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“Le voci degli altri”. Per Rossana Rossanda

Rossana Rossanda va ricordata come una delle protagoniste della traiettoria del comunismo italiano, estromessa dal PCI, critica dell’Unione Sovietica, fondatrice del Manifesto, esempio di una ricerca di ascolto delle voci che emergono nella società.

Una comunista italiana

È  morta a Roma il 20 settembre 2020 Rossana Rossanda, una delle ultime protagoniste della straordinaria stagione del partito comunista italiano, voce lucida e critica del suo declino e dissoluzione. La variante italiana del comunismo è stata negli anni 1943–1969 uno dei capitoli più felici e produttivi di tutte le esperienze comuniste, nonostante la sua fine ingloriosa e addirittura banale nell’anno 1991. Nei suoi ricordi, “La ragazza del secolo scorso” (Einaudi, 2005), Rossana descrive, con la  distanza del nuovo millennio, le condizioni particolari nelle quali questo partito poteva diventare il partito comunista più grande dell’Occidente. La storia politica di Rossana inizia nel luglio 1943. La promettente studentessa di filosofia e storia dell’arte percepisce nella caduta di Mussolini il crollo di un ordine accettato come una normalità e mai messo in dubbio. Si sente tradita dal silenzio degli altri e dalla propria indifferenza, oltre che ignoranza. Il suo ideale di una autodeterminazione degli esseri umani è solo un’illusione? In un viale a Milano vede partigiani impiccati agli alberi. Attraverso Antonio Banfi, suo professore, di cui sposerà il figlio, si mette in contatto con chi si ribella, quindi con il partito comunista del quale non sa ancora altro. Diventa staffetta partigiana e trasporta informazioni, medicinali e armi per la Resistenza. 

Neanche il dopoguerra la riconcilia con la “normalità”. Lavora nella casa editrice Hoepli e scopre le fabbriche, i lavoratori, i bassi salari e, dopo l’aprile 1948, la lotta contro la repressione della protesta sociale, la lotta per la democrazia. Senza mai nascondere la sua cultura, comincia a lavorare nel partito. Una funzionaria che dirige la Casa della cultura di Milano dove collaborano con i comunisti, i socialisti e altre forze di sinistra. Una sede aperta alle tendenze estetiche e filosofiche moderne mentre il partito segue ancora i comandamenti di Zdanov e del “realismo socialista”. Milano non è Roma e nel modesto sotterraneo di Via Borgogna si sentono discutere Calvino, Fortini, Lukacs, Nono, Sartre, Strehler, Vittorini e altri. A Roma la direzione del partito si accorge di lei. Nei primi anni ‘60 Togliatti la chiama a far parte della redazione di Rinascita, del comitato centrale e come deputata del Parlamento (“per pagare uno stipendio in meno”, scrive Rossana). 

Da Milano a Roma, una nuova vita. Ma sempre di più come parte di un corpo sociale vivente nel quale lei, donna, qualche volta si scopre anche corpo estraneo. Senza fare complimenti, osservando le forme rituali dei rapporti, Rossanda affronta “i vecchi”, i comunisti andati già negli anni Venti in galera o in esilio, che vivono ora in una specie di solitudine ieratica. Di loro Rossana dubita “che andassero mai a cena insieme”. Lei invece fa parte di chi si è formato nella Resistenza. Già verso la fine degli anni Trenta una nuova generazione ha cercato il contatto con il partito, per antifascismo e non per la propria condizione sociale. Dice Rossana: “Non conosco lo sfruttamento, ma solo il lavoro, non conosco l’alienazione, ma solo la fatica; non conosco l’umiliazione, ma solo le sconfitte, quelle che non fanno abbassare il capo. Questo è un destino privilegiato e non cessa di esserlo se metto le mie energie – ho perfino vergogna a dirlo, tanto è diversa dalla lotta dello spossessato – al servizio d’una causa di liberazione di tutti. La mia storia politica è lo sforzo di mettere me stessa da parte, per paura che, se no, non riuscirei ad ascoltare le voci degli altri”. Se il partito è uscito rafforzato da più di un decennio di repressione poliziesca e giudiziaria brutale e se ha superato anche la crisi del 1956 e le rivelazioni sui crimini di Stalin, non lo deve solo allo spirito di sacrificio di migliaia di compagni, ma soprattutto alla sua capacità di raccogliere le voci di chi vuole un’altra Italia. 

Rossana va a Roma per dirigere la sezione cultura del partito. Ha una concezione del suo lavoro tutta diversa dal suo predecessore, Alicata. Cerca di sgomberare i vecchi concetti e di eliminare le tracce staliniste entrate nel linguaggio e nei comportamenti. È  scettica verso qualsiasi canone proletario dell’arte e si meraviglia degli artisti che aspettano le direttive del partito. Il grande tema dell’agonia della civiltà contadina che pervade tutta la letteratura italiana sin dagli anni Trenta non la interessa particolarmente. Ma non dimenticherà mai le voci delle “donne alte diritte nero vestite  e con lo scialle in capo“ sentite nel 1949 al convegno del mezzogiorno e delle isole tenutosi a Napoli. Più tardi sarà solidale con le lotte di liberazione del Terzo mondo, ma non le può vedere come via verso un futuro comunista concepito da lei come capovolgimento del mondo borghese al suo culmine. Crede in una via italiana al socialismo perseguito dal partito con una “strategia delle riforme“: riforma agraria, controllo statale della produzione di energia, riforma dello Stato e istituzione delle Regioni, programmazione e coordinamento dei grandi investimenti pubblici e privati. Almeno sulla carta questi obiettivi sono gli stessi del programma proposto dai socialisti nel 1962 al governo del centro-sinistra. Ma già nel 1964 è chiaro che la realizzazione di questo programma sarà possibile solo parzialmente e a piccoli passi. Quale posizione prendere dunque verso i governi di centro-sinistra? Rossana fa parte di chi si ritrova dopo la morte di Togliatti (agosto 1964) sulle posizioni di Pietro Ingrao e delle sue riflessioni su un “nuovo modello di sviluppo” di fronte a un neocapitalismo aggressivo e un proletariato in rapida trasformazione. Rossana è anche d’accordo con Ingrao nel porre la questione della democrazia interna al partito e nel chiedere di rendere pubbliche  le discussioni della direzione. 

Il Manifesto e la radiazione dal partito

L’11° congresso del PCI tenutosi nel gennaio 1966 tarpa le ali alla sinistra nel partito prima ancora che possa prendere il volo. La destra intorno a Amendola e Napolitano, che guida la maggioranza quasi come una corrente, accusa Ingrao di “frazionismo”. Quanto basta per indebolire la sua posizione e la sua linea. Ingrao tiene un discorso importante applaudito dalla platea, ma non dà battaglia. Chi gli sta politicamente vicino o è ritenuto tale (Barca, Magri, Pintor) perde i suoi incarichi o viene trasferito. Rossana viene rimossa da tutte le funzioni nel partito, ma rimane nel comitato centrale. Terremoti appena percepibili, note a piè di pagina nella grande storia del partito, eppure significativi in quanto segnalano quale direzione il dibattito e la ricerca di nuove vie non debbano prendere. Intanto ovunque nel mondo la coesistenza pacifica e la crisi di Cuba, il conflitto russo-cinese, il Concilio vaticano II e, sempre più importante, la guerra nel Vietnam impongono la ricerca di nuove strade. In questa situazione il PCI adotta una linea “flessibile”, ma non coglie la profondità della crisi, anche perché blocca le esplorazioni “di sinistra” appena queste emergono.

Rossana non si indigna per le misure prese contro di lei, ma per il fatto che il suo lavoro politico venga bloccato e ritenuto inutile. Offre la sua collaborazione a Giulio Einaudi, ma  con sua grande sorpresa anche la casa editrice “non ha bisogno” di lei. Segue gli avvenimenti politici con grande passione, le università, le fabbriche e la discussione internazionale di un marxismo che si rinnova. Con “l’anno degli studenti” aumenta l’agitazione anche nel partito. Il maggio 1968 vede a Parigi le ultime barricate della lunga tradizione rivoluzionaria francese. A differenza dei comunisti francesi, il PCI non rompe con i movimenti di protesta e appoggia nell’autunno caldo gli operai che occupano le fabbriche, trovano nuove forme di rappresentanza sindacale e si pongono il problema di dirigere la produzione. In Italia quella del 1969 fu “la più grande e colta lotta operaia del dopoguerra”. In nessun altro Paese il conflitto con il capitale ha raggiunto un tale livello. Il PCI non ne assume mai la guida, ma protegge le lotte, cosa che spiega la durata straordinaria della contestazione nelle università e nelle fabbriche, un conflitto che declinerà solo verso la fine degli anni Settanta.

Gli avvenimenti del 1968-69 in Cina, Vietnam, Italia, Parigi e Praga da una parte sono il risultato della lunga storia del movimento operaio, dall’altra  la mettono in questione. Tutte le certezze e speranze vanno riviste alla luce di questi fatti. Questa è la ragione del titolo scelto per la nuova rivista che Rossana fonda nella primavera del 1969 insieme a Luciana Castellina, Lucio Magri, Eliseo Milani, Aldo Natoli, Valentino Parlato, Luigi Pintor e altri. Il primo numero del mensile Il Manifesto esce a fine giugno e deve essere ristampato due volte raggiungendo una tiratura di 55.000 copie. Nonostante questo successo, o forse anche a causa di esso, il PCI procede il 27 novembre, in una seduta del comitato centrale, alla radiazione di Natoli, Pintor e Rossanda (con solo tre astensioni e tre voti contrari).  Il comitato centrale del PCI non aveva, pare, cose più importanti da fare in un momento in cui nelle strade e nelle fabbriche la lotta del proletariato assumeva le forme più moderne e più avanzate. Una sproporzione spettacolare, difficilmente spiegabile con la ragione, anche se si conoscono tutti i dettagli: la pressione dei sovietici, l’esigenza di disciplina e la coesione istintiva degli iscritti, la paura, da parte della direzione, dell’impazienza delle masse, la situazione internazionale, etc.. Una “separazione” a cui, fatto inconsueto nei partiti comunisti, segue una lunga e franca discussione. Ma non si può dimenticare che con questa decisione il partito mutilò deliberatamente la propria capacità di ascolto. Per evitare una sfida che non sapeva gestire? I partiti del movimento operaio occidentale con la loro grande organizzazione non sono mai riusciti a rispondere in modo adeguato alla creatività delle masse quando esplode dopo una lunga preparazione con una forza quasi naturale. In Italia nel giro di pochi mesi nasce un panorama inimmaginabile di gruppi, gruppetti, riviste e giornali, iniziative e organizzazioni nel quale il gruppo del Manifesto si distingue per la sua ricchezza culturale dovuta ai suoi legami con il passato e alla sua apertura verso il futuro. E’ stata Rossana con il suo lavoro nel giornale quotidiano Il Manifesto a garantire questo equilibrio difficile, nonostante tutte le lacerazioni.     

 Le nostre difficoltà con i paesi socialisti

Per il primo anniversario dell’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia a Praga, il numero 4 della rivista Il Manifesto (settembre 1969) pubblica un articolo di Lucio Magri con il titolo “Praga è sola“. Protesta contro la “normalizzazione” e chiede di “aiutare esplicitamente la formazione di una alternativa di sinistra, rivoluzionaria, all’interno del campo socialista”. È  stato in particolare questo articolo a provocare l’ira di quasi tutti i dirigenti del partito, anche se il PCI un anno prima aveva protestato con una certa durezza contro l’invasione, ma senza mettere in dubbio la “solidarietà” con l’Unione sovietica. Questa rimane un punto fermo per la direzione del partito, che teme l’anatema di Mosca, ma anche per una gran parte degli iscritti, permeati ancora da una fede quasi religiosa. La questione del carattere del socialismo dei Paesi socialisti sorta nel 1956 diventa ora un tabù. Ad eluderla serviva la tesi del ruolo oggettivamente progressista dell’URSS sulla scena della politica mondiale. Tesi facilmente sostenibile di fronte ai delitti della politica USA a Cuba, in Vietnam e in Africa. Il partito manterrà questa posizione ambigua fino all’intervista del 15 giugno 1976 nella quale Enrico Berlinguer fece sua la scelta di stare nel campo della NATO, dichiarando infine, nel 1981, esaurita la spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre. 

In un articolo pubblicato nella rivista tedesca Kursbuch 30 (dicembre 1972) “I paesi socialisti: un dilemma per la sinistra occidentale“ Rossana cerca di chiarire la questione del rapporto con la Rivoluzione d’ottobre e i suoi risultati. L’esperienza di mezzo secolo dimostra che il rifiuto radicale di questa rivoluzione finisce quasi sempre in un cieco anticomunismo, e la sua difesa ad oltranza in una gabbia ideologica. Esiste un’analisi marxista che sfugga a questo dilemma? Quale critica può aprire una strada d’uscita a sinistra anziché a destra? E ancora: la sinistra occidentale che non ha prodotto nessuna rivoluzione quale bisogno ha di una critica del “socialismo reale”? Non può farne a meno, sostiene Rossana. Perché lo sviluppo del movimento operaio nell’Europa occidentale e soprattutto in Italia ha raggiunto negli anni 1967-1969 la soglia di un processo di trasformazione rivoluzionaria. A questo punto la critica del “socialismo reale”, della sua genesi e dei suoi risultati, è connessa indissolubilmente con la lotta per un altro e nuovo modello di sviluppo delle forze produttive che spezzi la complicità del movimento operaio occidentale con il capitale. L’esempio di Jean-Paul Sartre, sostiene Rossana, dimostra il nesso esistente tra i due compiti di critica e di costruzione. Per Sartre il Maggio parigino è stato “un momento di speranza di una rivoluzione che trovi la sua misura in se stessa”. Ma il rapido fallimento di questa speranza ha portato anche alla perdita della certezza di un antagonismo proletario concreto e dell’idea di una contraddizione insanabile. “Quel che rimane di non-borghese in un mondo del tutto integrato è uno spazio minimo“. Oggi questa frase scritta 50 anni fa rivela tutta la sua drammaticità. E spiega perché Rossana ha continuato sempre a insistere sulle sue radici comuniste della Terza internazionale.

È  stato doloroso per lei non poter negare il carattere politico delle Brigate rosse, unica formazione terroristica nata nelle fabbriche del Nord. “Una storia triste e terribile, ma in qualche misura nostra“ mi ha scritto nella copia del libro “Brigate Rosse. Una storia italiana“ che contiene l’intervista fatta da lei e Carla Mosca a Mario Moretti, l’assassino di Aldo Moro. Lei non ha mai aspettato che i problemi si risolvessero da sé o che la storia stessa li superasse. È sempre stata partecipe. Senza riguardo verso se stessa, ha colto nel terrorismo delle Brigate rosse la caricatura spaventosa di una lungamente nutrita e frustrata speranza.

Heiner Müller ha affrontato con brutalità questa situazione. Una sera a Montegiove ascoltiamo con Rossana la sua lunga poesia “Aiace ad esempio”. Lei  non dice una parola. Forse è ferita dalla assoluta mancanza di pietà. Venti anni dopo, nell’ultimo trasloco da Parigi a Roma, riscopre il piccolo volume di Müller. Me lo fa vedere con un sorriso. 

“Le mie amiche femministe“ 

La strada sulla quale Rossana cerca di superare l’orizzonte del movimento operaio storico si apre verso la fine degli anni ’70 con il suo incontro con la seconda ondata del femminismo italiano. Decenni dopo la sua iscrizione al PCI e ormai radiata, Rossana vive di nuovo l’esperienza di far parte di un corpo sociale: ascolta le voci, sente i bisogni e desideri, condivide le vicende delle donne. Il “contatto fuggevole e permanente, fatto di volti mai visti, riconosciuti, sguardi, linguaggi” la trasforma profondamente, le fa sentire una nuova coscienza di sé come donna. Comprende in modo nuovo di non essere solo un individuo, ma una donna. Tuttavia precisa subito che questa non è la sua identità primaria e tanto meno esclusiva. Sulle donne in Parlamento a Ingrao, presidente della Camera, rivolge la semplice domanda: “C’è mai stato, nella tua esperienza di presidente della Camera e prima di deputato, un momento in cui ascoltando una deputata t’è venuto da pensare: ecco, questo un uomo non l’avrebbe mai detto?”. Perché anche le donne, pur emancipate, usano nei loro discorsi politici un codice maschile impresso in tutta la nostra civiltà e ormai sedimentato nel linguaggio e nel pensiero. Rossana stessa, ancora nel PCI, si comportava come un uomo. Che cosa possono portare di diverso le donne? Come suona un discorso profondamente femminile? Come cambierebbe la politica? Rossana propone  che leggi che riguardano le questioni di genere, ad esempio l’inseminazione artificiale, siano discusse e votate da una Camera composta metà da uomini e metà da donne. Rifiuta un separatismo radicale, un certo tipo di correctness e i risentimenti del vittimismo ai quali risponde con battute come: “Le grandi donne della letteratura ce le hanno date gli uomini”. O anche “Non sono stata mai umiliata. Ho avuto due uomini molto simpatici. Mi è andata bene”.

Come si può superare l’esclusione millenaria delle donne dalla polis e la loro negazione come soggetto politico? Come si può liberare lo sguardo femminile, riconoscerlo e valorizzarlo? Uno sguardo che resta chiuso in un suo spazio “autonomo” o disposto ad accettare la complementarità di quello maschile? Come si trasforma radicalmente l’ordine stabilito del genere e della società?  Quando gli uomini saranno capaci di farsi elevare dall’eterno femminile, come auspicava Goethe? Il movimento femminista americano ha dato degli impulsi fondamentali affrontando queste domande al di fuori dalla tradizione del movimento operaio. Questo è stato incapace di andare fino in fondo alle questioni dei rapporti asimmetrici tra i generi, di analizzare la radice del dominio e del potere nel controllo maschile del corpo della donna. Si può sviluppare questa impostazione già accennata da Engels in un lavoro comune tra uomini e donne? È  possibile attaccare contemporaneamente sia la civiltà della classe dominante sia quella del genere dominante? Sono domande che Rossana ha scoperto grazie alle sue “amiche femministe”, le quali tuttavia hanno cercato delle risposte e impostato la ricerca in modo talvolta molto diverso. Ma più rapidamente delle risposte si sviluppano i fatti che rendono obsoleti i ruoli familiari e i rapporti tra i generi. Da quando le donne hanno la possibilità di controllare la loro fertilità, dice Rossana, “Faust è da pensare senza Margherita”.

Dice: «Io femminista non ho voluto essere», ma «il femminismo ha cambiato alcune categorie del mio pensare». Impara ad articolare il suo “io”, sempre messo da parte per paura di non poter ascoltare le voci degli altri, in un nuovo modo. Racconta la storia togliendole il suo involucro neutrale. È  storia sua, sono parole e frasi che hanno attraversate il suo corpo. Così gli anni ’80, anni di riflusso e di crisi del movimento operaio, diventano per lei un periodo molto produttivo come dimostrano le sue collaborazioni alle riviste delle sue amiche – Orsaminore (1981-1983) , Memoria (1981-1991), Reti (1987-1992), Lapis (1987-1996), Sofia (1996). Ma la questione principale del secondo femminismo, l’inclusione della donna nella polis attraverso l’agire comune di ambedue i sessi rimane aperta. 

 Gli ultimi anni

Negli anni ’90 Rossana frequenta i colloqui organizzati dall’associazione “Itinerari e incontri” anche più volte all’anno nell’Eremo di Montegiove e respira l’aria fresca dei dialoghi tra cristiani, ebrei e non credenti (“come i monaci amano placidamente chiamarci”), dialoghi “aperti tra Dio e la storia” sui grandi temi del presente e anche sulle “ultime cose“. Traduce Kleist (Goethe le è antipatico). Può capitare di sentirla discutere con passione giovanile i misteri della luce nella pittura veneziana o il sentimento tragico del Cinquecento con i suoi conflitti senza pacificazione. Un ictus la colpisce e Rossana deve subire anche la morte di Karol, compagno amato.  

Nello spazio politico svuotato dell’era Berlusconi, Rossana racconta nella sua autobiografia la prima fase della sua vita politica finita con la radiazione dal partito comunista nel momento culminante delle lotte operaie dell’Autunno caldo. Non uscirà mai una seconda parte, un’altra storia in un’altra epoca. Una ragione potrebbe essere la difficile contraddizione tra l’involuzione e svalorizzazione della politica e una vita individuale ricchissima. Nel corso di cambiamenti epocali su scala mondiale l’Italia è diventata una provincia, percorsa da “partiti leggeri”, sventolanti le spoglie del passato. In tempi di un oblio organizzato Rossana insiste su criteri e orientamenti sicuri. Il Manifesto, quotidiano di cui dal 1971 è stata l’anima, perde il suo carattere di strumento di riflessione collettiva. Si arriva alla rottura con una redazione infastidita dalla sua insistenza. A partire dal 2011 scrive per Sbilanciamoci! sulla crisi dell’Unione europea, in tutto una sessantina di articoli su “La rotta d’Europa”. Durante una visita a Parigi nel settembre 2016 per parlare di Aldo Natoli e della sua autodefinizione di “comunista senza partito” Rossana ci dice: “Se sei comunista devi tentare di cambiare la società, se non la cambi, e non sei represso, non hai fatto quel che ti aveva mosso. Io non ho infatti un bilancio positivo della mia vita”. La sua disponibilità non si esaurisce mai e Rossana rimane il punto di riferimento dei frammenti rimasti della sinistra e delle sue iniziative. Offre con generosità i suoi doni senza appartenere a nessuno, dicono le sue amiche.

La folla che la accompagna in Piazza Santi Apostoli il 24 settembre sa di salutare con lei, la radiata, l’ultimo testimone militante di una grande storia. Una lunga lista di discorsi che evocano il passato. Ma le voci che Rossana aveva sentito nel lontano 1943 ormai hanno cambiato suono e colore nel corso della storia. Forse anche la direzione da cui provengono e si percepiscono. Penso che i versi dedicati da Paul Celan a Rosa Luxemburg e alla sua sconfitta valgano anche per lei: “TU GIACI tutta tesa all’ascolto”.

La versione tedesca di quest’articolo appare nel prossimo numero della rivista ‘Das Argument’, numero 336, annata 63, 2021, Heft 1.