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Le imprese salveranno il mondo?

L’ideologia della “responsabilità sociale d’impresa” promette di affrontare molti problemi ambientali e sociali attraverso il protagonismo aziendale. Si tratta di un pericolo per la democrazia: le scelte collettive devono restare il risultato di processi politici e sociali.

“Don’t just stand there! Undo something! (Non restate lì fermi! Disfate qualcosa!)” Era questa l’esortazione di Murray Weidenbaum, chief economic adviser del presidente Ronald Reagan negli anni della reaganomics. Il qualcosa da disfare – l’undoing – era tutto ciò che potesse rappresentare un limite o ostacolo al libero funzionamento dei mercati (la regolamentazione, le norme, i sindacati, i salari minimi). 

Ai nostri giorni, si va facendo strada una nuova forma di undoing che segue due percorsi. Da un lato è diretta contro l’idea che gli obiettivi sociali e le scelte che riguardano il benessere collettivo siano esito di processi politici conflittuali e condivisi attraverso i quali una società definisce i suoi valori e la sua nozione di desiderabilità sociale. Dall’altro è diretta verso il simultaneo rafforzamento del ruolo delle imprese proprio in ciò che riguarda non solo la tutela di certi valori, come ad esempio l’ambiente, ma anche la stessa definizione degli obiettivi sociali.    

Crediamo che uno degli strumenti dell’undoing dei nostri giorni sia l’ideologia della Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI, dall’inglese Corporate Social Responsibility). È questa l’idea secondo la quale è auspicabile che le imprese si facciano volontariamente carico di adottare comportamenti virtuosi nei confronti della società in generale e non solo dei propri azionisti e che, inoltre, siano portatrici di valori positivi per la società: ciò che tradizionalmente è stato compito dello Stato come espressione della volontà collettiva. Secondo la prospettiva offerta dalla RSI, dunque, le imprese dovrebbero far proprio un senso molto più ampio dello scopo della loro attività e passare dalla semplice massimizzazione del valore per gli shareholder alla produzione di valore per gli stakeholder e di opportunità per la società in generale. 

A questo proposito, il politologo inglese Colin Crouch ha affermato che si tratta di “[…] una sfida al monopolio statale sul regno dei valori collettivi […] da parte di imprese che rifiutano il confinamento di sé stesse a comportamenti di mercato che non hanno a che fare con la dimensione morale”. Crouch coglie esattamente nel merito quando sottolinea che il cuore del problema è che attraverso questo modo di vedere le cose passa l’idea che le imprese entrino nel dominio morale avocando a sé un ruolo del tutto nuovo. 

In questa prospettiva l’idea di RSI porta con sé una trasformazione potenzialmente dirompente nelle relazioni tra mercato, società e Stato. La crescita senza precedenti del potere delle imprese e la simultanea riduzione del poter regolatorio dello Stato gettano una luce sinistra sulla nozione di cittadinanza come la conosciamo e assegnano alle imprese un nuovo ruolo di agenzia che sfugge a qualsiasi mediazione sociale.

La RSI sta trasmettendo l’ideologia che le imprese abbiano la legittimità per espandere l’ambito del loro agire ben oltre la produzione e commercializzazione di beni e fino al dominio politico e morale. Si auspica infatti che esse assumano funzioni di definizione degli obiettivi e di regolamentazione, sia direttamente sia contribuendo alla definizione delle regole insieme alle agenzie governative. Le imprese, ad esempio, possono dedicare enormi risorse agli aiuti umanitari, ma questo di solito si accompagna alla cattura normativa e politica che modifica il modo in cui le politiche sono inquadrate a vantaggio delle stesse aziende (si veda ad esempio il rapporto GRAIN 2021 sull’influenza della Bill & Melinda Gates Foundation sulla politica alimentare mondiale).

Sebbene l’idea di responsabilizzazione sociale delle imprese possa apparire come un significativo progresso rispetto all’impresa che si occupa solo di massimizzare il proprio profitto, dietro di essa può nascondersi in realtà il tentativo di sottrarsi alle regole stabilite da una collettività per raggiungere certi obiettivi condivisi ed acquisire un sempre maggiore potere di influenza nella determinazione degli obiettivi sociali e delle regole stesse. Dunque, invece di limitarsi a competere nei mercati, all’interno di un determinato insieme, auspicabilmente neutrale, di regole e utilizzare l’innovazione tecnologica e organizzativa per ottenere un potere di mercato temporaneo e contendibile, le imprese possono trovare migliori opportunità di profitto a lungo termine se ottengono risultati politici e sociali, se contribuiscono alla definizione di obiettivi e regole invece di adeguarsi a quelli esistenti, se acquisiscono un potere che consente loro di influenzare e plasmare le preferenze dei consumatori, se agiscono come un attore politico anziché solo economico. 

Ovviamente le imprese hanno sempre cercato di esercitare una forte influenza sul potere politico, ma la RSI rappresenta, a nostro avviso, un’ideologia che fornisce una nuova legittimità a questo allargamento della sfera di influenza politica e culturale delle imprese, facendo credere che sia nell’interesse della società in generale e rendendola condivisibile e auspicabile anche da settori della società tradizionalmente su posizioni critiche.

Inoltre la RSI si accompagna allo sviluppo della globalizzazione, per cui le grandi imprese multinazionali stanno guadagnando un potere politico globale mentre la maggior parte dei Paesi, con la sola eccezione di poche superpotenze, ha il proprio potere politico confinato all’interno di un ristretto dominio nazionale. La concorrenza normativa e fiscale tra i Paesi, insieme alla facile rilocalizzazione e alla riduzione dei costi di trasporto e comunicazione, stanno conferendo alle grandi multinazionali un enorme potere contrattuale. Finora questa competizione è stata una corsa al ribasso, dove lo scopo era ottenere regolamenti più flessibili. In effetti alcune imprese possono rendersi conto che, al contrario, normative più stringenti e politiche ambientali e sociali più avanzate possono conferire loro un vantaggio competitivo in particolari regioni della frontiera tecnologica (vedi la recente polemica sui motori diesel nel mercato automobilistico).

Qualche anno prima dell’esortazione di Murray Weidenbaum a non starsene fermi ma a disfare qualcosa, l’economista Milton Friedman pubblicava sul New York Times un articolo in cui si scagliava in modo molto violento contro l’idea che le imprese dovessero prendere sulle loro spalle qualsiasi tipo di responsabilità sociale o di interesse verso il benessere della società o del pianeta o di qualsiasi cosa che non fossero gli azionisti e il profitto. “La responsabilità sociale dell’impresa è aumentare i propri profitti” era il titolo del suo articolo. In esso, Friedman affermava fra l’altro “che le imprese abbiano una ‘coscienza sociale’ ed assumano seriamente le proprie responsabilità nel migliorare il lavoro, ridurre le discriminazioni, evitare l’inquinamento o altro, è una parola d’ordine che va bene per riformatori che propagandano niente altro che puro e genuino socialismo”. E concludeva: “gli uomini di affari che parlano in questo modo sono marionette involontarie delle forze intellettuali che stanno minacciando il fondamento stesso della nostra società libera”.

Rebecca Henderson, docente di punta all’Harvard Business School, nel suo recente libro Nel mondo che brucia: Ripensare il capitalismo per la sopravvivenza del pianeta (LUISS University Press), propone una visione opposta. Henderson sostiene che il capitalismo ha, sì, avuto enormi successi nel promuovere la prosperità, la libertà e l’innovazione per milioni di persone, ma negli ultimi decenni ha perso buona parte della sua capacità di generare benessere sociale a partire dalle scelte individuali. Ciò è dovuto, secondo Henderson, a due ordini di problemi. Il primo sono le esternalità derivanti dai fallimenti del mercato: queste sono sempre esistite ma hanno guadagnato una nuova centralità negli ultimi decenni. Il degrado ambientale e il cambiamento climatico sono solo due dei molti possibili esempi. Dall’altra parte, il capitalismo contemporaneo soffre di rilevantissimi problemi di governance. In particolare, ed è questo il punto centrale della RIS, la cosiddetta ideologia degli shareholders sta spingendo le grandi corporations ad esternalizzare quanto più è possibile i costi delle esternalità in nome della massimizzazione del profitto.

Henderson sostiene che “il primo passo per reinventare il capitalismo non è abbandonare il shareholder value ma piuttosto abbracciare l’idea che le imprese abbiano anche il dovere di promuovere la salute dell’ambiente naturale, sociale ed istituzionale sul quale il sistema capitalistico poggia”.    E aggiunge: “Se le imprese esistono per massimizzare la prosperità e il benessere sociali, hanno il dovere morale di agire come se, ad esempio, le emissioni di monossido di carbonio avessero un prezzo anche se un simile prezzo non esiste. Se le imprese esistono per massimizzare libertà e opportunità, allora hanno la responsabilità di investire nella salute e nell’istruzione pubblica o di persuadere il governo a farlo”.

In linea di principio, la netta differenza tra la dottrina di Friedman e quella di Henderson si basa su due diverse visioni del mercato. 

La dottrina di Henderson abbraccia una visione più sfumata dei mercati. Henderson sostiene che azionisti e manager si stanno sempre più rendendo conto che per raggiungere la sostenibilità e la redditività a lungo termine, il benessere dei lavoratori, dei clienti e della società in generale, è essenziale. Il cambiamento climatico sta aumentando i rischi e creando costi enormi per le imprese. I lavoratori sottopagati e infelici avranno prestazioni inferiori come lavoratori e spenderanno meno come consumatori. L’aumento delle disuguaglianze ostacola lo sviluppo dei mercati e può causare disordini sociali e instabilità che possono destabilizzare le imprese. Questa prospettiva a lungo termine è sistemica e sarà probabilmente sostenuta dagli uomini d’affari piuttosto che dai politici che, al contrario, sono sempre più confinati a una ricerca ristretta di consenso a breve termine. 

Crediamo che entrambe le dottrine siano errate e sosteniamo che, nonostante le loro differenze, entrambe soffrano della stessa negligenza di considerazioni della politica e del potere. Da un lato Friedman ha una visione idealizzata di un mercato nel quale le imprese si limitano a produrre e vendere all’interno di un perimetro di regole neutre e indipendenti. Dall’altro lato Henderson rivendica un’estensione del potere delle aziende sulla società ben oltre il dominio che Friedman desiderava per un sistema di mercato equilibrato ma, con una visione ancor più idealizzata, assume che le imprese siano in grado di esercitare tale potere non per perseguire i propri interessi ma quelli sociali. E’ evidente che entrambe le posizioni si basino su di una sottovalutazione della sottostante questione politica e di distribuzione del potere: Friedman immagina un mondo in cui le imprese sono prive di potere politico ma sono confinate al dominio dell’efficienza economica, Henderson immagina un mondo in cui le imprese acquisiscono un sempre maggiore potere politico ma magicamente lo esercitano non nell’interesse proprio (come farebbe ogni altro agente) ma in quello collettivo. Riteniamo questa seconda posizione altrettanto irrealistica ma ancor più pericolosa di quella di Friedman.  

L’economista russo-britannico Abba Lerner ha riassunto vividamente questa generalizzata negligenza di ogni considerazione della politica e del potere nella teoria economica scrivendo che “una transazione economica è un problema politico risolto. L’economia si è guadagnata il titolo di regina delle scienze sociali scegliendo come dominio i problemi politici risolti”. Al contrario, solo se la società rende espliciti quali sono gli interessi in gioco e quali soggetti ne sono portatori e pone dei limiti ben definiti e trasparenti alla loro sfere di influenza potrà tentare di risolvere i propri problemi in modo socialmente accettabile.