I treni, i tempi, i binari, le stazioni. Il sistema ferroviario va letto tutto insieme. Non serve separare il pezzo più veloce, mentre il resto muore
Le ferrovie italiane come bene pubblico sono morte qualche anno fa; il sistema ferroviario come servizio pubblico sta morendo in questi mesi. Se si dovesse stabilire una data convenzionale della morte, il punto di non ritorno di un processo di disfacimento che è cominciato qualche anno fa e si concluderà non si sa quando, si potrebbe prendere il 13 dicembre 2009, inaugurazione ufficiale della linea ad alta velocità Roma-Firenze-Bologna-Milano-Torino ed entrata in vigore del nuovo orario (che è stato distribuito in versione cartacea col debito ritardo di quasi un mese). Non stupisca la coincidenza della data della morte con il completamento dell’alta velocità. Solo adesso ciò che si poteva immaginare si sta realizzando, è sotto gli occhi di tutti, non è più un ragionamento astratto.
Il servizio ferroviario, la rete ferroviaria, è un sistema. Funziona se il sistema è integrato, logisticamente coerente. La sua efficienza come servizio, si misura sulla comodità, sicurezza, affidabilità, flessibilità di tutte le tratte; sui tempi di percorrenza da ciascun punto a ciascun altro punto della rete; sui costi per tutti gli utenti. Si possono fare differenze tra le tratte e gli orari tipicamente di lavoro (quelle dei pendolari), i cui prezzi andrebbero calmierati, e quelle generiche; si possono privilegiare i tempi di percorrenza delle tratte molto frequentate, che riguardano i molti, e quelle meno frequentate, che riguardano i pochi.
Si possono, si debbono, fare considerazioni di efficienza economica, perché i costi qualcuno li paga: o chi paga il biglietto o chi paga le tasse. Non si può, non si deve, separare una tratta dalla rete – perché è strategica, perché è molto frequentata, perché può rendere molto – farla percorrere da treni molto veloci per far concorrenza agli aerei e dire che tutto va bene perché su quella tratta l’azienda ci guadagna. E’ questo invece che si è fatto. E questo uccide la rete, cioè il servizio pubblico.
In contemporanea, per caso, con l’avvio in Italia dell’alta velocità, Tony Judt, New York University, che qualcosa sa del disastro delle ferrovie britanniche privatizzate, ha scritto:
“Non si possono far funzionare i treni con la concorrenza. Le ferrovie – come l’agricoltura o le poste – sono contemporaneamente un’attività economica e un bene pubblico essenziale. Non si possono mettere due treni sulle rotaie e aspettare a vedere quale va meglio: le ferrovie sono un monopolio naturale. Incredibilmente gli inglesi hanno provato a mettere in concorrenza gli autobus…Prevedibilmente la conseguenza degli autobus “concorrenziali” – salvo che nel centro di Londra, dove c’è abbastanza domanda per funzionare – è stata un aggravio per il settore pubblico; un netto aumento delle tariffe fino al livello sostenibile dal mercato; buoni profitti per le compagnie di autobus veloci.” (What Is Living and What Is Dead in Social Democracy?, “New York Review of Books”, 2009, n. 20). Secondo Judt (che prende i numeri da Massimo Florio, The Great Divestiture: Evaluating the Welfare Impact of the British Privatizations, 1979-1997, MIT Press, 2004), il costo diretto della privatizzazione delle ferrovie, il costo dello stato per indurre i privati a rilevarle, sarebbe stato di 17 miliardi di sterline.
Quando von Neumann formulò la teoria dell’autostrada, dimostrò che un sistema di strade a grappolo, in cui le strade che toccano i paesi affluiscono su una strada dritta e veloce – un’autostrada, appunto – che non tocca nessun paese ma che congiunge due nodi molto frequentati, é più funzionale di un sistema di strade tortuose, che toccano tutti i paesi. Non dimostrò che basta fare l’autostrada; e per raggiungerla ognuno si arrangi. Il grappolo ha vantaggi anche energetici: accorcia le distanze per tutti. Ma purché l’autostrada – in questo caso l’Alta velocità – sia baricentrica e breve; e purché dalle strade affluenti ci si possa entrare. Che dire se l’autostrada fa una curva a manico d’ombrello e costringe anche chi abbia raggiunto un nodo importante della rete ad allungare il percorso, anche di molto? E se chi abita lungo il percorso dell’autostrada deve andare avanti e indietro su treni lenti perché i punti di ingresso sono molto distanziati? E se non ci sono treni passanti su molte direttrici importanti? Insomma le disfunzioni, i guasti, i ritardi, le soppressioni – che possono aumentare se entrano nuovi operatori, come gli italo-francesi, i tedeschi, gli austriaci – sono solo la parte inattesa, clamorosamente evidente, di un disastro complessivo che va guardato punto per punto. Cerco di illustrarne qualcuno.
I prodotti
Sono l’aspetto per me più offensivo perché, forse, non sono neppure indispensabili: fanno parte della moda, del modo di funzionare intrinsecamente truffaldino degli ultimi decenni. Si arriva ai soldi vendendo immagini, pubblicità, slogan, nomi, senza neppure toccare la realtà. Per difendersene bisognerebbe tornare a Pinocchio – avete presente la Volpe e il Gatto e il Campo dei miracoli, l’Omino di burro e il Paese dei balocchi – più che a Carlo Marx.
Il servizio ferroviario è determinato dal materiale rotabile e dagli orari: il tempo breve o lungo; l’agio o il disagio dei vagoni. Non c’è molto da differenziare. Ma i pubblicitari, gli addetti al marketing, non ti vendono un servizio, ti vendono un nome. Perciò l’elenco dei tipi di biglietto che ti vengono venduti prende mezza pagina: Eurostar Italia Alta Velocità; Eurostar Italia Fast; Eurostar Italia Alta Velocità Fast; Eurostar Italia; Eurostar City; Eurocity internazionale diurno; Eurocity internazionale notturno; Intercity; Intercity Notte; Espresso; Regionale; Suburbano.
Siccome ogni nome ha il suo prezzo, alcuni nomi vecchi sono quasi scomparsi, i nomi nuovi non hanno storia, è impossibile avere una serie coerente dei prezzi, calcolare il contributo all’inflazione, cambiare da un tipo di treno ad un altro. E, come del resto per gli aerei low cost, il costo reale, tra offerte, sconti, costi d’agenzia, variazioni con la data di prenotazione, è di fatto inconoscibile. Per accrescere la flessibilità del servizio, tutti i biglietti dei prodotti “Alta velocità” sono chiusi. Se non fai in tempo a cambiare il biglietto, anche se il treno presunto tuo è in ritardo di ore, non solo perdi la prenotazione, come è ovvio, ma paghi 8 euro di multa. Ed è capitato, col vecchio orario, che il prezzo aumentasse notevolmente, ad un cambio di nome, anche se il servizio nuovo era più lento, molto più scomodo – 4 posti per fila invece di 3, in seconda, niente scompartimenti, assoluta inaffidabilità – perché il nome nuovo includeva quello magico: Eurostar.
Le stazioni
Non sono gestite da chi ti trasporta. Non sei tu che la paghi la stazione. Loro perciò ti forniscono una biglietteria, per cui chi ti trasporta paga, l’accesso ai treni, con folle infinite perché non ci sono né le sale d’aspetto né i bar, e nient’altro. Il riscaldamento è un ricordo; le panchine, al freddo, bastano per l’un per mille dei passeggeri; l’informazione elettronica é ridotta al minimo, quando funziona, e c’è solo nelle stazioni importanti. Ci sono i club per chi ha il biglietto di prima classe dei Freccia rossa e si è iscritto. In compenso ci sono infiniti schermi pubblicitari; negozi all’uscita, come negli autogrill. Sono la pubblicità e i negozi che pagano la stazione; tu sei lì per forza, non puoi scappare; perciò loro vendono te a chi fa la pubblicità. A Roma, a Milano, a Torino Porta Susa, non ci sono bar degni del nome; ci sono cessi a pagamento ridotti come una volta quelli gratuiti. Sarà perché il prezzo a metro quadro è troppo alto e tu come cliente in vendita non rendi abbastanza?
Gli orari
Ho aspettato l’orario a stampa pensando di dover fare un faticoso lavoro di confronto di tempi per verificarne l’allungamento (grazie al Freccia Rossa), che mi era evidente solo per un paio di tratte che ho dovuto percorrere di recente. Niente di tutto questo. Le pagine dell’orario nuovo parlano da sé. Tre direttrici tra le più importanti del paese, la Torino-Venezia-Trieste, l’adriatica e la tirrenica sono semplicemente scomparse. La direttrice padana, per cui fu combattuta la prima guerra mondiale, non senza difficoltà – il general Cadorna l’ha scritto alla Regina/ se vuoi veder Trieste te la mando in cartolina, si cantava – non è neppure più segnata tra le linee a lunga percorrenza. La Torino-Milano, che aveva il suo regionale ogni ora, forse croce dei pendolari ma anche comoda e flessibile risorsa per chiunque non fosse obbligato a bollare il cartellino all’arrivo, è affidato a 7 Freccia rossa, all’inizio, a metà e alla fine della giornata di lavoro, a due Intercity superstiti, a un treno internazionale della notte. Restano le rassicuranti testate dei regionali: ma non esaltatevi; a differenza di prima, quasi nessuno percorre l’intera tratta, salvo in tarda serata.
A Milano, per la linea padana e per quella adriatica, tutto si ferma. Gli unici treni passanti proseguono per Bologna-Firenze-Roma-Napoli-Salerno. Sono spariti i treni che hanno fatto Torino – o almeno la Fiat – tra il 1950 e il 1980: il Venezia-Torino, il Bari-Torino, il Napoli-Torino. I treni della notte, i comodi Intercity che ti portavano senza cambiare in poco più di 7 ore a Pescara o a Roma, e in 10 a Bari o a Salerno, passando da Piacenza-Bologna e da Alessandria-Genova, rispettivamente, non ci sono più. Devi passare da Milano anche per andare a Bari o a Roma. Certo poi, se funziona, il Milano-Roma fa in fretta, ma il tempo complessivo aumenta per i cambi e per l’allungamento dei percorsi. Tra Pescara e Bari praticamente l’adriatica si interrompe. Ci sono pagine di colonne vuote tra Pescara e Bari, occupate dai regionali solo da Foggia in giù, con la eccezione degli espressi e degli intercity della notte e di un solitario Eurostar city da Milano. La tirrenica è ancora più desolata. Se l’adriatica si può prendere solo da Milano ed è percorsa solo fino a Pescara, la tirrenica ha solo treni regionali, con l’eccezione dei treni della notte e di un solitario intercity.
Si può obbiettare che non è colpa di Trenitalia se la Fiat non attrae più immigrati. Ma è una obbiezione molto debole perché i pendolari lunghi sulla tirrenica ci sono eccome, così come ci sono da tutta la costa adriatica verso Bologna. Altrimenti i treni che la percorrevano non sarebbero stati sovraffollati fino a ieri, almeno nei fine settimana. Ma anche se dalla Puglia e dalla Campania venissero in su solo le vecchie e i bambini parenti di quelli che hanno fatto Torino e Milano, dovrebbero aver diritto anche loro di viaggiare, proprio perché non hanno l’alternativa della macchina. E’ questa la differenza tra un servizio pubblico e una occasione di far soldi.
I costi e i prezzi
Su Repubblica del 9 gennaio Alessandro Penati riporta dai bilanci della Fiat e dell’Eni i costi al chilometro della Mi-To (54 milioni), della Bo-Fi (60 milioni), della Mi-Bo (33 milioni) e si chiede perché anche i tratti in pianura, confrontabili, costino 3 volte (Mi-Bo) o 6 volte (Mi-To) i 10 milioni al chilometro di Francia, Spagna, Giappone. Io mi chiedo perché chi non abita a Milano o a Torino debba pagare considerevolmente di più di un mese fa per muoversi nella rete, impiegando tempi anche maggiori e cambiando molte più volte. La velocità media del Freccia rossa non è alta: 150 km/h sulla Mi-To; 180 km/h sulla Mi-Bo. L’aumento dei costi è dovuto non solo al prezzo del Freccia rossa ma all’aumento della lunghezza del percorso per arrivare all’unica dorsale superstite. Quindi c’è anche un maggior consumo. I costi della linea ad alta velocità, l’aumento del costo della maggior parte dei percorsi, non sono stati affrontati per migliorare la rete, per viaggiare più velocemente e comodamente, per spostare viaggiatori dalla macchina al treno, ma per pagare gli interessi alle banche, il servizio ai general contractors, i risarcimenti ai comuni, i materiali, le macchine il lavoro… e quant’altro, viene da pensare. La mia domanda è: perché abbiamo accettato tutto questo?
Un tracollo culturale
Ci siamo convinti che il mondo materiale non esiste; che la geografia non esiste; che la densità della popolazione, delle città, dei paesi non conta nulla. Contano i sodi e la tecnica, che possono tutto. Soldi da guadagnare; soldi da spendere. Siamo un paese montagnoso, densamente popolato, con una fitta rete di paesi e città, spesso bellissime, qualche volta disastrate, ma in ogni caso piene di gente. Non siamo la Spagna, che è un deserto, o la Francia, che ha la densità di popolazione della Toscana meridionale, senza le colline. I nostri treni, per essere utili, devono essere molto interconnessi, fermarsi spesso, andare più piano che altrove. Abbiamo ceduto, quasi tutti, alla volontà di alcuni grandi gruppi e delle banche che li hanno finanziati di fare ciò che gli risultava più comodo e più redditizio: buchi per terra, grandi gettate di cemento, viadotti, treni veloci. Con loro profitto e nostro danno. Anziché usare treni flessibili, adatti al territorio, come il Pendolino, che avevamo prodotto e vendiamo – lo ha osservato il Manifesto un po’ di tempo fa – abbiamo deciso di usare questi treni qui, che sono in grado di andare in fretta ma passano il tempo soprattutto fermi, o a rallentare e ripartire, perché, anche andando a passi troppo lunghi per noi, fanno passi troppo corti per loro. E’ ora di svegliarci, di porre almeno il problema. Anche perché andare un po’ più in fretta di così, non in termini di velocità massima ma di tempi di percorrenza reali da punto a punto, non ci dispiacerebbe.
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