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L’altra Russia degli obiettori: “Verso la protesta di massa”

Intervista all’attivista Alexander Belik, dall’Estonia a Roma per la Campagna obiezione alla guerra di Un Ponte Per e Movimento Nonviolento. Da il manifesto.

Appena 25enne, il volto da bambino, altissimo ed esile, Alexander Belik potrebbe essere uno dei coscritti della mobilitazione annunciata a settembre da Putin, mandati a combattere, uccidere e morire in Ucraina. Invece è coordinatore del Movimento degli Obiettori di coscienza russi, per il quale lavora dall’Estonia dove si è trasferito il 28 marzo, a un mese dall’inizio dell’”operazione speciale” di Putin. Ieri era a Roma – ospite del Movimento Nonviolento e Un ponte per – nel cinquantennale dell’approvazione della legge sull’obiezione di coscienza in Italia. Per l’occasione, Belik insieme alle associazioni pacifiste consegnerà al Consiglio dei ministri la raccolta firme per l’appello all’Unione europea perché riconosca lo status di rifugiati politici agli obiettori russi, bielorussi e ucraini. Come denuncia Alfio Nicotra di Un ponte per, infatti, tutti i paesi europei con l’eccezione della Germania «hanno chiuso i propri confini agli obiettori russi», e dopo «una prima simpatia sui media» sono sparite le notizie sull’«altra Russia: quella che rifiuta di imbracciare le armi». Con la sua organizzazione sin da prima del 24 febbraio Belik fornisce consulenza a chi rifiuta la leva e la chiamata nell’esercito. Un rifiuto «consentito – spiega – dalla Costituzione russa, anche se si cerca di nasconderlo». Dunque anche nei territori occupati dell’Ucraina e illegalmente annessi alla Federazione: «Prigioni come quella di Brianka, nel Lugansk, dove venivano detenuti e torturati obiettori e disertori, e come continuano a spuntarne in gran numero dopo la mobilitazione di settembre, sono illegali per la stessa legge russa».
Uno degli obiettivi della sua organizzazione, racconta, è quello di «creare alleanze con associazioni della società civile della Federazione». Da quelle dei popoli indigeni – «la maggioranza dei coscritti», una sorta di pulizia etnica di Putin – ai gruppi Lgbtq «colpite solo due settimane fa dalla legge contro la “propaganda omosessuale”». Questioni «strettamente connesse» alle operazioni belliche: «Putin racconta ai russi di combattere nel Donbass contro l’”ideologia Lgbt” occidentale».

Come e quando avete cominciato ad aiutare obiettori e renitenti alla leva?
Sono entrato nell’organizzazione quando studiavo legge all’università statale di San Pietroburgo. Già al primo anno ho deciso che volevo lavorare nel campo dei diritti umani e loro mi hanno accolto. Da quando ho lasciato il Paese ho continuato a lavorare online come facevamo prima, quindi da quel punto di vista non è cambiato nulla, a eccezione del fatto che non posso più incontrare la squadra: gli organizzatori sono sparpagliati in tutto il mondo – Buenos Aires, Madrid, stati baltici… La guerra non è cominciata 10 mesi fa ma 9 anni fa: dal 2014 (anno della guerra nel Donbass, ndr). È da allora che abbiamo cominciato a organizzarci. Prima dell’invasione su larga scala lavoravamo principalmente con coloro che non volevano fare il servizio militare obbligatorio: spiegavamo come fare richiesta per prestare servizio civile, per esenzioni mediche, o come restare in sicurezza senza presentarsi davanti alla Commissione militare dopo la chiamata. Dopo la mobilitazione aiutiamo anche coloro che vogliono abbandonare il servizio anche se sono già stati mandati nei campi di addestramento in Russia, o perfino al fronte: è legale anche in quel caso.

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