Se non ci sarà coerente una riforma democratica e progressiva dell’Europa, il suo ruolo di primo piano nel contesto internazionale non potrà che venir meno
Le previsioni più diffuse all’indomani del voto che ha sancito la Brexit davano l’insorgere del caos economico, l’insediamento a Londra di un Governo di esponenti del fronte del “Leave” e una rapida applicazione, sostenuta dai francesi, dell’articolo 50 (del Trattato di Lisbona, n.d.t) che avrebbe inesorabilmente condotto, e in modo aspro, la Gran Bretagna fuori dall’Europa e la Scozia fuori dal Regno Unito.
Invece David Cameron se ne è andato, insieme a George Osborne e alla sua interminabile politica di austerità, la moderata sostenitrice del “Remain” Theresa May è Primo Ministro, Boris Johnson è stato imbavagliato, i tassi d’interesse sono stati tagliati e la disuguaglianza è diventata ora, più o meno, un tema dei Tory. Nigel Farange è scomparso. La principale conseguenza economica è stata il calo della sterlina, che ha aiutato il FTSE (Financial Times Stock Exchange, n.d.t) e forse anche la bilancia commerciale. Nicola Sturgeon alza la voce, ma la Scozia non ha ancora indetto un secondo referendum. E l’implementazione dell’articolo 50 è rimandata almeno fino al prossimo anno. Il futuro, insomma, è incerto. In breve, fare previsioni è pericoloso.
Ma che cosa succederà se e quando si darà seguito all’articolo 50? Se si guarda al quadro della legislazione e della politica europea, sono pochi i fatti che appaiono chiari. In primo luogo, le banche internazionali che hanno sede a Londra dovranno trasferire alcune operazioni sul suolo europeo poiché il loro diritto di operare nel territorio dell’Unione Economica Europea è direttamente legato al libero movimento delle persone, a cui la Brexit porrà fine. A guadagnarci sarà Parigi, così come l’anglofona Dublino. Questo danneggerà Londra e la sua moneta, ma favorirà le esportazioni, l’industria, la classe media e i titoli azionari.
In secondo luogo, gli istituti scientifici e le università britanniche assorbono una quota consistente dei fondi europei per la ricerca e dei fondi Erasmus, dal momento che i ricercatori di tutta Europa si trasferiscono nel Regno Unito per le strutture, i colleghi, l’ambiente favorevole. Ebbene, gli istituti scientifici e le università britanniche saranno colpite duramente. Questo rappresenterà una grave perdita per tutta l’Europa dal momento che non vi è nessun altro Paese UE che possono concorrere nel campo della dell’università e della ricerca. A trarne beneficio saranno gli Stati Uniti.
In terzo luogo, la legislazione europea non prevede limitazioni nei confronti dei rifugiati che intendano lasciare il territorio europeo. Pertanto, gli attuali assetti che di fatto tengono bloccate le persone a Calais non saranno più in vigore e i rifugiati sul suolo francese e belga saranno liberi di affittare delle imbarcazioni per attraversare la Manica.
Nel Regno Unito, l’arrivo di un governo Tory moderatamente anti-austerity porterà al definitivo collasso del partito laburista, oppure lo costringerà a ritrovare l’appoggio della base dei laburisti sostenitori del “Leave”, oggi alla deriva. Quest’ultima opzione è complicata: riguarda innanzitutto la capacità di proporre un programma economico fortemente progressivo contro l’impulso nazionalista che sta dietro il voto favorevole alla Brexit. È possibile tuttavia che con l’effettivo scioglimento dell’UKIP (United Kingdom Independence Party) – raggiunto il suo obiettivo – la politica inglese perderà almeno in parte la sua impronta nazionalista, rendendo più semplice il compito a Corbyn – assumendo, come sembra possibile, che rimanga alla guida del Labour.
In Europa, chi sta relativamente meglio è l’Italia, così come è apparso evidente subito dopo il voto. Questo è interessante poiché, tra tutti i Paesi europei in crisi, l’Italia è quella che ha fatto di più, anche se prudentemente e ad oggi senza grandi risultati, per ammorbidire le regole fiscali comunitarie al fine di arrestare il suo declino economico. Molto dipenderà dall’aumentare della pressione esercitata dal Movimento 5 Stelle. Spagna e Portogallo sfuggono al cappio dell’austerità che soffoca la Grecia: la Spagna perché la sopravvivenza stessa del governo guidato dal Partito Popolare è a rischio, e il Portogallo in quanto non si possono applicare ad esso in modo rigido delle misure da cui la Spagna è invece largamente esonerata. Così, nell’Europa del Sud ad eccezione della Grecia, l’austerità più rigida appare momentaneamente sospesa e una fragile tregua sembra prevalere.
La Francia è invece un’altra storia. Lì è stato decretato una stato di emergenza. A causa dei drammatici eventi di Parigi, Nizza e della vicina Bruxelles, la destra è in forte ascesa, a prescindere dal fatto che il Front National vinca o meno le prossime elezioni. La società civile è cosciente della posta in gioco e sta cercando di preservare ciò che ha conquistato nei decenni post-Fronte Popolare. Tuttavia, non essendoci una leadership credibile a sinistra, il destino della Francia dipende da cosa la destra deciderà di fare se andrà al potere. Forse farà collassare l’Europa. Forse smantellerà il welfare. Forse si rivolterà contro i rifugiati, i migranti, i credenti di fede musulmana. La Francia è un vulcano pronto a esplodere: è probabile che ciò accada, anche se è impossibile sapere quale sarà la data, la forza e la direzione dell’eruzione.
È abbastanza. La mia sfera di cristallo non può fare predizioni sulla Germania. Si può solo notare che il pilastro del federalismo europeo e della sua realizzazione ordoliberale, il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble, è anziano. È improbabile che possa vedere la Troika insediarsi a Parigi, cosa che, come ha detto a Yanis Varoufakis, sarebbe determinato a fare. Anch’egli è seduto su un vulcano: quando erutterà, egli non ci sarà già più. Chi verrà e cosa succederà dopo, non si può dire.
La speranza per l’Europa risiede in un piccolo movimento nato da poco: il Movimento per la Democrazia in Europa 2025 (Democracy in Europe Movement 2025 – DiEM25), un movimento per un’alleanza democratica e socialdemocratica paneuropea che si prefigge innanzitutto di realizzare robuste istituzioni di democrazia popolare a livello europeo, per poi ricostruire l’economia del continente come un aggregato unico, integrato, stabile e fiorente. Le possibilità di successo sono poche, ma vale davvero la pena provare data l’entità delle conseguenze negative in caso di fallimento.
Il programma per la stabilizzazione e il progresso dell’economia europea potrebbe seguire le indicazioni contenute in The Modest Proposal (Varoufakis, Holland e Galbraith, 2013), in cui sono declinati quattro elementi fondamentali: la ristrutturazione del debito dei Paesi in crisi attraverso il ruolo della Banca Centrale Europea, soluzioni valutate caso per caso e a livello europeo per le banche fallite, un programma di investimenti tramite la Banca Europea degli Investimenti e il Fondo Europeo per gli Investimenti, un piano di assistenza diretta alle famiglie più vulnerabili dal punto di vista dell’alimentazione, della disoccupazione e di altri obiettivi critici, il tutto finanziato dai surplus del Target 2. Queste misure non richiederebbero cambiamenti immediati in alcun Trattato o Atto costitutivo dell’Unione Europea e potrebbero consentire di guadagnare il tempo necessario a costruire un consenso e a realizzare cambiamenti ancora di più vasta portata. Vi sono molte proposte sul tavolo e in questo contesto l’evoluzione degli eventi dal 2013 deve essere presa in esame.
Ma l’euro sopravvivrà? Chiaramente, con le attuali politiche, non potrà farlo all’infinito. A meno che non vi sia un cambio decisivo di vedute e politiche nell’Eurozona, Stiglitz (2016) sostiene che la soluzione migliore sarebbe che la Germania uscisse dall’euro e che si affermasse un nuovo marco tedesco, una soluzione che punta sull’apprezzamento del tasso di cambio in Germania per rimediare all’ormai cronico surplus della bilancia commerciale tedesca. Un’alternativa, proposta da Skidelsky (2016), è quella di ricostruire il sistema dell’euro nel solco di Bretton Woods, con un nucleo centrale detenuto dai Paesi del Nord, monete nazionali nei Paesi economicamente più deboli, e la partita delle regolazioni affidata in parte di una Banca Centrale Europea che assumerebbe nuove funzioni simili a quelle del Fondo Monetario Internazionale.
Se non ci sarà coerente una riforma democratica e progressiva dell’Europa, il suo ruolo di primo piano nel contesto internazionale non potrà che venir meno. A sua volta, questo aprirà uno spazio geopolitico per le potenze regionali e globali più ricche di risorse: Stati Uniti, Russia, Cina e, nel Medio Oriente, Iran. Mentre l’Europa litiga e si divide, questi Stati riorganizzeranno il mondo, come peraltro stanno già facendo con politiche estere a base di oleodotti banche di sviluppo, controllo dei mari.
Vi sono molti pericoli, la tensione permanente in Ucraina, la drammatica guerra in Siria insieme al caos in Libia e Yemen, i conflitti irrisolti in Afghanistan e Iraq, la situazione dei rifugiati, il colpo di stato fallito in Turchia e le sue conseguenze politiche, il pericoloso confronto nel Mar Cinese Meridionale.
In tutte queste faccende, tutto dipende da cosa Stati Uniti, Russia, Cina e Iran decideranno di fare. L’Europa potrebbe svolgere un ruolo di mediazione e stemperamento di potenziali conflitti, sopratutto tra Stati Uniti e Russia. Ma più l’Europa sarà divisa, non democratica e preoccupata dei suoi fallimenti interni, più rimarrà una pedina piuttosto che un attore di primo piano nello scacchiere internazionale.
E se il progetto di promuovere la pace tra le potenze estere non funzionerà, almeno una delle frontiere del conflitto riguarderà l’Europa, con esiti davvero disastrosi.
Articolo tratto da: Globalizations, Special forum on Brexit, settembre 2016
(Traduzione di Federico Olivieri)
Testi citati:
Skidelsky, R. (2016), Project Syndicate, A British bridge for a divided Europe
Stiglitz, J. (2016). The euro: How a common currency threatens the future of Europe. New York, NY: Norton.
Varoufakis Y., Holland S., Galbraith J. (2013). A modest proposal for resolving the Eurozone crisis – version 4.0. Read here