Dopo decenni di lamentazioni contro i Trattati Ue, ne abbiamo incrinato uno dei peggiori: il «no bail out». Tutto è cambiato? No. Anche questo «deal» è fragile e rischioso. Ma per la prima volta in 63 anni l’Ue è una comunità politica che assume il dovere di aiutare i paesi in difficoltà. Da “il manifesto”.
«Storico? Non direi», si è affrettato a dichiarare il frugale Rutte, per contenere l’enfasi con cui il Presidente del Consiglio europeo Michel aveva accompagnato, alle 5.33 del mattino il suo annuncio: «Deal!», accordo fatto.
Si capisce che il primo ministro olandese minimizzi (si capisce meno se a farlo sono tanti nostri compagni), perché, dopo decenni di lamentazioni contro gli orribili Trattati dell’Unione, senza neppure esser presi sul serio, all’alba di lunedì ne abbiamo finalmente incrinato uno.
Uno dei suoi peggiori principi fondamentali. Quello che gli avari (e poco lungimiranti paesi ricchi) hanno sempre difeso a spada tratta e che è iscritto nell’articolo 123 del Tfue (Trattato sul funzionamento dell’Unione) varato a Lisbona nel 2009, quando era naufragata l’idea di dotare l’Unione di una Costituzione e dunque l’ipotesi che dovesse trattarsi di una comunità solidale, non solo di un mercato in cui ciascuno cerca di essere più competitivo dell’altro.
E cioè il famoso no bail out, il divieto ad ogni stato membro, di tirar fuori dai pasticci un altro in difficoltà. In Italia diremmo: «cavoli vostri» ( o peggio).
L’ultimo tentativo di modificare il divieto era stato fatto dalla Francia nel 2008, proponendo un Fondo di garanzia di 300 miliardi di euro per i paesi in difficoltà e respinto dalla Germania. Il paese che oggi ha invece sostenuto la richiesta del Recovery Fund avanzata soprattutto dai meridionali, l’inedita ma assai importante alleanza fra Italia, Spagna e Portogallo.
Un consenso che non deriva da una conversione etica della signora Merkel, ma dalla sua intelligenza: ha capito che l’economia europea è ormai così interconnessa al punto che per ogni prodotto ce n’è un pezzetto (una valvola, una batteria, una vite) che viene fabbricato in un paese diverso; e che dunque la catastrofe economica di uno bloccherebbe la produzione dell’altro.
Sarebbe utile ripercorrere la storia di questa vicenda per capire perché l’accordo di Bruxelles rappresenta una svolta. State tranquilli, non lo farò, ma solo perché non c’è spazio, visto che sarebbe bene conoscerla per capire meglio la sua portata.
Basti dire che già nel 2008, quando scoppiò la grande crisi, ci si rese conto che servivano strumenti nuovi per farvi fronte perché il default di uno degli stati membri dell’Eurozona avrebbe messo nei guai l’intera area della moneta unica.