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L’Abc dell’inflazione e la credibilità della Bce

Da dove viene l’inflazione e come va affrontata? Lo squilibrio tra domanda e offerta e l’eccesso di liquidità non spiegano l’attuale aumento dei prezzi dell’energia, alla base dei rincari di oggi. E le politiche restrittive della Bce aumentano i rischi per l’economia.

In Italia, il tasso annuo di inflazione (cioè il tasso di crescita percentuale dei prezzi da un anno all’altro) è del 6% circa, al di sotto del tasso di inflazione rilevato nell’Area euro che, secondo i dati riportati dalla Commissione europea, ad ottobre ha raggiunto il 10%. I problemi principali derivanti da tassi di inflazione elevati sono l’erosione del potere d’acquisto e la redistribuzione di reddito dai creditori ai debitori e per questo le autorità monetarie, il cui compito principale (e, in Europa, esclusivo) è quello di preservare la stabilità dei prezzi, cercano di contrastarne l’aumento.

A fronte di questi dati, infatti, la Banca centrale europea (BCE) ha recentemente deciso di alzare dello 0,75% tutti e tre i tassi di riferimento di sua competenza. Si tratta di un aumento piuttosto significativo che, a partire dal 2 novembre 2022, ha portato il tasso sulle operazioni di prestito marginale—overnight— concesso alle banche, il tasso sui depositi delle banche presso la Bce e il tasso sulle operazioni di rifinanziamento principale (quello centrale fra gli altri due), rispettivamente a 2,25%, 1,5% e  2%. Questi livelli sono comunque inferiori a quelli decisi dalla Federal Reserve (FED) americana, il cui tasso di riferimento, il Federal funds rate che si applica ai prestiti overnight della FED al sistema bancario, è oggi compreso fra il 3,75% e il 4%, a fronte di tassi di inflazione corrente intorno all’8% (ma la Fed è stata tradizionalmente sempre più reattiva della BCE nel condurre la sua politica monetaria). Il differenziale dei tassi di interesse a favore degli USA spiega anche il recente apprezzamento del dollaro nei confronti dell’euro. Si ricordi anche quello che successe nei primi anni Ottanta, quando gli alti tassi di interesse americani decisi da Paul Volcker, allora alla guida della FED, portarono il dollaro alla quotazione record di 2,000 lire.

Ma quali sono le cause degli aumenti del tasso di inflazione? 

Non c’è bisogno di essere economisti per sapere che in qualunque mercato (anche in quelli rionali o di paese) i prezzi aumentano quando la domanda supera l’offerta. Quindi una possibile causa di inflazione è appunto un eccesso di domanda sulla produzione esistente. Come dire, se tutti vogliono i miei prodotti e non se ne può aumentare la produzione o al momento non ci sono altri che li vendono, allora chiederò prezzi più elevati e così il tasso di inflazione aumenta.

Questo vale per un piccolo mercato ma anche per il mercato aggregato dell’intera economia: se i prezzi aumentano questo potrebbe dipendere, quindi, proprio da un eccesso di domanda aggregata, che è l’insieme della domanda di beni e servizi fatta da tutti gli agenti economici su tutti i mercati del nostro paese. Di che tipo di domanda si tratta? Per esempio potrebbe trattarsi di domanda di beni da parte dei consumatori e delle loro famiglie, per i loro consumi correnti. Oppure potrebbe trattarsi di domanda di beni di investimento proveniente dal mondo delle imprese.

Un punto importante da aggiungere è che questa domanda aggregata potrebbe essere ‘drogata’, cioè indotta da un eccesso di liquidità che la banca centrale ha immesso sul mercato in precedenza (per esempio quando è stato necessario finanziare il debito pubblico dei paesi in stato di necessità a causa di gravi shock, cioè gravi crisi che si siano verificate, vedi le ingenti immissioni di liquidità fatte dalla BCE per fronteggiare la crisi da Covid-19). E’ abbastanza intuitivo che se le banche hanno a disposizione molta liquidità, molti fondi, allora sarà relativamente più facile ottenere da loro un prestito per fare spese di consumo familiare o spese di investimento imprenditoriale. Non è detto però che questo accada; nonostante l’ingente aumento di massa monetaria avvenuto in Europa i prezzi non si erano mossi fino a che non hanno cominciato a farsi sentire gli effetti della crisi pandemica e di quella militare legata alla guerra in Ucraina. Le banche infatti potrebbero voler detenere moneta e non distribuirla a chi ne fa richiesta perché c’è incertezza sul mercato e temono che il rischio di perdite (cioè il rischio di non riavere indietro i soldi che prestano a famiglie e imprese) sia troppo elevato.

Se su un mercato il prezzo aumenta quando chi offre dei prodotti in quantità limitata si rende conto che la domanda è sostenuta, un modo per ridurre il tasso di inflazione è quello di ridurre questa domanda, cioè di ridurre consumi delle famiglie e investimenti delle imprese. Aumentando i tassi di interesse sui prestiti concessi dalla banca centrale al sistema bancario si indurrebbe a cascata un aumento del tasso di interesse applicato dal sistema bancario agli agenti economici che fanno richiesta di prestiti per i loro consumi e investimenti. Le imprese quindi rinuncerebbero a nuovi investimenti proprio a causa dei più alti costi che dovrebbero sostenere. E così le famiglie, che rinuncerebbero, per esempio, a cambiare l’auto se l’importo delle rate da pagare mensilmente aumenta a causa dei maggiori tassi di interesse. Questo potrebbe voler dire allora che la banca centrale dovrà anche drenare l’eccesso di liquidità dal mercato, per esempio rivendendo sul mercato i titoli di Stato che aveva acquistato in precedenza (titoli che rappresentavano il suo credito verso gli Stati). Così facendo otterrebbe in cambio moneta, che quindi verrebbe sottratta alla circolazione del mercato. A sua volta questa riduzione della quantità di moneta in circolazione ridurrebbe la disponibilità delle banche a fare prestiti, perché ora hanno a disposizione una quantità minore di moneta (sempre ammesso che la maggiore liquidità precedente avesse indotto le banche a dare credito all’economia).

Qui cominciano le complicazioni e le incongruenze. Nel caso dell’Area euro c’è una complicazione ulteriore: quale dovrebbe essere l’aumento del tasso di interesse ottimale deciso dalla BCE, visto che -come abbiamo rilevato all’inizio – all’interno della stessa area si osservano tassi di inflazione diversi?. 

Siamo partiti dall’assunzione che l’inflazione dipenda da un eccesso di domanda di famiglie e imprese, a sua volta alimentata da un eccesso di liquidità. Ma questa assunzione iniziale è vera? Nel contesto attuale non sembrerebbe proprio. Leggiamo quotidianamente di quanto siano aumentati i prezzi dell’energia e di come questo si ripercuota inevitabilmente sui costi delle imprese che sono costrette ad aumentare i prezzi di vendita finali: il prezzo del gas naturale (ne esistono di tipologie diverse) è passato da $1,4/MMBtu (MMBtu = Million British thermal units) agli inizi del 2020 a circa $4/MMBtu all’inizio dell’invasione dell’Ucraina, fino ai circa $6/MMBtu attuali; il prezzo di un barile di petrolio WTI è passato dai $70 circa a fine 2021 agli attuali $90 circa, passando attraverso dei picchi di $120 per barile e con previsioni del FMI che nel 2023 superi ancora i $100 al barile.

E qui siamo ad un possibile paradosso: se alle imprese si fanno pagare tassi più alti sui prestiti che contraggono, queste stesse imprese, nel caso continuassero a chiedere prestiti, dovrebbero aumentare i prezzi dei loro prodotti per coprire i maggiori costi, e quindi l’inflazione aumenterebbe anziché diminuire. Secondo chi ritiene che i tassi di interesse debbano essere aumentati però, questo non accadrebbe, perché le imprese non dovrebbero prendere più quei prestiti in banca, non dovrebbero più fare investimenti, mentre alle famiglie, quando faranno richieste di credito al consumo, si vedrebbero presentare conti più elevati. 

Ed eccolo, un altro paradosso: se l’inflazione non è originata da un aumento eccessivo della liquidità in circolazione, né da un aumento eccessivo dei consumi delle famiglie o degli investimenti delle imprese, ma è dovuta ai maggiori costi dell’energia, allora, come dicono gli inglesi, we are barking at the wrong tree, stiamo abbaiando all’albero sbagliato! Con i maggiori tassi di interesse riduciamo la domanda aggregata, quando il problema invece è dato dai maggiori costi dell’energia. E ci possono essere altre politiche specifiche – controllo dei prezzi, politiche industriali e di approvvigionamento, nazionalizzazione delle imprese etc – che possono affrontare con efficacia il contenimento dei prezzi dell’energia, evitando sia gli effetti inflazionistici sull’economia nel suo insieme, sia gli effetti redistributivi, visto che le persone con redditi più bassi subiscono in misura maggiore l’impatto degli aumenti di questi prezzi.

Inoltre, se effettivamente quei maggiori tassi di interesse scoraggiano gli imprenditori dal fare nuovi investimenti e scoraggiano le famiglie dal fare nuovi consumi, questo sì, potrà ridurre la domanda e allentare la pressione sui prezzi, ma al costo di una forte contrazione dell’attività produttiva. Se non c’è domanda di beni e servizi, chi avrebbe convenienza a produrli?. E dal momento che le previsioni parlano di un’economia mondiale ed europea in rallentamento, di una situazione economica tutt’altro che florida (sia pure con previsioni di tassi di crescita del PIL ancora positivi), abbiamo davvero bisogno di una ulteriore forte contrazione dell’attività produttiva? Certo, fintanto che i tassi di crescita del PIL sono positivi  e il tasso di disoccupazione è in diminuzione (come nel caso dell’Italia, per la quale si prevede che l’attuale tasso di disoccupazione dell’8,4% si riduca a circa l’8,2% nel 2023), la BCE (così come la FED) non avvertirà il peso del  trade-off con l’economia reale (vale a dire non avvertirà il fatto che i tassi di interesse rischiano di deprimere l’economia) e questo spiega gli aumenti robusti dei tassi decisi recentemente. Ma è certo che le cose cambieranno non appena la recessione dovesse affacciarsi in maniera evidente (il FMI non esclude scenari di recessione per molti paesi nel 2023).

I sostenitori della “linea dura” ritengono che i tassi di interesse in Europa debbano essere aumentati anche oltre il limite necessario a riportare il tasso di inflazione sotto il livello del 2% intorno al quale la BCE è impegnata a stabilizzarlo. A loro modo di vedere ciò servirebbe a stabilire in maniera ferma la reputazione della banca centrale, aumentandone così la credibilità anti-inflazionistica. 

Per comprendere questa posizione dobbiamo aggiungere alle possibili cause dell’inflazione, oltre agli eccessi di domanda e ai più alti costi di produzione che si ripercuotono sui prezzi di vendita dei prodotti, un terzo elemento, vale a dire le aspettative degli agenti economici; come dire che l’inflazione dipende sì da fatti misurabili e “reali” (l’eccesso di domanda di beni e servizi sul mercato e l’aumento dei costi di produzione) ma anche da fattori soggettivi e che si auto avverano.

Si può comprendere questo punto pensando ad esempio all’effetto placebo, grazie al quale una persona ammalata che crede fermamente che le medicine che prende l’aiuteranno a guarire (anche nel caso in cui le pasticche che assume non contengano alcun principio attivo) ha maggiori probabilità di guarire di una persona che non prende alcuna medicina. Riportando l’esempio al campo economico: se ci si attende che ci sarà inflazione, porremo in essere comportamenti che l’inflazione, la produrranno davvero. Chi dovesse dare a prestito i propri soldi per un anno se si aspetta che durante quell’anno i prezzi aumenteranno chiederà un tasso di interesse nominale maggiore, in modo da aggiungere al compenso reale per il sacrificio di rinunciare ad usare i suoi soldi per un anno, ciò che serve a compensarlo per l’aumento atteso dei prezzi. Così facendo, il potere d’acquisto dei soldi che riavrà indietro l’anno seguente sarà  indipendente dal tasso di inflazione che nel frattempo si sarà manifestato e aumenterà nella misura del compenso reale che ha richiesto. Allo stesso modo, se i lavoratori si attendono prezzi in aumento da un anno all’altro, allora chiederanno salari nominali più elevati fin da subito al fine di mantenere invariati quelli reali futuri che altrimenti si ridurrebbero con l’inflazione (il fatto che si voglia mantenere il salario reale costante da un anno all’altro vuol dire che, per fare un esempio banale, con il salario futuro che riceveremo si vuole essere in grado di comprare la stessa quantità di pagnotte di pane che compriamo oggi). L’aumento dei salari nominali tuttavia indurrà i datori di lavoro che devono pagare maggiori salari ad aumentare i prezzi dei loro prodotti se vorranno mantenere invariati i loro profitti (del resto una riduzione dei profitti potrebbe indurre gli imprenditori a chiudere la loro azienda, con danni all’intera economia) e così quell’inflazione che i lavoratori temevano si realizzerà davvero.

Diventa pertanto cruciale stabilizzare le aspettative, fare in modo che i mercati (finanziari, del lavoro o dei beni e servizi che siano) non si attendano tassi di inflazione elevati. A tale fine – eccoci arrivati al punto sollevato dai ‘falchi anti-inflazione’ – è necessario stabilire la reputazione e credibilità anti-inflazionistica della banca centrale aumentando i tassi di interesse anche ben oltre la soglia che sarebbe necessaria a riportare sotto controllo il tasso di inflazione.

Il tema della credibilità della politica monetaria è stato centrale nel dibattito teorico iniziato alla fine degli anni Settanta, proseguito per tutti gli anni Ottanta e parzialmente negli anni Novanta.

Diventa centrale, secondo questo approccio, controllare lo stato delle aspettative perché indipendentemente dalla domanda dei beni in eccesso rispetto all’offerta e dai costi che possono fare aumentare i prezzi, come abbiamo visto, questi ultimi possono aumentare anche solo a causa di ciò che gli agenti economici (lavoratori, operatori sui mercati finanziari, famiglie e imprese) si attendono che avverrà in futuro.

Eccoci allora ad un altro assunto: la credibilità anti-inflazionistica di una banca centrale dipenderebbe da quanto quest’ultima fa ‘la voce grossa’ nei confronti dell’inflazione (e non esitare ad aumentare i tassi di interesse ben oltre il livello sufficiente a stabilizzare il tasso di inflazione vorrebbe dire proprio questo). Così facendo le aspettative inflazionistiche sarebbero tenute a bada e si eviterebbe che l’inflazione emerga a causa del comportamento di chi l’attende in futuro, determinando quel circolo perverso di cui si parlava prima. Secondo questo approccio, quel circolo perverso va stroncato sul nascere (negli anni Ottanta una certa terminologia machista identificava con il termine ‘hard nose’ (tosti) i banchieri centrali capaci di fare credibilmente la voce grossa e ‘wet’ (debolucci), quelli che invece non avevano tali caratteristiche). I nuovi falchi dell’ortodossia monetarista propongono di fare quello che definiscono un ‘overshooting’ dei tassi di interesse (va notato però che il termine ‘overshooting’, introdotto per la prima volta nell’omonimo e blasonato modello di Rudiger Dornbusch, viene richiamato per guadagnare maggiori consensi alla proposta, ma del tutto a sproposito, visto che non ha assolutamente nulla a che vedere con l’overshooting’ di cui parlava Dornbusch).

I sostenitori del pugno duro della BCE nei confronti dell’inflazione ricordano anche che la BCE ha nel proprio mandato il compito di mantenere la stabilità dei prezzi, qualunque cosa questo voglia dire. Ma quel mandato così netto, ben diverso da quello che ha la FED, è figlio proprio del contesto teorico maturato negli anni Ottanta, in cui la teoria della credibilità anti-inflazionistica era al proprio apogeo, prima che ne risultassero con chiarezza i limiti.

È di tutta evidenza, infatti, che il perseguire regole fisse, come per noi fu l’adesione al Sistema monetario europeo o come potrebbe essere ora lo stabilire che la Banca centrale non tollererà oltre tassi di inflazione superiori al 2%,  può produrre conseguenze devastanti quando si verificano eventi imprevisti. Le regole devono essere applicate con intelligenza e si deve avere il coraggio di adattarle alle situazioni contingenti che si presentano, come è stato bene dimostrato nella letteratura sulla credibilità che, non a caso, proprio dai primi anni Novanta in poi ha ridotto notevolmente il suo appeal nella comunità scientifica (salvo poi riemergere con il famoso ‘Whatever it takes’ di Draghi…). Le regole non possono essere fini a se stesse, come sappiamo bene noi in Italia, dove, proprio in nome della credibilità anti-inflazionistica, ci ostinammo a mantenere il tasso di cambio fisso con il marco tedesco fino ad arrivare agli attacchi speculativi del 1992 che crearono uno psicodramma collettivo e portarono l’Italia ad uscire dal Meccanismo del tasso di cambio europeo (in una situazione nella quale alla crisi dei cambi si associava pericolosamente la crisi del debito pubblico italiano, quest’ultima riemersa nel 2011-12 con la crisi dell’Area euro).

L’episodio della crisi valutaria del 1992, insieme a molti altri esempi, dimostra con chiarezza che una banca centrale non può aumentare la propria buona reputazione e rafforzare la propria credibilità anti-inflazionistica compiendo azioni che contrastano con quello di cui la comunità che deve servire ha bisogno e che produrrebbero effetti negativi sull’economia. Un articolo di ormai circa 30 anni fa opponeva alla credibilità delle autorità di politica economica, la credibilità delle politiche da esse perseguite. E il punto era proprio che nessuna credibilità può essere guadagnata da chicchessia compiendo azioni che sono di per se stesse non credibili, come lo è certamente l’adottare politiche eccessivamente restrittive che causerebbero tendenze recessive nell’economia. 

La BCE e la FED hanno avuto gioco facile fino ad ora nell’aumentare i tassi di interesse per raffreddare l’economia riducendo i presunti eccessi di domanda o calmierando le aspettative inflazionistiche e contrastare così la fonte inflattiva risultante dai maggiori costi dell’energia, ma non potrà dirsi lo stesso non appena le tendenze recessive, che già sono in atto, si manifesteranno apertamente. Speriamo allora che i falchi ‘hard nose’ non debbano prevalere, suggerendo politiche eccessivamente restrittive che già in passato hanno mostrato tutti i loro limiti.

Zhuhai (Guangdong, Cina), 4 novembre 2022

* Ringrazio Enrico Faenzi, le cui domande e osservazioni mi hanno indotto a scrivere questo pezzo.