La spesa militare russa è passata dai 23 miliardi di dollari del 2000 ai 67 del 2020: 10 volte quella dell’Ucraina, ma un undicesimo di quella statunitense. Gli Usa hanno conquistato nuovi mercati ai danni di Mosca. E dopo 50 anni l’ipotesi di una escalation nucleare è diventata più concreta.
Da settimane il mondo vive sull’orlo di una nuova guerra mondiale che potrebbe scaturire dall’aggressione russa ai danni dell’Ucraina e da un suo successivo allargamento in tutta Europa.
Carri armati, artiglieria, aerei, sistemi missilistici e una vasta serie di altri armamenti vengono adoperati in questo conflitto che vede il gigante russo usarli contro il piccolo Stato vicino, che si difende accanitamente al punto che Mosca sta richiamando mercenari da varie parti del mondo per stroncarne la resistenza. In Occidente s’invoca la no-fly zone in alcune piazze, senza comprendere che sarebbe un atto di guerra aperta che darebbe il via al terzo conflitto mondiale, con conseguenze inimmaginabili. Sarebbe il momento di considerare non emotivamente lo scontro in atto per cercare le vie possibili per una trattativa che deve avvenire in ambito multilaterale. L’attacco russo contro l’Ucraina mostra tutti i limiti di un sistema di sicurezza internazionale inadeguato, con l’ONU sistematicamente depotenziata e con logiche basate prevalentemente sulla forza armata invece che sulla condivisione. Anche nel Terzo Millennio, dopo le esperienze drammatiche di due guerre mondiali, si continua a cercare la supremazia militare nei confronti di altri paesi sia potenziale sia fattuale, come dimostra l’invasione organizzata da Mosca contro Kiev, due stati che sono comunque presenti sul mercato internazionale delle armi.
L’export militare
La superpotenza russa mostra difficoltà nel conquistare l’Ucraina nonostante il grande arsenale militare di cui è dotata. Eppure, analizzando i dati forniti dal SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) rileviamo che la Russia è anche il secondo esportatore mondiale di maggiori sistemi d’arma, mentre l’Ucraina è solo all’undicesimo posto dopo l’Olanda.
Mosca ha esportato maggiori sistemi d’arma per 5.271 milioni di dollari nel 2001 per arrivare a 8.676 milioni di dollari nel 2011 per poi crollare negli anni seguenti a 3.203 milioni di dollari nel 2020; di contro Kiev, partita con 511 milioni di dollari nel 2001, ha raggiunto nel 2012 l’apice con ben 1.501 milioni di dollari (quarto a livello mondiale, soprattutto verso l’Africa) per scendere poi a 115 milioni di dollari nel 2020.
Rimanendo nel settore dell’export di armi gli Stati Uniti, nota il SIPRI, hanno conquistato nuovi mercati ai danni di Mosca, passando dai 5.589 milioni di dollari del 2001 ai 9.372 milioni di dollari del 2020. Nel ventennio 2001-2020 hanno aumentato in modo significativo il loro export anche Francia, Germania, Italia, Spagna e Olanda. Solo i paesi occidentali presenti nella top 10 degli esportatori coprivano il 61,4% del mercato mondiale nel 2020.
Kiev, dopo la cosiddetta seconda rivoluzione arancione, ha ridotto le sue esportazioni concentrandosi invece sul rafforzamento delle sue forze armate, mentre Mosca con disappunto ha visto ridursi il numero dei suoi clienti a causa della concorrenza su questo particolare mercato. Tra l’altro non va dimenticato che sino alla caduta del governo ucraino filorusso del presidente Viktor Janukovyč nel 2013 l’industria bellica ucraina esportava soprattutto importanti componenti per le forze armate russe, che si sono trovate a dover reperire altrimenti questi materiali.
Le forze armate russe, costituite dopo la dissoluzione dell’URSS, hanno subito una serie di riforme con l’avvento di Putin al potere, dapprima con l’adozione del piano Ivanov poi con il Programma Statale di Armamenti (GVP 2020) e con la nuova GVP 2027, firmata da Putin nel dicembre del 2017. La spesa militare russa è passata dai 23,5 miliardi di dollari del 2000 ai 66,8 del 2020: dieci volte quella dell’Ucraina, ma un undicesimo di quella statunitense.
Analogamente alle forze armate anche l’industria bellica russa ha risentito della dissoluzione dell’URSS, esportando in un prima fase praticamente il 60% della sua produzione, sino a che nel 2000 con il decreto presidenziale n°1834 venne creata la Rosoboronexport, che diverrà nel 2007 ufficialmente l’unico ente preposto all’export bellico.
Nel settore, nonostante i tentativi di riforma, rimangono però notevoli criticità dovute a varie cause come l’innovazione limitata, l’inefficienza produttiva e la mancanza di macchinari più moderni, connesse alle sanzioni internazionali e all’interruzione dell’import dall’Ucraina già accennato. Il SIPRI stila una classifica mondiale delle top 100 industrie del settore, dove nel 2020 sono presenti numerosissime aziende statunitensi (oltre 40), ma appena nove russe che praticamente tutte hanno perso posizioni in questa classifica rispetto all’anno precedente.
Tra i principali clienti di Mosca nello scorso decennio troviamo Algeria, Azerbaijan, Bielorussia, Cina, Egitto, Emirati Arabi Uniti, India, Iraq, Kazakistan, Birmania, Siria e Vietnam, che – relativamente ai maggiori sistemi d’arma – hanno acquistato prevalentemente aerei, navi, veicoli blindati, missili, sistemi di difesa aerea.
Le armi della guerra
Nel conflitto in corso Mosca ha dislocato un vasto arsenale di armamenti, sia nel settore terrestre, sia in quello aereo e navale. Nel primo campo troviamo i carri armati T 7283, i T 90A e i T80BVM, nonché i veicoli blindati da combattimento BMP-2, BMD 3, BMD 4M, BTR 82A, trasporto truppe corazzati Typhoon, il veicolo blindato anfibio MT-LB, veicoli leggeri Tigr e Rys (Iveco Lince). Nel campo dell’artiglieria risultano presenti anche sistemi semoventi 2S19 Msta, 2S7 Malka, 2S3 Akatsiya, 2S23 Nona-SVK e cannoni 2A18 D 30, oltre ai sistemi lanciarazzi BM 21 Grad, BM 27 Uragan, TOS 1A Buratino con armi termobariche e il missile balistico a corto raggio 9K720 Iskander-M. Nel settore aereo vengono usati missili da crociera Kh 101 da Tu 95MS, e aerei 25SM3 Frogfoot, Su 30SM e Su 34, mentre la marina ha dislocato la Chernomosky Flot delle forze navali di Mosca. La Flotta del Mar Nero ha in forza sei sottomarini a propulsione convenzionale classe Kilo Project 636.3 (B-261 Novorossiysk, B-237 Rostov Na Donu, B-262 Start Oskol, B-265 Krasnodar, B-268 Velikiy Novgorod, B-271 Kolpino), che ha parte attiva nell’attacco nell’area del Mar nero.
Da parte ucraina molti mezzi corazzati posseduti alla fine dell’URSS furono venduti, in particolare i T 72 (soprattutto in Africa), ritenuti inferiori ai T 64 e T 80, usati (e molti persi) nel conflitto nel Donbass. Nuovi mezzi corazzati sono poi stati prodotti modernizzando i T 64 e T 80 di cui si hanno ora nuove versioni, a cui si è aggiunta la produzione di veicoli blindati trasporto truppe quali il BTR 4E Butsefal o il veicolo MRAP Varta variamente armati. A questi sistemi poi si aggiunge una vasta pletora di armi controcarro dalle più piccole alle più grandi. La componente aerea risulta dotata di aerei datati come i Mig 29 Fulcrum, i Su 24 Fencer, i Su 25 Frogfoot e i Su 27 Flanker, a cui vanno aggiunti i droni turchi Baykar Bayraktar TB2, già usati con successo in vari conflitti. In questi giorni di guerra, infine, una considerevole quantità di armi e di munizioni sta provenendo dai paesi occidentali, tra cui armi anticarro, antiaeree, missili terra-aria, obici, veicoli blindati, fucili automatici e da cecchino, elmetti, pistole, fucili, mitragliatrici ecc. La Polonia si è detta disponibile addirittura ad inviare anche degli aerei MiG, ma Washington ha declinato questa offerta dato che essa sarebbe passata attraverso una base NATO e Biden, al momento in cui scriviamo, sembra tentare di evitare un allargamento del conflitto con il diretto coinvolgimento della NATO.
La minaccia nucleare
Su tutto questo conflitto convenzionale, in cui – come sempre – vengono coinvolti massicciamente anche i civili, aleggia anche lo spettro della guerra nucleare, a seguito dell’allerta nucleare ordinata da Putin. Ad oggi essa sembra essere più una minaccia politica che reale, ma di fronte ad un’escalation incontrollata del conflitto la semplice ipotesi appare più che preoccupante perché si supera quella tradizionale linea di demarcazione tra guerra convenzionale e nucleare, che per più di mezzo secolo non era stata oltrepassata in base al concetto della MAD (Mutual Assured Destruction). La MAD riconosceva di fatto che una guerra nucleare non avrebbe avuto né vinti né vincitori, causando il suicidio collettivo dell’umanità. La realizzazione di bombe nucleari meno potenti e più precise, cosiddette tattiche o di teatro, permette d’immaginare di poterle utilizzare in aree ristrette e con danni “relativamente” contenuti all’interno di un conflitto convenzionale, ma di fatto avvicinandosi minacciosamente a quello nucleare su larga scala.
Ad oggi il cosiddetto club nucleare è costituito da nove paesi, di cui cinque sono membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (USA, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna) e firmatari del Trattato di Non Proliferazione TNP, e quattro (Israele, India, Pakistan e Corea del Nord) sono non firmatari del TNP. Tutti insieme detengono circa 12.700 testate all’inizio del 2022 e circa il 90% di tutte le testate nucleari sono di proprietà di Russia e Stati Uniti, che hanno ciascuno circa 4.000 testate operative nei loro arsenali. Hans M. Kristensen e Matt Korda della Federation of American Scientists rilevano che “delle 12.700 testate nucleari del mondo, più di 9.400 sono negli arsenali per l’uso da parte di missili, aerei, navi e sottomarini. Le restanti testate sono state ritirate ma sono ancora relativamente intatte e sono in attesa di smantellamento. Delle 9.440 testate negli arsenali militari, circa 3.730 sono schierate con forze operative (su basi missilistiche o bombardieri). Di queste, circa 2.000 testate statunitensi, russe, britanniche e francesi sono in allerta, pronte per l’uso con breve preavviso”.
Riguardo le testate nucleari russe i due esperti della FAS aggiungono che tutte le testate sono dichiarate presenti “in deposito centrale, sebbene alcuni siti di stoccaggio possano essere vicini a basi con forze operative”. Si pensa che molte testate non strategiche obsolete siano in attesa di smantellamento. Come forze strategiche offensive la Russia ha 1.185 ICBM (missili balistici intercontinentali) e 800 SLBM (missili lanciabili da sottomarini), nonché 580 bombe d’aereo per un totale di 2.565 a fronte di 1.912 testate non strategiche, mentre 1.500 sono in attesa di smantellamento. L’attuale totale di tutte le testate nucleari russe giunge quindi a 5.977.
Non va dimenticato che in Europa occidentale vi sono altre due potenze nucleari (Francia e Gran Bretagna), ognuna con un proprio arsenale composto da alcune centinaia di testate, a cui vanno aggiunte le bombe statunitensi B61, «armi nucleari tattiche», che non sono oggetto di trattati bilaterali sulla riduzione degli armamenti in vigore tra Usa e Russia. Attualmente sono in servizio le versioni B61-3, B61-4 e B61-10, costruite tra il 1979 e il 1989, con varie opzioni di potenza da 0.3 a 170 chilotoni e sono custodite sotto il controllo americano degli US Munitions Support Squadrons (Munss).
Se ne stimano presenti attualmente 100 dislocate in cinque paesi (firmatari del Trattato di Non Proliferazione) in sei basi: Italia (35 bombe totali nelle basi di Ghedi e Aviano), Germania (15 bombe nella base di Büchel), Belgio (15 bombe nella base di Kleine Brogel), Olanda (15 bombe nella base di Volkel) e Turchia (20 bombe nella base di Incirlik). Ad oggi tali bombe possono essere trasportate dagli aerei F-16 e Tornado, nonché dagli F35 (tecnologia stealth, invisibili ai radar) di cui stanno iniziando le consegne. Verranno ammodernate nel nuovo modello B61-12, per le quali gli Stati Uniti spenderanno con il programma LEP circa 12 miliardi di dollari.
Questa dislocazione di armi nucleari tattiche statunitensi sul territorio europeo è oggetto di un’antica disputa tra Washington e Mosca, la quale ne contesta la presenza facendo presente che le sue sono sul proprio territorio nazionale e non sul territorio di eventuali alleati.
La percezione russa della minaccia motivata dal cosiddetto allargamento della NATO verso Est è legata anche alla dislocazione degli armamenti nucleari (presenti, come già detto, anche negli arsenali nazionali francese e britannico) e questo comporta una reazione muscolare che trova la sua espressione massima e più violenta nella politica putiniana, come dimostrato già precedentemente nei conflitti in Cecenia, Georgia e Siria, per ricordarne solo i principali.