluppo di un sistema energetico dedicato, con concreti investimenti in impianti rinnovabili ed elettrolizzatori. La Puglia possiede le potenzialità tecniche per supportare questa transizione, ma è evidente che un’operazione di questa portata non può realizzarsi senza un piano strategico nazionale che integri organicamente lo sviluppo delle rinnovabili con la riconversione industriale. Qualunque altra soluzione, definita più  o meno opportunamente “tampone”, non potrà che presto portare l’acciaio di Taranto fuori da ogni competitività di mercato. Come abbiamo visto, e come sottolineato dai relatori, il tempo della riconversione possibile sta velocemente scadendo.

Per una visione pubblica della transizione 

L’approccio finora seguito per la riconversione dell’ex ILVA di Taranto – basato sulla ricerca di un investitore privato che risolvesse definitivamente la questione – si è rivelato del tutto fallimentare. I continui tentativi di affidare a soggetti privati l’onere della transizione ecologica di un impianto strategico, per di più in assenza di un quadro chiaro di sostegno pubblico e di lungo periodo, hanno prodotto solo delusioni e ulteriore incertezza. Come sottolineato nella descrizione delle tecnologie e ben riportato nel convegno di Legambiente, la transizione sostenibile della produzione di acciaio è tecnicamente possibile, ma consiste in una azione complessa da giocare su più piani, che ha bisogno di un sistema tecnologico integrato non limitato alla acciaieria in quanto tale. L’inserimento del solo forno ad arco, magari alimentato con DRI derivante da metano o, peggio, comprato imbricchettato da produttori esterni o ancora peggio da solo acciaio di recupero, non copre le necessità di un Paese che voglia mantenere la strategicità della produzione di acciaio primario. Come ben sottolineato nel convegno, la trasformazione dell’acciaieria ha necessità radicali, che riguardano, oltre alla fabbrica, anche la produzione energetica e il territorio a monte, la produzione di idrogeno verde e il suo utilizzo per il DRI a valle. E riguardano la gente che nel territorio e nella fabbrica vive e lavora.

Sul fronte del lavoro il cambio di tecnologie comporterà anche una riduzione del personale impiegato direttamente nell’acciaieria, ma la forte espansione delle rinnovabili e l’inserimento degli elettrolizzatori può più che compensare le perdite dirette e di indotto nella fabbrica. È evidente che la complessità e i costi di questa trasformazione richiedono una regia pubblica forte e consapevole. Per questo motivo appare del tutto miope e controproducente l’enfasi posta su soluzioni intermedie come l’ambientalizzazione a gas naturale, tecnologia che ben presto andrà a finire su un binario morto. Presentare il DRI a gas come soluzione, in assenza di qualunque percorso di transizione veloce verso l’idrogeno verde, significa ignorarne i limiti strutturali: non solo mantiene una dipendenza dai combustibili fossili, ma produce comunque emissioni significative di CO₂, condannando l’impianto a diventare velocemente non competitivo, con l’aumento del prezzo del carbonio e la scomparsa delle quote gratuite. La vera opportunità per Taranto e per la Puglia risiede in una strategia integrata che leghi indissolubilmente lo sviluppo delle energie rinnovabili alla produzione di idrogeno verde per la siderurgia. Il potenziale energetico della regione, alto ben oltre quando già oggi previsto, può e deve essere finalizzato strategicamente verso un obiettivo preciso: creare una filiera dell’idrogeno verde dedicata alla decarbonizzazione dell’acciaieria. Come anche chiesto dal sindacato, tutto questo porta a definire come urgente e non più rinviabile la definizione di un piano industriale pubblico che assuma la conversione a idrogeno verde dell’ex ILVA come un progetto nazionale strategico, coordinando gli investimenti nel potenziamento delle rinnovabili in Puglia con la costruzione di elettrolizzatori dedicati e guidando transizione tecnologica verso il DRI a idrogeno, unica strada per una siderurgia primaria a zero emissioni, competitiva e duratura.

Solo un intervento pubblico determinato e dotato di visione prospettica può spezzare il circolo vizioso degli fallimenti, trasformando Taranto da simbolo del degrado ambientale in uno dei poli europei per l’acciaio verde, con ricadute positive sull’occupazione, l’ambiente e l’intero sistema industriale nazionale.