Il viaggio nelle idee sbagliate che infestano l’economia – quelle che Paul Krugman chiama “idee scarafaggio” – ci porta alla disuguaglianza. Un fenomeno che dura da vent’anni
Molti commentatori sostengono che la diseguaglianza è un effetto della crisi: in realtà la diseguaglianza in Italia viene da lontano. Guardiamo l’andamento dell’indice di Gini – che misura la disuguaglianza complessiva tra i redditi delle persone – tra il 1977 e il 2010, ripreso da Inequality Watch (con dati Istat):
Se dopo la crisi degli anni ’70 e per tutti gli anni ’80 (quelli della spesa pubblica generosa, si dice) ci furono disparità ridotte, dal 1991 in avanti l’aumento della diseguaglianza è stato costante. Vero che dal 2004 la tendenza si era invertita, ma con la crisi il peggioramento è ricominciato. Pochi giorni fa la stessa Banca d’Italia denunciava che nel 2011 la diseguaglianza è ulteriormente aumentata, in un processo di deterioramento cominciato nel 1992. La diseguaglianza crescente non è, quindi, un effetto della crisi odierna ma viene da lontano.
Secondo quanto riferisce l’Ocse nel suo ultimo rapporto sulla distribuzione del reddito percepito, l’indice di Gini per l’Italia nel 2010, pari a 0.46, era secondo solo a quello degli Stati Uniti (vicino allo 0.53) e simile a quello del Portogallo. Questi sono numeri da Paesi in via di sviluppo. Il reddito disponibile (cioè al netto di tasse e sussidi) presenta un quadro migliore, con un indice attorno a 0.33 e l’Italia dietro a Cile, Israele, Stati Uniti, Portogallo e Gran Bretagna, tra i Paesi Ocse. In ogni caso, però, la disuguaglianza dei redditi in Italia è notevolmente superiore alla media dei Paesi Ocse.[1] Nel 2008, il reddito medio del 10% più ricco degli italiani era di 49,300 euro, dieci volte superiore al reddito medio del 10% più povero (4,877 euro) con un aumento della disuguaglianza rispetto al rapporto di 8 a 1 di metà degli anni ’80. Non solo, ma in Italia esiste una notevole disparità tra Nord e Sud in termini di reddito e la diseguaglianza nella sua distribuzione è più pronunciata al sud, il che significa che chi ha un reddito basso e vive al sud ce l’ha molto più basso di chi è ricco ma anche di chi ha un reddito basso al nord. Le cose non cambiano se consideriamo la ricchezza. “Il reddito non basta per due famiglie su tre”, La Repubblica titolava qualche giorno fa, “Bankitalia: in vent’anni povertà triplicata tra i giovani e raddoppiata tra gli affittuari”. Non è dunque solo la “crisi” che ha portato a questo, ma il risultato di un processo cominciato già da tempo e che è venuto consolidandosi nel corso dell’ultimo ventennio. Mario Pianta ha descritto efficacemente questa situazione nel suo recente Nove su dieci (Laterza, 2012) e ne ha anche parlato nel suo ultimo contributo del 19 marzo 2013 su Sbilanciamoci. Maurizio Franzini, in un libro del 2010, ha parlato invece di diseguaglianze inaccettabili: “il coefficiente di Gini era al 29 per cento nel 1991 ed è saltato al 34 per cento nel 1993. Successivamente, si sono avute limitate oscillazioni e una situazione di stazionarietà della disuguaglianza che si è protratta per circa un quindicennio, fino alla crisi del 2008″. Dopo di che, la situazione ha ricominciato a peggiorare. Non un fatto episodico, dunque. Abbiamo visto con le ultime elezioni a quali risultati questo malessere può portare: il paese sopravvive dentro al tunnel dove l’unica luce che vede in fondo è quella delle Cinque Stelle. Sono anni che chi guarda al mondo sa che questa è una tendenza, che l’Italia non è un caso a sé: ma non era forse “we are the 99%” lo slogan di Occupy Wall Street? Ora anche Stiglitz parla de “l’1% che detta legge”, e meno male: il problema è che la malattia ha radici lontane.
Alla diseguaglianza si aggiungono povertà, indigenza, esclusione sociale. Stiamo parlando di Europa, non di Africa. Secondo gli ultimi dati disponibili del nostro Istituto di Statistica, “più di una famiglia su dieci vive in condizioni di povertà relativa e una su venti in condizioni di povertà assoluta”: si tratta di 8.2 milioni di individui, che vivono in maggioranza al sud e nelle isole. I dati sulla povertà calcolati sulla spesa per consumi sono confermati da quelli sul reddito: secondo l’Istat, nel 2010, la metà delle famiglie italiane ha un reddito inferiore a 24.444 euro (2.037 euro mensili lordi). Ma, dice il trito adagio, la povertà diminuirà grazie alla crescita (parola ormai quasi magica): fateci lavorare, dateci credito, gridano le grandi e piccole imprese, e ricominceremo ad assumere. Eppure, la delocalizzazione non solo è una “moda” ma una necessità, la de-industrializzazione una realtà ormai consolidata e si continua ostinatamente ad affermare che il problema in Italia è il costo del lavoro. L’inutile querelle sull’articolo 18 e la “riforma” Fornero non hanno spostato di un millimetro la questione, sul campo. Come diceva una battuta che ha circolato per qualche tempo, “con la riforma Fornero diventerà così facile licenziare lavoratori che li assumeranno per questo”.
Il fatto è che dopo anni di jobless growth è cominciata la fase della jobless stagnation. L’offerta di lavoro ha continuato a crescere senza incontrare la sua domanda, generando così disoccupazione crescente, mai così alta in Italia e in Europa come negli ultimi tempi. A gennaio 2013, secondo i dati Istat, la percentuale dei “senza lavoro” è salita all’11,7%. Un anno fa, il tasso di disoccupazione era al 9,6%. Anche questo è un trend che viene da lontano. Una disoccupazione che era scesa attorno al 4% nei primi anni ’60 e che era salita fino a più del 15% dopo il ’95, si era lentamente abbassata fino all’8% nei primi anni del nuovo secolo: oggi coinvolge 3 milioni di persone, con un tasso del 38.7% tra i giovani (15-24 anni). Il reddito nazionale ha smesso di aumentare, l’occupazione cala, la disoccupazione aumenta, e “i ricchi sono sempre più ricchi”.
Sul versante dell’istruzione le cose non sono meno allarmanti. L’Istat ci dice che: “In Italia l’incidenza della spesa in istruzione e formazione sul PIL nel 2010 è pari al 4,5%, valore inferiore a quello della media UE a 27 (5,5%). Nel 2011 il 44% circa della popolazione in età compresa tra i 25 e i 64 anni ha come più elevato “titolo di studio conseguito” la licenza di scuola media inferiore come titolo di studio più; tale valore risulta molto maggiore della media UE a 27, pari al 26,6%. La quota dei più giovani (18-24 anni) che ha abbandonato gli studi prima di conseguire il titolo di scuola media superiore è pari al 18,2% contro il 13,5% dei Paesi UE. Infine, “il 20,3% dei 30-34enni ha conseguito un titolo di studio universitario (o equivalente). Nonostante l’incremento che si osserva nel periodo 2004-2011 (+4,7 punti percentuali), la quota è ancora molto contenuta rispetto all’obiettivo del 40,0 per cento fissato da “Europa 2020”.”
La crisi dunque ha colpito le classi popolari e subalterne, la parte bassa della distribuzione, non quella alta che, anzi, in fondo non sta poi così male. Studi mostrano che il reddito dell’1% più ricco della popolazione è aumentato un po’ ovunque in questi anni. Il mercato dei beni di lusso non conosce crisi e se c’è un settore che in questi ultimi tempi non ha sofferto troppo in Italia è quello dell’alta moda, delle auto sportive e del design di lusso. Insomma, siamo un Paese che arranca, che non investe nell’istruire i suoi giovani, che sono disoccupati e sempre più poveri. Certo non siamo soli, non siamo gli unici, i paesi del sud Europa non se la passano bene, lo sappiamo, perché pagano anni di generosa spesa pubblica. Anche questa storia, è poi vera? Oppure è un’altra “idea-scarafaggio” da cui liberarsi? E’ proprio vero che abbiamo avuto anni di spesa pubblica alta e generosa? Ed è proprio vero che sia questa all’origine del nostro debito?
Spesa pubblica e spesa sociale
La spesa pubblica italiana non è particolarmente più alta che negli altri paesi europei (si veda il grafico di fonte Eurostat): in percentuale sul Pil (dati 2010), era in linea con la media ed era più bassa che in molti altri paesi, inclusa la Francia, il Belgio e i rigorosi paesi nordici (Danimarca, Finlandia e Svezia).
Mediamente, in Europa (Ue a 27), più di metà di quella spesa (54.7%) è “sociale” – comunemente chiamata welfare –, ovvero copre spese per la protezione sociale e la sanità. L’Italia, nel contesto europeo non fa “peggio” degli altri e non è nemmeno particolarmente generosa. La tabella qui sotto, dalla stessa fonte Eurostat, è illustrativa. Tra il 2002 e il 2010, la spesa per protezione sociale in Italia è passata dal 17.6 al 20.4 per cento, in linea con la media dell’Eurozona e inferiore a Danimarca, Francia, Finlandia, Svezia, Austria e persino Germania. Questa voce include sussidi alla disoccupazione e alla famiglia, sussidi di povertà ed altri benefici, oltre alla spesa per pensioni. La spesa sanitaria, nello stesso periodo, è cresciuta di poco più di un punto percentuale, passando dal 6.3 al 7.6 per cento del PIL, in linea con la media e inferiore a quella di molti Paesi.
La spesa per sussidi alle imprese, infrastrutture e altre voci economiche tra il 2002 e il 2010 è invece scesa, in Italia, dal 4.1 al 3.8 per cento del Pil, mentre la media Ue è aumentata dal 4.2 al 4.9. Lo stesso dicasi per la spesa per istruzione e cultura, che nello stesso periodo è passata dal 5.6 al 5.3 per cento del Pil, contro una media europea in aumento dal 6.3 al 6.8 per cento del Pil.
Per contro, la spesa italiana in altre voci (servizi generali, difesa, etc.), pari all’11.6 per cento del Pil nel 2010, è più alta della media europea (attorno al 10 per cento). La spesa pensionistica, nel Paese che ha la popolazione più longeva di tutta la Ue, è certo alta (è pari al 60 per cento della spesa sociale totale, come la Polonia), più alta della media europea (45 per cento), ma è passata solo dal 14.5 al 16.0 per cento del Pil tra il 2002 e il 2012.[2] La Germania, ad esempio, che ha una spesa sociale più alta dell’Italia, la destina per il 40 per cento alle pensioni e per un altro 40 per cento alla sanità. Lo stesso vale per Francia, Spagna, Svezia, Danimarca e Finlandia. La spesa sociale nel suo complesso non è quindi più alta in Italia che non in Europa. È forse questa la ragione del debito pubblico?