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Le ricadute del Covid-19 sulla società

Con la pandemia, stili di vita e abitudini sono stati modificati per decreto. Ma i provvedimenti adottati si collocano in un contesto compromesso da 30 anni di neoliberismo, che ha favorito lo smantellamento del tessuto sociale e il venir meno di un’etica della responsabilità fondata su relazioni solidali.

Un gusto un po’ amaro/ di cose perdute
Di cose lasciate/ lontano da noi
Dove il mondo è diverso/ diverso da qui
(Gino Paoli, Sapore di sale, 1963)

Che lo stato di salute del capitalismo non fosse eccellente era evidente dagli acciacchi segnalati nella cartella clinica, che il decorso del paziente subisse un drastico e repentino peggioramento era imprevedibile, soprattutto che fosse indotto da una causa che non è immediatamente economico-sociale qual è il Covid-19. Fin dall’inizio la diffusione dell’epidemia è stata presentata e prevalentemente gestita come una questione esclusivamente virologica ed epidemiologica.

Eppure, la diffusione del Covid-19 non è solo una questione virale, pone problemi che oltrepassano l’ambito strettamente medico e riguardano l’economia, l’ecologia, le relazioni, l’organizzazione sociale, la psicologia. Di essi si deve tener conto non solo nella ricerca delle concause della diffusione del virus, ma anche nel prospettare strategie di salute pubblica per il suo contenimento immediato, e interventi non solo medici, per altro necessari, di gestione sociale durante e dopo l’epidemia.

Vivere nelle società incerte

Le prospettive delle società contemporanee sono incerte e imprevedibili a causa dell’intreccio stretto tra più variabili: crisi sociali, ecologiche, finanziarie e pandemie e si confrontano con capacità limitate e contraddittorie di controllo politico da parte delle élite di potere. L’epidemia, per dirla col sociologo Franco Ferrarotti, ci ha ricordato che ogni ordine sociale è sempre molto fragile: “noi diamo per scontata l’esistenza e la resistenza di una società, ma basta un invisibile virus per azzopparla e determinare una contrazione del sociale” («Il Messaggero», 10 marzo 2020).

Il Covid-19 ha accelerato la storia introducendosi a sorpresa nello scenario economico-sociale con effetti immediati sui sistemi macroeconomici e sulla vita quotidiana di più di tre miliardi di persone. Si tratta di una uscita dalla normalità inimmaginabile fino a ieri, una rottura delle regole che avviene non a causa di un’azione sovvertitrice e intenzionale di masse oppresse, ma come conseguenza di regole nuove imposte per decreto dall’emergenza. Un fenomeno che assomiglia a uno sciopero generale mondiale, ma senza le masse in sciopero.

Ferrarotti invita a riflettere che, come il passato a volte ha dimostrato, è nei momenti di crescita, di sviluppo socioeconomico, di prosperità che si presenta l’occasione per ottenere mutamenti, anche radicali dell’ordine sociale. Invece, “oggi, questo improvviso blocco della nostra vita sociale, ci fa riflettere sulla fragilità della nostra società”, ci lascia la sensazione di una perdita per qualcosa che davamo per scontato, un rimpianto per quel passato prossimo che magari fino a ieri avevamo criticato.

Troppi esperti frettolosamente prospettano scenari su come sarà il mondo dopo la pandemia; forse sarebbe il caso di soffermarsi di più sul qui ed ora, cioè sulle dinamiche che il contagio sta muovendo per capire come affrontarle e come prepararsi al dopo che inevitabilmente verrà, senza cadere nell’“estremismo” storicista secondo il quale le azioni del presente disegnano compiutamente il dopo e lo cambiano radicalmente. In questo momento è difficile immaginare il futuro perché lo choc pandemico ha interrotto bruscamente il legame che esisteva tra divenire come proiezione del passato.

Scenari del durante e dopo

Lo scenario che si prospetta in quella “terra di mezzo” tra prima e dopo è raccontato da numeri che non promettono nulla di buono. È vero che sapevamo di vivere in una società incerta, ma altra cosa è vivere l’incertezza come esperienza personale diretta e immediata, che è quello che sta accadendo.

L’Organizzazione internazionale del lavoro stima che a oggi 2,7 miliardi di lavoratori, l’81% della forza lavoro mondiale, sono direttamente o indirettamente toccati dal blocco delle attività economiche. Di qui a pochi mesi 197 milioni perderanno il posto di lavoro (il 6,7% del totale) come conseguenza della caduta dell’attività economica. In Italia la disoccupazione crescerà al 12,7% quest’anno. Altri milioni di lavoratrici e lavoratori subiranno drastici riduzioni di stipendi e ciò incrementerà il numero delle famiglie indigenti, secondo i dati Oxfam si prevede un aumento di mezzo miliardo di nuovi poveri nel mondo.

Una ricaduta negativa si avrà anche sul lavoro femminile. Oggi, nel mondo, la forza lavoro occupata nel settore sociosanitario è per il 70% costituita da donne, secondo i dati forniti dall’Organizzazione mondiale della sanità. In Italia, ad esempio, dei 605.194 addetti nel settore sanitario, il 66,5% sono donne: 43% circa nella categoria dei medici, 77,5% tra gli infermieri. Se consideriamo le professioni di cura in senso lato dalla sanità, all’istruzione, dall’assistenza alla persona, alla grande distribuzione, pulizie, abbiamo due terzi dei posti di lavoro occupati da donne.

Tutte le previsioni si basano sull’ipotesi che le cose migliorino nel breve periodo e la pandemia si ritiri ma, ciononostante, sarebbe difficile recuperare presto e facilmente le posizioni perdute. Ci vorrà tempo e nel frattempo, per milioni di lavoratori e lavoratrici e delle loro famiglie si porrà la questione della sopravvivenza minima quotidiana. I dati macroeconomici segnalano la violenta salita della febbre depressiva. Secondo il Fondo Monetario Internazionale siamo di fronte alla peggiore recessione dopo la Grande depressione. Nel 2020 la produzione mondiale subirà un decremento del 3%: -5,9, negli Stati Uniti, -6,5 nel Regno Unito, -5,2% nel Giappone, -6,2 in Canada, -7,5% nell’area euro: Italia -9,1, Spagna -8, Germania -7, Francia -7,2. Stimati in crescita invece Cina +1,2% e India +1,9%.

 Stato di emergenza

Di fronte al collasso le borghesie devono reagire e lo fanno con i mezzi potenti di cui ancora dispongono perseguendo l’obiettivo del ritorno alla normalità ora scombussolata. Per riconquistare la normalità devono ristabilire il controllo sul funzionamento del meccanismo economico inceppatosi e su tutti i comparti che compongono la società, messi in crisi caotica dalla fibrillazione dei flussi di circolazione di merci e persone, dovuta anche ai provvedimenti emergenziali adottati dai governi che impongono severe misure per contenere la movimentazione delle persone (state a casa!), limitando le libertà garantite dalle costituzioni democratiche.

Che l’attuazione di misure emergenziali sia legata a un progetto consapevole di costituire uno Stato populista autoritario, rendendo permanente l’eccezione, è un’ipotesi discutibile che ha in sé aspetti contraddittori. Basti ricordare che quasi tutti i governi non sono prontamente intervenuti con misure d’emergenza, molti hanno rimandato ed esitato nel timore di inceppare la libertà di movimento di merci, capitali, lavoratori e consumatori. Ciò ha significato un ritardo nell’adozione di misure di contenimento del contagio, con gravi conseguenze in molti paesi, tra questi l’Italia. Le borghesie capitalistiche non hanno alcun tornaconto a costringere le persone a casa anzi, le loro associazioni imprenditoriali premono per la fine immediata del contingentamento delle “libertà di movimento” per consentire alle persone di tornare a lavorare e consumare.

In un articolo comparso sul quotidiano «Avvenire» del 21 marzo 2020, Lucia Capuzzi ha scritto che, secondo una legge della fisica, quando un corpo viene sottoposto a una pressione, mantiene la deformazione anche quando la tensione si allenta o termina. Per analogia quindi si può affermare che le deformazioni subite dal corpo sociale sotto la pressione dello stato di emergenza rimarranno anche quando lo stato di eccezione terminerà.

Le classi dominanti potranno farne buon uso se mai si presenterà il problema del controllo della protesta di massa, per disciplinare e ordinare la libera circolazione della forza lavoro e dei consumatori, non certo però per tenerli chiusi in casa. Se sarà necessario potranno preparare l’uscita dalla crisi avvalendosi anche delle misure di emergenza per fronteggiare la possibile presa di coscienza di classe di milioni di lavoratori in tutto il mondo i quali sperimentano sul proprio corpo, con le loro famiglie, il significato di essere classe sfruttata nel capitalismo e, allo stesso tempo, essere la classe su cui poggia l’impalcatura dell’attuale modo di produzione.

Si tratta di un’esperienza “pesante” che non inevitabilmente conduce subito a una coscienza politica perché troppo grande è stato il processo di diserbamento del pensiero critico, del negare il presente per costruirne l’alternativa. Potenzialmente però milioni e milioni saranno le persone deluse dal sistema che li ha precipitati in questa crisi. Potrebbero costituire la base di un movimento di massa volto a formulare e promuovere un nuovo modo di organizzare la vita sociale e di fare politica.

Tuttavia, per la realizzazione di questa potenzialità una condizione appare imprescindibile: non si diventa massa critica in grado di togliere al capitalismo il dominio di cui gode, o quantomeno ridurlo drasticamente, senza darsi un’organizzazione stabile e ben articolata perché, come sosteneva Gaetano Mosca, le minoranze organizzate prevalgono sempre sulla massa disorganizzata. E oggi i processi riorganizzativi incontrano difficoltà nuove: come costruire e dare visibilità alla protesta ora che i mezzi tradizionali quali manifestazioni, assemblee, riunioni pubbliche non sono possibili? Come collegare le varie proteste e come renderle soggetto politico collettivo?

Rompete le relazioni

Avevamo già vissuto altri eventi catastrofici, senza però sperimentarli tutti in prima persona. Anche questa epidemia in una prima fase l’abbiamo pensata come ad una cosa lontana, destinata a svilupparsi in un “altrove” indefinito. Invece nel mondo globalizzato è bastato un nulla perché un virus propagato da un pipistrello cinese arrivasse fino a casa nostra. Sapevamo che il mondo era globalizzato, ora apprendiamo che esso comporta la reciprocità immediata di una condizione comune. Avevamo sentore della fragilità della vita ma l’attribuivamo ai popoli poveri che vivevano in territori lontani, attraversati da guerre, fame, epidemie.

Sapevamo della morte perché la consumavamo con le immagini della Tv e dei social, ma non ci apparteneva, era lontana. Poi, senza preavviso, il virus ci ha posti di fronte all’imprevedibilità della vita, al limite che avevamo rimosso o smarrito, malgrado la condizione umana sia di per se stessa limitata dalla morte e vulnerabile in quanto soggetta a malattie e sofferenze di vario genere. Siamo stati “obbligati” a ripensarci esseri mortali, non più mantenuti nell’eterna gioia del vivere dal fitness, da sicurezze ricavate da stili di vita sani capaci di conservarci “diversamente giovani”.

Siamo vissuti in una società di massa dove agli individui era data la possibilità di entrare volontariamente o meno in contatto con altri, di essere parte di una collettività meccanica o per scelta. Ora tutto è più difficile perché la sopravvivenza immediata è data dal dividersi, isolarsi gli uni dagli altri, escludendo forme di aggregazione sociale di vecchio stampo. Dove, per ragioni di servizio o di lavoro, non è possibile, l’aggregazione meccanica avviene con dovute cautele, distanze e diffidenze verso le persone più prossime. Non che prima le relazioni brillassero per reciprocità e solidarietà anzi, l’individualismo regnava sovrano nelle relazioni sociali della folla solitaria, conseguenza delle politiche neoliberiste dell’ultimo trentennio le quali hanno posto le condizioni per lo smantellamento del tessuto sociale solidale e di classe, mercificato sentimenti e relazioni a scapito della costruzione di affinità elettive.

I provvedimenti adottati per fronteggiare l’emergenza si inseriscono in un contesto relazionale già compromesso. Stili di vita, abitudini e costumi collettivi, nel breve giro di pochissimi giorni, sono stati modificati per decreto. Si vive in un tempo sospeso, imposto, immobile sul presente in un’atmosfera resa ansiosa a causa dell’isolamento e minacciati da oggetti e persone che percepiamo come possibili agenti di contaminazione. Le persone accettano di convivere in un ambiente sociale considerato minaccioso e insicuro adattandosi alle circostanze.

Ciò che in altro contesto sarebbe stato inaccettabile diventa accettabile: la paura, vera o percepita che sia, induce le persone ad affidarsi a chi nell’insicurezza e nel pericolo li ha cacciati, giustificando le azioni e le ritorsioni di chi domina. La paura, presunta o indotta, favorisce la diffidenza verso gli altri, si configura come paranoia, cioè uno stato d’angoscia e di timore che non ha neanche bisogno di motivazioni reali, che allontana ancor di più le persone. In una situazione di panico caotico si scatena la voglia di ritorno all’ordine, si desidera il rientro nei parametri della vecchia normalità, ma il pensare che forse non sarà più come prima ci tormenta.

Si scopre che manca l’etica della responsabilità nel farsi carico delle conseguenze sugli altri dei propri comportamenti, ma questo è ciò che la cultura liberal-capitalista ha insegnato a tutti i livelli: prima di tutto l’individuo, la società intesa come solidarietà tra simili, di “specie” non esiste, esiste l’individuo. La responsabilità solidale si regge solo su prescrizioni e sanzioni normative, richiamandosi a un generico quanto vacuo buonsenso. Mancando questo, la legittimazione dei provvedimenti adottati dall’autorità viene attribuita alla necessità dettata dallo stato di emergenza, reale e immaginario si mescolano diffondendo senso di impotenza, frustrazione e depressione.