Quale Parlamento uscirà dalle urne di maggio? Nel turno precedente, in Italia su oltre 50 milioni di aventi diritto si presentarono alle urne quasi 30 milioni di elettori (il 57 per cento), un poco meno rispetto al 2009. gli asini
“Bruxelles si trova sì in Europa, ma l’Europa
non si trova a Bruxelles” (H.M. Enzensberger)
Ci lasciamo alle spalle mesi di manovre finanziarie e di decimali per non parlare di nu- merini, d’Europa e di populismi, di redditi di cittadinanza, di quota cento e di eco-bonus, di infrazioni e di pentimenti, di scomuniche e di ultimatum… Giusto per riassumere (e per tagliar corto). Non vado oltre. Perché siamo sempre da capo. Da tempo è caduta l’illusio- ne che un giorno o l’altro si sappia finalmente di che morte si debba morire e persino, più banalmente, di che pensione si possa soprav- vivere. Fatta una finanziaria, se ne fa un’altra, generalmente peggiore della precedente (per le nostre tasche di onesti quanto mediocri contribuenti). Infittendo le norme e i miste- ri. Votato un parlamento, se ne vota un altro, tanto uno vale l’altro ormai, cancellato dalle pratiche delle maggioranze blindate. Una pro- va proprio il varo della finanziaria: non è stato neppure consentito leggerla.
Adesso, a maggio, ci toccano le elezioni europee, per l’Unione europea, quando per la maggioranza degli elettori italiani l’Unione europea significa soltanto che per andare in Francia o in Germania non ti guardano più la carta d’identità, non devi sottostare alle occhiate indagatrici dei gendarmi, soprattutto non è necessario cambiare le nostre lire (quando era d’obbligo ci siamo sentiti sempre gli ultimi della compagnia) e che adesso tutte le colpe della nostra crisi stanno lì, tra Berlino e Parigi, le capitali avverse che agitano lo spread come fosse una scure. Oddio, qualcosa è cambiato rispetto al primo punto, cioè rispetto alle occhiate indagatrici dei gendarmi: in allarme per i cosiddetti “clandestini”, alla frontiera ti scrutano eccome, per scoprire qualche tratto non esattamente coincidente con i caratteri della “razza bianca” (o ariana?).
Non mi sottraggo alla maggioranza tanto scarsamente informata sulle virtù dell’Unione, che non avverte neppure l’esistenza di un parlamento europeo e che non conosce i poteri della Commissione, che attribuisce per sentito dire all’Europa regole inquietanti circa la lunghezza delle zucchine o il peso dei meloni, nel tentativo di uniformare tutto, la mozzarella tedesca e quella di bufala campana. So (questa è un’altra informazione largamente condivisa) della Brexit, anche se ben pochi avranno capito perché gli inglesi vogliano tornare a rinserrarsi nella loro isola, di Visegrad (ma dove sarà mai Visegrad, in Ungheria?) e dell’impronta sciovinista e intollerante dei paesi che vi hanno aderito. So di Orban, conosco Palazzo Berlaymont per averlo intravisto infinite volte in tv in immagini di re- pertorio, che ritraevano anche signori eleganti e sorridenti in abito scuro scendere da imponenti auto blu. Ho scoperto che Palazzo Berlaymont sorge là dove era stato eretto nei secoli passati un convento di caritatevoli suore. Adesso ospita la Commissione europea, il braccio esecutivo, e alcune migliaia di funzionari e impiegati.
Per la sua dimensione, per la sua conformazione, con le sue facciate a specchio, con i suoi spigoli e con le sue vele alte nel cielo, è una architettura perfetta (dopo la ristrutturazione conclusa nel 2004). Lo dico ripensando a quanto scrisse Adolf Loos, architetto vissuto tra Otto e Novecento, considerato un precursore del razionalismo. “Se in un bosco – scrisse Loos – ci im- battiamo in un tumulo lungo sei piedi e largo tre, disposto con la pala a forma di piramide, ci facciamo seri e qualcosa dice dentro di noi: qui è sepolto un uomo. Questa è architettura”. Di quanto teorizzò per iscritto, sono le due righe più famose. Anch’io, osservatore ben più modesto, davanti al Palazzo Berlaymont in tv mi faccio serio, intuisco che oltre quelle cortine traslucide, proibite ai più, prospera la burocrazia continentale, imponente, magniloquente, imperscrutabile, obesa, estranea ai miei affari e ai miei sentimenti, e non riesco a trattenermi dal pensare: qui è sepolta l’Europa, questa è architettura (quanti altri esempi si potrebbero scovare tra Bruxelles, Strasburgo, Francoforte…). Totale corrispondenza tra contenuto e contenitore.
Seguendo le cronache europee ho avuto anche la possibilità di arricchire la mia lingua. Una parola ha dominato le scene negli ultimi tempi: sovranismo. Non stava nel vocabolario italiano, ci è arrivata dal francese souverainisme. In francese il vocabolo conserva ancora una qualche grazia, per quanto l’abbia rilanciato in lungo e in largo la famiglia Le Pen, quella del Fronte nazionale. In italiano rimanda al passo militare: stivali che concordi calpestano il suolo. Così lo vedo io e odo il battere ritmico sul selciato, mentre qui e là appaiono i volti e le mani degli affamati di tutto il mondo. Per intenderci, in concreto: immigrati cacciati, filo spinato, barconi che affondano, muri e muraglie, eccetera eccetera. Sovranismo mi sembra voglia dire un po’ questo: dopo aver abbattuto muri, cominciamo a tirarli su di nuovo, come vorrebbe Trump o come hanno iniziato gli ungheresi di Orban, ricorrendo ai più economici reticolati, o come a parole e non con scarsa efficacia, soprattutto rispetto ai sentimenti dei cittadini bersagliati dai tweet, chiunque, anche un Salvini qualsiasi, può provare.
Sono cresciuto sventolando la bandiera dell’internazionalismo, mi sono sentito persino cittadino del mondo. Adesso sono costretto a difendermi dai sovranisti, attestati alla difesa delle trincee (bella metafora coniata dal Censis), e dal sovranismo con il suo pessimo rumore, in uno scontro che rischia di trascinarmi a difendere un internazionalismo dei nostri tempi, che talvolta può coincidere con il globalismo delle multinazionali. Come se non esistesse un’altra via e non fossero stati proprio gli europeisti delle origini a indicarla.
Vedo tradita l’idea dell’Europa unita e solidale, che avevano coltivato, prima durante e dopo la guerra, i cosiddetti “padri”: Altiero Spinelli e poi Adenauer, Schuman, De Gasperi, tutti all’opera quando io alle elementari sentivo risuonare il termine “ceca” che con il tempo imparai a tradurre come Comunità europea del carbone e dell’acciaio e che mi suggeriva orizzonti comuni e radiosi nel senso della concorde intrapresa industriale… Un acronimo, sempre con la maiuscola, dal quale discese tutto il resto, che in una imprevedibile altalena ci ha condotto dove siamo ora, a un’Europa in crisi, ignorata o brutalmente osteggiata da molti dei suoi stessi potenziali elettori, una somma di stati che si fronteggiano e non certo in un ispirato e appassionato confronto di politiche, ma a colpi appunto di numeri e di numerini, ciascuno per la sua borsa, la borsa di chi vuole proteggere esclusivamente gli interessi di casa propria o del proprio orto. Qui si dovrebbe richiamare un altro termine in voga: populismo. Termine che s’adatta a disegnare una società spaventosamente classista, divisa tra chi comanda e i truffati e gli illusi che si godono le briciole, spacciate per generose elargizioni, per soddisfare le più basse aspirazioni, come insegna Salvini: sparare sui ladri o cacciare/ sfruttare gli invadenti immigrati, soprattutto neri di pelle.
Per tutto si può trovare una ragione. Ma resto convinto che senza l’Unione europea e i suoi euri (so che sarebbe più giusto “euro”, ma “euri”, come mi spiegò una volta il poeta Giovanni Giudici, suona più popolare) la nostra Italia sovranista resterebbe schiacciata come i famosi vasi di coccio. Resto convinto che con la globalizzazione e nell’interdipendenza fra i sistemi economici, finanziari e sociali delle diverse aree del mondo solo l’Unione europea possa garantire alle sue cittadine e ai suoi cittadini opportunità che non possono essere garantite dalle distinte dimensioni nazionali: spazio comune di libertà e giustizia, diritti dei lavoratori e dei consumatori, competitività e convergenza dei sistemi produttivi, investi- menti strutturali di lunga durata, lotta al cambiamento climatico e transizione ecologica, coesione sociale e territoriale, governo dei flussi migratori, sicurezza interna ed esterna, difesa dello stato di diritto… Ma non riesco a nascondermi, di fronte al Palazzo Berlaymont, la sensazione di un ottuso gigantismo, di una sorda lontananza, di un potere oscuro, insomma di una democrazia solo presunta, immaginaria.
Provo a spiegarmi copiando Hannah Arendt che parlava di forme di stato che evolvono in burocrazie, “verso un dominio esercitato non dalle leggi né dalle persone, ma da anonimi uffici o computer, la cui superpotenza del tutto spersonalizzata può minacciare, più del più vergognoso arbitrio delle tirannie del passato, la libertà e quel minimo di civiltà senza il quale è impossibile immaginare una vita collettiva”. In cerca di conforto, sono andato a leggermi qualche articolo del Trattato sull’Unione euro- pea (lo si trova ovviamente in internet) e della Carta dei diritti fondamentali. Sono quasi quattrocento pagine e non mi sognerei neppu- re di sfogliarle tutte. Mi piace però sapere che anche per l’Unione europea la dignità umana è inviolabile, che ogni persona ha diritto alla vita, che ogni persona ha diritto alla propria integrità fisica. Che nessuno può essere sotto- posto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti. Che nessuno può essere tenuto in condizioni di schiavitù o di servitù. Che nessuno può essere costretto a compiere un lavoro forzato o obbligatorio. Che è proibi- ta la tratta degli esseri umani. Che ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza (dagli articoli 1, 2, 3, 4, 5, 6 della Carta dei diritti fondamentali). Basterebbe per ricacciare il sovranismo nel mondo degli inutili e dimenticati neologismi.
Si andrà a votare perché l’Europa abbia un governo che garantisca la conversione in legge di questi principi? No, perché in tema di immigrazione, fenomeno che in sé misura il valore di tanti di quegli articoli, dal rispetto della dignità umana e del diritto alla vita, alla negazione della tratta degli esseri umani e della schiavitù, si sa già che quei principi resteranno per lo più sulla carta, si sa già come si dividono i partiti e come si divideranno i voti e come si dividono i paesi (l’accoglienza è ancora di competenza nazionale): da una parte chi mal sopporta l’immigrazione e ne farebbe volentieri a meno, dall’altra quanti semplicemente cercano di respingerla, chi lasciando una barca in mezzo al mare per settimane, chi alzando barriere giorno dopo giorno, chi affamando i malcapitati che sono riusciti a passare, chi rinchiudendoli in barba a quell’articolo che dovrebbe garantire a tutti libertà e sicurezza (qualcuno fa pure due calcoli: vedi oltre oceano il caso del Giappone che cerca immigrati indispensabili al funzionamento delle sue imprese).
Nella disunità totale dell’Europa, che non ha mai saputo e non sa costruire una identità comune e quindi immaginare una politica comune. Proprio di fronte all’immigrazione la Comunità europea mostra la sostanza: un agglomerato di ventotto paesi, tra Nord, Mediterraneo, Est, i “grandi timonieri”, Parigi e Berlino, per lo più in contrasto, raramente uniti (il trattato di Schengen fu un successo: finora l’apertura delle frontiere ai cittadini europei è stata salutata come una grande conquista), poco uniti anche nell’occasione solenne dell’avvio della moneta unica il primo gennaio 2002 (neppure venti paesi hanno abbracciato l’euro, la cui “nascita” politica risale al 1999), divisi nelle scelte economiche, divisissimi a proposito di immigrazione come si sta vedendo, immobili di fronte alle disgrazie altrui, rimasta nell’anima ciò che essa stessa si è definita fino al 1993, cioè una comunità economica, erede di una comunità economica per eccellenza come la Ceca della mia infanzia, che si è via via capitalizzata nella grande finanza senza confini, capace di siglare accordi, spesso evasi, di imporre direttive per la raccolta delle olive o per la selezione delle uve, incapace di proporre una strategia che tenga strette politiche economiche e politiche sociali, che non subordini queste agli interessi esclusivi di quelli, che presenti a un qualsiasi cittadino un quadro di azioni nelle quali riconoscersi e riconoscere le proprie necessità: lavoro, casa, studio, assistenza…
“Una strada dovrebbe essere quella di illustrare alla società civile e rafforzare in essa l’idea – cito Luciano Gallino, La lotta di classe, Laterza – che uno dei fondamenti dell’Ue va visto precisamente nello Stato sociale. La grande forza che può portarla a una reale unificazione politica è il modello sociale europeo, e cioè l’idea che uno Stato o una unione di Stati abbia tra le sue funzioni fondamentali quella di produrre sicu- rezza sociale ed economica”.
È singolare che il nostro presidente del Consiglio, celebrando l’accordo sulla manovra raggiunto dopo giorni e giorni di violente polemiche sotto la minaccia di una costosa procedura d’infrazione, abbia insistito sul fatto che i commissari europei abbiano controllato e ricontrollato i numeri senza invece prestare la minima attenzione ai contenuti della manovra. “Non sono stati toccati” ha assicurato premuroso il nostro presidente del Consiglio. Ma di soli numeri vive un paese? Per gli uffici di Bruxelles l’importante è che un paese come l’Italia, non proprio l’ultimo nella fila dei ventotto, non vada al fallimento. L’economia, nel bene e nel male, è “globale” e quindi il crollo di un bilancio pubblico qualche problema lo crea anche altrove. Il resto conta poco. Alla Grecia, smisuratamente fuori partita, i burocrati europei non esitarono a imporre manovre sanguinarie: che importa se a pagare furono i soliti pensionati (i pensionati, come dicono gli italiani alla verifica dei fatti, sono il bancomat dei vari governi, al contrario degli evasori fiscali, sempre confortati e premiati). Si potrebbe auspicare aiuto reciproco, ma a cancellare ogni speranza un articolo del Trattato recita: “Uno stato membro non è responsabile per i debiti di un altro stato membro e non subentra in impegni di questo tipo”.
Pazienza se si pretende il rispetto di patti sottoscritti (il Patto di stabilità firmato nel 1997 anche dall’Italia), ma un’occhiata alla qualità delle “voci” di entrata e uscita io, al posto di Jean-Claude Juncker, l’avrei data. Verrebbe da dire: una mano lava l’altra. Anche in questo caso, debito pubblico, disavanzo, Pil, ciascun paese ha fatto e continua a fare i conti di casa propria. Juncker, severo custode del rigore eco- nomico, è un personaggio che offre il fianco a più di una insinuazione non del tutto infon- data: ha guidato per anni il governo del suo paese, il Lussemburgo, trasformandolo in un paradiso fiscale, nelle Cayman o nelle Isole Vergini del vecchio continente.
È ovvio che l’Europa cosiddetta unita appaia così solo come una perfida affamatrice, una complottista a colpi di spread, etero diretta dalla grande finanza internazionale, piegata ai voleri di alcuni paesi forti, pronta a spartirsi a basso prezzo le spoglie di ogni villaggio in rovina. Con sguardo freddo si dovrebbe dire che dall’Europa del welfare (il modello del Nord) siamo precipitati nell’Europa dei tagli. Così, tra un potere economico insuperabile e un potere politico frammentato ben poco so- lidale, non esiste più l’Europa. Ma si può stare senza Europa? Nel mondo globalizzato d’oggi, dominato da alcune superpotenze, che sapore hanno piccoli stati, inconsistenti politicamente, economicamente insignificanti? Non potrebbe resistere neppure la Germania della Merkel e del dopo Merkel, la Germania che i propri interessi ha saputo coltivarli (regalando però qualche bell’esempio, magari ben calco- lato, a proposito di immigrazione e non solo: basti pensare ai salari più alti d’Europa). Per rispondere anche ai sovranisti…
Come insegna Draghi, il governatore della Banca centrale europea, solo con la moneta non si costruisce una vera Europa. Si dovrebbe procedere per altre strade e la prima da imboccare sarebbe quella della democrazia, intanto ridando centralità al Parlamento, esautorato (ben prima di quello italiano), imbottito finora di trombati d’ogni colore, ridimensionando i poteri della Commissione…
Ma quale Parlamento uscirà dalle urne di maggio?
Mi chiedo prima con quale consapevolezza si andrà al voto e quanti andranno al voto tra i miei concittadini italiani e quelli europei, qua- li saranno dunque le percentuali dei votanti.
Nel turno precedente, in Italia su oltre cinquanta milioni di aventi diritto si presentarono alle urne quasi trenta milioni di elettori (il 57 per cento), un poco meno rispetto al 2009. Furono le elezioni del quaranta per cento al Pd di Renzi, con i Cinquestelle al 21, Forza Italia al 16, la Lega (ancora Lega Nord) poco sopra il 6. Era in campo anche L’altra Europa con Tsipras, che superò appena il quattro per cento. Poi venne il voto italiano che scompi- gliò l’assetto, voto di rabbia, di protesta, di rancore, di invidia, di delusione. Politologi e sociologi si esercitarono nelle spiegazioni. Il degrado morale e culturale fu la premessa alla crisi della politica e delle sue istituzioni. Andrà peggio per l’Europa? Di sicuro sarà un referendum pro o contro l’Europa, sovranisti contro “globalisti” o presunti tali e allo stes- so tempo un voto nazionale, tutti attenti cioè a vedere quale partito sarà premiato, Lega o Cinquestelle, e quale sarà la ricaduta sul go- verno italiano, con la prospettiva di una nuova consultazione, giusto per stabilire chi debba comandare di più, Lega o Cinquestelle. Lega e Cinquestelle coltivano l’ambizione di egemonizzare il nuovo Parlamento europeo con i loro alleati (a destra Salvini, già al turno precedente in compagnia dell’ultradestra del britannico Farage, ormai fuorigioco per via della Brexit, in mezzo al guado gli altri, già bocciati dai verdi tedeschi, cioè dalla probabile componente più alternativa e innovatrice).
Non riesco a immaginare sotto quale bandiera si presenteranno i cosiddetti oppositori all’alleanza in corso e quale “sostanza” dell’Europa unita potrebbero presentare, a quali progetti potrebbero affidarsi per rimediare ai fallimenti e alle discordie recenti, come potrebbero superare rare una visione del mondo subalterna ai miti della globalizzazione e della finanza globale, ai miti di una malintesa modernità, della crescita senza fine e persino dell’europeismo senza qualità e senza equità. Sarebbe troppo chiedere un programma che lasciasse sperare nella giustizia sociale, nella lotta alle diseguaglianze, nel lavoro, negli investimenti per il lavoro, nella cultura, nella solidarietà? Sarebbe così difficile formularlo e presentarlo?
Certo, comunque la si metta, dovrebbe prevalere il buonsenso di chi ben sa che per quanto l’Europa possa non piacere non si possono attribuire all’Europa colpe soltanto nostre: l’instabilità dei governi e la miseria dei governanti, l’arretratezza delle infrastrutture, le debolezze del sistema economico, la paralisi dei tribunali, il basso livello della scuola, il potere della criminalità organizzata, il macigno dell’evasione fiscale, l’inconsistenza delle riforme… Se i ponti crollano, le montagne franano, la disoccupazione sale, i cumuli d’immondizia s’alzano, la forbice tra ricchi e poveri s’allarga e la stupidità generale dilaga non è colpa dell’Europa. Allo stesso tempo si dovrebbe sapere che l’Europa ci ha risparmiato un’inflazione galoppante (oltre il duecento per cento nei vent’anni prima dell’euro, poco sopra il quaranta per cento nei vent’anni successivi all’introduzione della moneta unica), anche se un po’ di inflazione non farebbe male (contro la rigidità dei ragionieri di Bruxelles), che certi patti ci hanno salvato dalla spirale dei debiti… Non sarà un caso se altri paesi magari più fragili del nostro (vedi il Portogallo, ai margini dell’Europa che conta) hanno scavalcato la crisi, mentre noi nella palude ci siamo e per ora ci restiamo.