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Lavori e lavoratori nell’Italia del coronavirus

Dalle imprese che riconvertono le produzioni per fornire mascherine, gel e prodotti sanitari, all’industria militare che non si ferma. Dalla crisi delle cooperative sociali alla necessità di un nuovo Statuto dei lavoratori. Quali sono le emergenze del lavoro ai tempi della pandemia di coronavirus.

La pandemia cambia gli equilibri, produce ripensamenti e aggiustamenti, determina un nuovo elenco dei valori. È presto per dire quali saranno gli effetti economici dello stop forzato alla produzione. E quale mercato del lavoro uscirà da una crisi che si manifesta come la più grave della storia contemporanea. Difficile fare pronostici sulle migliaia di posti di lavoro che si perderanno e sull’impoverimento di vasti strati di lavoratori dipendenti e autonomi. È ancora più difficile ragionare in astratto sui possibili filoni di una nuova economia e quindi delle occasioni concrete che si creeranno per un’occupazione sostenibile anche dal punto di vista ambientale. Ma ci sono primi segnali.

Piccole riconversioni

Qualche spunto si può provare a indicare registrando alcuni esempi di riconversioni industriali in corsa. Alcune imprese hanno iniziato a riconvertire parte delle produzioni. Come la Miroglio, azienda tessile di Cuneo, o la Bc Boncar di Varese specializzata in luxury packaging o le imprese di cosmesi che hanno già riconvertito parte della produzione per fornire mascherine, gel disinfettati e dispositivi medici. Perfino la Ferrari ha annunciato di poter adattare i suoi reparti alla produzione delle valvole e dei componenti necessari per i respiratori destinati alle terapie intensive.

Un discorso a parte (ma non è questo il luogo per farlo) si dovrebbe aprire sull’industria degli armamenti che anche in Italia continua a essere un settore molto fiorente dell’economia con un’industria che non conosce crisi, oltre 5 miliardi di euro di esportazioni nel 2018. La realtà delle fabbriche d’armi è tornata alla ribalta con le proteste dei sindacati contro le decisioni di alcuni prefetti che nonostante l’emergenza coronavirus, hanno permesso di continuare a produrre macchine da guerra, come per esempio gli F-35 che si costruiscono alla Leonardo (ex Finmeccanica) di Cameri, in provincia di Novara. In quegli stabilimenti e in quelli di La Spezia dove si producono carri armati e missili terra-aria, il sindacato ha chiesto di fermare le produzioni.

Fotografia dell’Italia che lavora

Se dunque non possiamo fare previsioni certe per il futuro, si può però intanto provare a ragionare sulla fotografia dell’Italia produttiva che emerge dagli ultimi atti ufficiali di un Governo costretto a mettere mano a scelte difficili nell’equilibrio tra salvaguardia della salute e difesa dell’economia. La stesura dell’elenco delle fabbriche da chiudere obbliga la politica a un ripensamento su tutto il mondo del lavoro e la sua centralità.

Nello stesso tempo prendiamo atto di un altro importantissimo ripensamento, quello sul giudizio del lavoro pubblico. Prima dello scoppio della pandemia il luogo comune più diffuso riguardava l’immagine di un lavoratore pubblico assenteista e parassitario. Ora si è capito che i tagli al Sistema sanitario pubblico sono stati tra gli errori più gravi degli ultimi anni. Medici e infermieri, da parassiti a eroi.

Prima di tutto la salute

Il primo elemento riguarda dunque la priorità assoluta data alla lotta alla diffusione del coronavirus per salvaguardare la salute pubblica. È stata certamente una scelta obbligata, ma la si è percorsa fino in fondo. Anche in Italia – com’era già successo in Cina – si è capito quasi subito che l’unico modo per combattere la pandemia è l’isolamento del virus e quindi l’isolamento delle persone e delle comunità.

Inizialmente, quando ancora non si era capita la gravità della situazione e i rischi a cui si andava incontro con un afflusso incontrollato di contagiati negli ospedali, si è cercato di adottare strategie minime. Inizialmente, nelle aree più coinvolte nell’emergenza, le aziende, in particolare quelle con sede in Lombardia, Veneto, Piemonte, Friuli Venezia Giulia ed Emilia Romagna hanno messo in campo protocolli sanitari minimi.

Ma poi si è capito che queste misure minimali non sarebbero state sufficienti. È intervenuto quindi il Governo nazionale che ha bloccato la produzione e ha chiesto a tutti di rimanere a casa. Ovviamente però non si poteva spegnere tutto e per troppo tempo. Per questo è interessante ragionare sulla difficile trattativa tra Governo e parti sociali, sindacati e industriali, sull’elenco delle produzioni considerate davvero indispensabili.

L’elenco delle attività da inserire nel Dpcm con le attività considerate “essenziali” è cambiato infatti tre volte. L’ultimo, quello definitivo, è stato deciso dopo ore di limature e ripensamenti il 25 marzo. Per i segretari generali di Cgil, Cisl, Uil che hanno partecipato alla trattativa e che erano stati già protagonisti della definizione del Protocollo sulla sicurezza (22 marzo) si tratta di “un ottimo risultato” perché sarebbero state respinte le tentazioni di una parte degli industriali che hanno tentato fino all’ultimo momento di allargare le maglie dei permessi per far rimanere aperte le fabbriche.

È stato fatto “un grande lavoro comune ottenendo un ottimo risultato nella direzione di tutelare la salute di tutti i lavoratori e di tutti i cittadini”, si legge in una nota unitaria dei sindacati. Alla vigilia dell’accordo governo-sindacati, era stato il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, a rimettere i paletti al loro posto e a fare piazza pulita di pericolose ambiguità e compromessi. Se non si privilegia la salute dei lavoratori, ha detto Landini in una intervista a la Repubblica (24 marzo), il sindacato sarà costretto a mobilitarsi, fino allo sciopero generale.

Ancora una volta si sono fermati i metalmeccanici

L’accordo dei sindacati con il Governo non è stato ottenuto gratuitamente. È stato anche il frutto (o almeno l’esito finale) di una protesta che si è manifestata subito nel mondo del lavoro. Si sono mobilitati gli operai, ma anche i lavoratori del commercio e del turismo che sono i primi a rischiare visto il carattere delle loro funzioni sempre a contatto con la gente.

I lavoratori pubblici e privati hanno mandato un messaggio chiaro: prima dei risultati economici, prima dei profitti, si deve difendere la salute delle persone. E questa presa di posizione si è manifestata soprattutto nelle zone del Paese più colpite dall’epidemia. Non è casuale infatti l’alta l’adesione in Lombardia allo sciopero dei lavoratori metalmeccanici, proclamato per il 25 marzo da Fiom, Fim e Uilm.

Il messaggio del mondo del lavoro è stato dunque univoco: la salute è prioritaria e non si può sacrificare sull’altare della produzione. Un messaggio che ha unificato tutti i lavoratori ridisegnando una nuova mappa che supera le vecchie categorie di “garantiti e non garantiti”. In prima linea, nella battaglia per la difesa della salute nei luoghi di lavoro, oltre ai metalmeccanici e i chimici, ci sono anche le lavoratrici e i lavoratori del commercio e in particolare gli addetti ai supermercati e ai centri commerciali. Mentre questi ultimi sono stati blindati, i supermercati non hanno mai abbassato le saracinesche e sono rimasti aperti anche di domenica. I lavoratori protestano per l’insufficienza delle misure di sicurezza.

Ma chi sono gli essenziali?

Negli anni Ottanta del secolo scorso, in risposta alle agitazioni e agli scioperi molto diffusi nel settore dei trasporti e in quello della sanità, il legislatore ha introdotto il concetto di “servizi essenziali”, ovvero tutti quei servizi, che anche in caso di sciopero non possono essere sospesi pena la violazione dei diritti costituzionale dei cittadini alla cura e alla mobilità. Sono stati fissati dei livelli minimi delle prestazioni per far rimanere attivi servizi indispensabili come i trasporti in certi orari, il pronto soccorso e altri servizi simili.

Da allora però è cominciato un progressivo svilimento del lavoro pubblico, anche quello nei settori considerati essenziali dal legislatore. Un altro dei paradossi di questi anni: i lavoratori pubblici sono considerati essenziali quando scioperano (i medici, gli insegnanti, gli infermieri, i ferrovieri, eccetera), ma marginali nella normalità. Settori che sono stati penalizzati e relegati a basse retribuzioni (ora la verità emerge dalle testimonianze dei ricercatori e degli “eroi” in prima linea negli ospedali).

Si ritorna dunque ai fondamentali. Potremmo citare qui una frase famosa di un’importante antropologa, Margaret Mead, che rispondendo a una domanda di uno studente su quale fosse stato il primo segno di civiltà in una cultura, disse che il primo segno di civiltà in una cultura antica era stato un femore rotto e poi guarito. Spiegò che “nel regno animale, se ti rompi una gamba, muori. Nessun animale sopravvive a una gamba rotta abbastanza a lungo perché l’osso guarisca”.

Come e cosa produrre

Riscoperta del valore centrale della medicina e del welfare, ora il virus costringe anche a indicare i lavori minimi di base e le produzioni indispensabili anche nell’ambito del lavoro industriale privato. Dalle scelte operate dal governo emerge un primo dato. Sono circa 12 milioni i lavoratori dipendenti considerati “essenziali” nella produzione industriale nel decreto governativo del 22 marzo, all’allegato 1 del Dpcm.

L’elenco è stato studiato da vari osservatori. La Fondazione Di Vittorio, per esempio, ha pubblicato una ricerca in cui si danno dei numeri. “Sulla base dei codici Ateco – spiegano i ricercatori – prendendo in esame senza alcuna eccezione tutte le figure professionali, il numero di occupati nei suddetti settori (dipendenti e indipendenti) è di circa 15,5 milioni, circa i due terzi del totale di 23 milioni 286mila occupati italiani”. Una stima preliminare dei soli lavoratori dipendenti conduce a circa 12 milioni di occupati, il 66% del totale di tutti i dipendenti (17 milioni 956mila).

Altri dati per ricostruire la fotografia d’insieme ci arrivano dall’Istat. Nella memoria inviata al Parlamento, si dice che per effetto del Dpcm del 22 marzo – prima delle ulteriori correzioni decise il 25 – le imprese rimaste attive in Italia sono circa 2,3 milioni su 4,5: il 48,5% del totale, meno della metà. Un numero, che per via dell’elenco rimaneggiato e ristretto seppur in modo selettivo, si è assottigliato. Queste aziende, ha calcolato Istat, generano due terzi del valore aggiunto, ovvero 512 miliardi e il 53% delle esportazioni. Questo significa che l’Italia è stata costretta a bruciare un terzo del suo Pil. Continua a lavorare la metà delle microimprese – sotto i 10 addetti – il 60% di quelle piccole, il 70% delle medie e altrettanto delle grandi sopra i 250 addetti.

In base all’ultimo elenco concordato con i sindacati si sono fermate anche le produzioni di vari altri articoli considerati non essenziali, mentre l’ingegneria civile è stata confermata settore funzionante, ma sono uscite la costruzione di opere idrauliche e la lottizzazione dei terreni connessi con l’urbanizzazione. Si è permesso cioè di continuare a costruire infrastrutture come strade, ponti, autostrade, ma si è fermata la costruzione di abitazioni. Stop anche al trasporto nel settore dei traslochi.

Ma al di là dei freddi elenchi, la pandemia e la paura ad essa legata stanno determinando un ripensamento generale della visione del lavoro e quindi si spera in futuro delle scelte politiche da mettere in atto. Si è ristabilita finalmente la differenza tra prodotto e produttori. Lo ha scritto con chiarezza Gabriele Polo sul sito di Rassegna Sindacale: “Oggi il virus ci spiega semplicemente che le persone al lavoro sono tutte essenziali, mentre non tutti i prodotti lo sono. In mezzo – tra lavoratori e prodotto – c’è la differenza che qualifica il tutto: cosa si fa, in quali condizioni, chi lo decide. E, allora, gli ‘essenziali’ escono dalle tabelle merceologiche e si materializzano in donne e uomini veri. Oggi lo dovremmo capire concretamente.”

Il ritorno dello Stato

In tutto il mondo è tornato in primo piano il ruolo dello Stato in economia. Ne parlano gli studiosi anche sui quotidiani (Mariana Mazzucato, per esempio, ma con lei tanti altri e altre a partire da Laura Pennacchi). L’ex presidente della Bce, Mario Draghi spiega al Financial Times le strategie di intervento. È evidente che senza un intervento degli Stati per fronteggiare la nuova grande crisi si assisterebbe alla debacle definitiva.

In Italia un miliardo e trecento milioni sono stati destinati alla cassa integrazione in deroga per l’emergenza Coronavirus. Fondi che il governo assegnerà a datori di lavoro e lavoratori non coperti da altri strumenti di sostegno ordinario, come stabilito dal decreto “Cura Italia”. Lo ha spiegato la ministra del Lavoro Nunzia Catalfo dopo aver firmato il primo dei tre decreti per assegnare i fondi con il riparto regione per regione. Il decreto fissa quindi le risorse a disposizione destinate ad ogni regione. La Lombardia, al centro dell’emergenza, riceverà l’importo più rilevante con quasi 200 milioni di euro (198,3). Tutti potranno richiedere il sostegno che coprirà la sospensione del lavoro tra il 23 febbraio e il 31 agosto per un massimo di 9 settimane.

Precari, free lance, partite Iva. I più penalizzati?

“Fino all’inizio di marzo i danni economici provocati dall’emergenza coronavirus interessavano qualche centinaio di migliaio di lavoratori, soprattutto al nord, ma con il nuovo decreto i lavoratori interessati dalle conseguenze economiche dell’emergenza saranno milioni”, spiega Andrea Borghesi, segretario generale della Nidil-Cgil, che rappresenta e tutela i lavoratori atipici.

Le categorie di lavoratori che sono e saranno più coinvolte dalla situazione di chiusura di tutte le attività sono proprio quelle con tipologie contrattuali atipiche: i precari, le partite iva, in particolare nel settore dello spettacolo, del turismo e dello sport, centrali nell’economia italiana. “Parliamo di almeno 400mila lavoratori stagionali legati al turismo, migliaia di partite iva e centinaia di lavoratori dello spettacolo e dello sport”.

E poi ci sono da considerare tutti quei giovani che non trovando un’occupazione stabile stanno tentando di aprire attività commerciali di base, tipo negozi di barbiere o rivendite varie. Tutto fermo e destino incerto.

Qualche conclusione

Da questo breve excursus emergono alcune urgenze. Prima di tutto è necessario aggiornare lo studio delle trasformazioni concrete che hanno attraversato negli ultimi anni il mondo della produzione e studiare i nuovi equilibri che si potrebbe determinare tra privato e pubblico (lo Stato rientra per esempio in Alitalia). Si deve fare un nuovo quadro di cosa si produce e delle modalità dell’organizzazione del lavoro dopo la catena di montaggio tradizionale (tornare quindi a ragionare sulle filiere produttive e sulla fabbrica mondo).

L’altra emergenza riguarda la ricomposizione del mondo del lavoro che in questi anni è stato frantumato. È uno degli obiettivi centrali indicati da Maurizio Landini al momento della sua elezione a segretario generale della Cgil. E accanto a questo si tratta di rifare un bilancio serio del ruolo di tutto il mondo del Terzo settore, visto che le cooperative sociali sono messe oggi in forte rischio di sopravvivenza.

Quella della ricomposizione del mondo del lavoro è sicuramente una delle tante emergenze che la grande emergenza coronavirus ha riportato sulle prime pagine dei quotidiani. Ed è anche il cuore dell’idea di varare un nuovo Statuto dei lavoratori che garantisca gli stessi diritti a tutti, a prescindere dalla collocazione nel sistema produttivo e nei servizi.