Social compact/In Italia la spesa sociale è balzata al 28,4%, ma solo a causa del ricorso massiccio alla cassa integrazione. A farla da padrone, nel nostro bilancio, è la previdenza
La crisi economica globale ha raggiunto il suo ottavo anno e non si intravedono credibili segni di svolta; in Europa le cose vanno peggio per l’inadeguatezza del suo processo unitario e delle politiche comunitarie. Le motivazioni strutturali della crisi non vengono affrontate dai responsabili della governance economica, ancora improntata alla visione neoliberista. Ad esempio, le politiche in atto stanno aumentando ulteriormente l’iniquità distributiva che è tra le cause di fondo della crisi; gli effetti depressivi delle misure adottate stanno ricadendo principalmente sui ceti più deboli.
Il settore finanziario continua ad avere comportamenti essenzialmente autoreferenziali; l’ingentissima liquidità offerta dalle banche centrali crea anche effetti illusori sui mercati borsistici, ma non alimenta le scelte produttive. L’instabilità economica e sociale è sempre più drammaticamente sostanziata da circostanze reali come la carente dinamica della produzione e dell’occupazione, degli investimenti e dei consumi e, in particolare, dal decrescente potere d’acquisto dei lavoratori. La precarietà di vita trova particolare alimento nella crescente disoccupazione giovanile che deprime il presente e pregiudica il futuro; in Italia è circa il 43%.
Le istituzioni nazionali del welfare che pure in Europa hanno attenuato gli effetti della crisi sono esposte ai tagli indicati dalle politiche comunitarie le quali, dopo aver soccorso i bilanci delle imprese finanziarie con pesanti oneri a carico dei bilanci pubblici, adesso chiedono che questi ultimi siano risanati dalle popolazioni tramite politiche di austerità solo a loro riservata. Nel processo d’integrazione europea, le politiche sociali comunitarie hanno avuto un andamento ondivago accentuato dalla crisi; è legittimo chiedersi quale sia diventato il ruolo del Modello sociale europeo nella costruzione dell’Unione.
La Strategia Europa 2020 stabilisce che in Europa entro il 2020 debba ridursi di 20 milioni il numero dei poveri; che, tuttavia, stanno aumentando. D’altra parte, mentre solo un terzo dei paesi membri ha ricevuto dalla Commissione “Raccomandazioni” correttive delle loro politiche di contrasto alla povertà, quasi tutti le hanno subite perché i loro sistemi pensionistici avrebbero problemi di sostenibilità finanziaria; ma non l’Italia, il cui assetto previdenziale è diventato particolarmente virtuoso, ma a scapito della copertura. In Europa, dopo circa un ventennio nel quale la spesa sociale media si era stabilizzata intorno al 26% del Pil, si è verificato un balzo di quasi tre punti nel 2009 che però riflette gli effetti della crisi: cioè l’aumento della spesa per gli ammortizzatori sociali e la crescita ridotta o negativa del Pil. Negli ultimi due anni c’è comunque stato un calo di oltre mezzo punto.
Anche in Italia si è verificata la stessa illusione statistica; attualmente la spesa sociale è pari al 28,4% del Pil, in linea con i valori medi europei. Tuttavia, se confrontiamo il valore pro capite, il nostro paese registra un forte e crescente divario negativo: fatto pari a 100 il valore medio dell’Unione a 15 nel 1995, quell’anno il dato italiano era 84,1, ma da allora è calato fino a 75,8 del 2011. In tutti i paesi europei, tranne l’Irlanda, la voci di spesa più importante è la previdenza (15,1% nell’EU-16); questa voce in Italia è pari al 18,8%, in Francia al 16,5% e in Germania al 13,6%. La superiorità del nostro dato previdenziale di 3,7 punti rispetto alla media europea è tuttavia viziata da diverse disomogeneità presenti nelle statistiche. Ad esempio, l’Eurostat include nella spesa pensionistica italiana i trattamenti di fine rapporto (pari all’1,7% del Pil) che non sono prestazioni pensionistiche. C’è poi che le spese pensionistiche sono confrontate al lordo delle ritenute d’imposta, ma le uscite pubbliche sono quelle al netto. Tuttavia, mentre in Italia le aliquote fiscali sono le stesse che si applicano ai redditi da lavoro per un ammontare trattenuto pari a circa il 2,5% del Pil in altri paesi spesso sono inferiori e in Germania sono addirittura nulle cosicché i confronti operati al lordo sovrastimano i nostri trasferimenti pensionistici che, in realtà, non sono affatto anomali. In ogni caso, dopo le riforme del 1992 e 1995, fin dal 1998 il saldo tra le entrate contributive e le prestazioni previdenziali nette è sempre stato attivo; l’ultimo dato, del 2011, è di ben 24 miliardi di euro. Dunque, il nostro sistema pensionistico pubblico non grava sul bilancio pubblico, anzi lo migliora in misura consistente (pari a sei volte le entrate Imu sulla prima casa!).