Per salvare l’Europa serve “meno Europa”: gli Stati devono riconquistare spazio fiscale e politico. Pubblichiamo un estratto dal libro di Thomas Fazi e Guido Iodice, “La battaglia contro l’Europa” in uscita in questi giorni
Esce oggi in libreria “La battaglia contro l’Europa” di Thomas Fazi (collaboratore di Sbilanciamoci!) e Guido Iodice (coautore di Keynes blog). Il libro è anche acquistabile, scontato, online nei principali store, tra cui: Amazon (anche in formato e-book Kindle), IBS, Feltrinelli (anche come e-book EPUB). Qui di seguito un estratto dal libro.
Molti hanno sostenuto che la vicenda greca avrebbe palesato l’“irriformabilità” dell’Unione Europea e/o dell’unione monetaria. Ci pare una semplificazione eccessiva. Pensare che la soluzione sia farla finita con quel sistema per tornare a un sistema di Stati nazionali in competizione tra loro, senza nemmeno la parvenza di un’“unione” o di una “comunità”, vuol dire non aver colto la lezione greca. Detto questo, è evidente che qualunque progetto di riforma dell’UE e/o dell’unione monetaria – anche qualora si determinassero le condizioni politiche, oggi assenti, per avviare un conflitto interno all’eurozona – è destinato inevitabilmente a scontrarsi con l’intransigenza del blocco ordoliberale. Abbiamo visto nelle pagine precedenti come negli ultimi anni sia emerso in seno all’eurozona un “partito transnazionale” a guida tedesca, economicamente , politicamente e culturalmente molto omogeneo (una sorta di “supereuro”). Abbiamo visto anche come la Germania, dallo scoppio della crisi in poi, abbia capitanato una ristrutturazione radicale dell’eurozona all’insegna dell’austerità e del neomercantilismo estremo, ostacolando l’introduzione di qualunque elemento di flessibilità nella politica economica europea. Abbiamo visto come lo stadio finale – ancora da realizzare – di questo progetto consista nella costruzione di una “unione fiscale” che privi gli Stati nazionali di quel minimo di potere discrezionale che gli è rimasto, senza alcuna compensazione a livello europeo. Infine, abbiamo ipotizzato che la costruzione di questa “nuova eurozona” schäubliana passa necessariamente per l’espulsione – forzata o “concordata” – dall’unione monetaria di tutti quei paesi che per ragioni strutturali sono refrattari al riorientamento radicale richiesto dal modello tedesco.
Alla luce di ciò, è lecito immaginare che, qualora emergesse veramente un blocco di paesi alternativo a quello ordoliberale che si facesse promotore di un emendamento radicale dell’unione monetaria (in una direzione più keynesiana, poniamo), il risultato più probabile non sarebbe l’arretramento della Germania e della sua galassia, ma la frattura dell’eurozona. Ci troviamo, in sostanza, in una situazione piuttosto paradossale, in cui qualunque tentativo di riforma dell’unione monetaria rischia di precipitare la fine dell’unione stessa.
Dovremmo dunque concludere che tale tentativo, proprio perché destinato probabilmente a fallire, vada escluso a priori? Per chi scrive, assolutamente no. Al contrario, riteniamo che dimostri quanto sia semplicistico porre la questione in termini di euro sì/euro no. Il punto, come abbiamo già detto, è come trasformare i rapporti di forza – sia all’interno dei singoli paesi che tra i paesi stessi – per riuscire a incidere sui processi reali invece di subirli passivamente (a prescindere dall’obiettivo strategico che uno si dà).
Abbiamo già spiegato perché riteniamo che sia sbagliato da sinistra porre al centro della battaglia politica l’uscita dall’area dell’euro. Ma anche se si ritenesse che le dinamiche dell’eurozona siano tali da rendere inevitabile una dissoluzione del quadro europeo, che senso avrebbe accelerare quel processo, accettando subito il piano A di Schäuble per affrontare in isolamento i problemi di un’uscita? Come scrive Gabriele Pastrello, «perché scappare come topi dalla nave con la prospettiva di annegare subito da soli, invece di cercare di far emergere in questa crisi uno schieramento che possa proporre eventualmente, se la scelta si imponesse, delle modalità di scioglimento della zona euro ben diverse da quelle di lasciare il campo libero ai piani A o B dei dirigenti tedeschi?».
Per dirla diversamente, riteniamo che quello che determinerà le eventuali “modalità di scioglimento” dell’eurozona non saranno tanto le teorie sviluppate oggi all’interno della bolla idealistica della sinistra, teorie che difficilmente possono tener conto di tutte le variabili esogene che potrebbero mettere in crisi l’unione monetaria un domani, quanto le condizioni politiche concrete che saremo stati in grado di costruire nel frattempo. Il punto è che non ha senso parlare di piani B o C se non si articolano le necessarie leve nazionali ed europee, e se queste non si basano su convergenze e solidi fronti politici transnazionali. Per questo motivo non dedicheremo molto spazio in questo capitolo a un dibattito teorico – quello sulle possibili modalità di uscita, appunto – che ci appassiona poco e che riteniamo politicamente ininfluente, concentrandoci invece su alcune proposte che riteniamo fattibili nel breve.
A questo punto si possono trarre alcune prime conclusioni. La prima è paradossale: per salvare l’Europa e lo stesso euro, nelle attuali circostanze occorre battersi per meno Europa, non di più, al contrario di quanto sostengono i federalisti. In altri termini, gli Stati devono riconquistare spazio fiscale e politico. Spazio fiscale per poter attuare politiche sociali e anticicliche. Spazio politico per dare legittimità a un pluralismo politico interno all’UE in cui anche le forze della sinistra siano legittimate a governare i propri Stati nazionali e attraverso di essi incidere nelle scelte comunitarie. Piuttosto che chiedersi astrattamente se l’euro è riformabile o meno, vale la pena di provare a indicare alcune linee sulle quali potrebbero muoversi (e già si stanno muovendo) le forze progressiste e della sinistra radicale, le uniche che possono a nostro parere interpretare il cambiamento di rotta necessario. Come si può innescare un processo che porti a meno Europa? In primo luogo le forze della sinistra radicale devono arrivare al governo dei propri paesi. Quale che sia la strategia, è fondamentale che le forze di sinistra lavorino alla costruzione di un radicamento sociale profondo, che vada al di là del momento elettorale. Senza di questo SYRIZA non avrebbe mai potuto rimanere al governo. Ma è ancor più vero nel caso in cui esse debbano allearsi con i partiti socialisti, poiché questi ultimi sono tra gli autori del disastro europeo. Un’alleanza Podemos-PSOE non concluderà nulla senza una spinta dal basso anti-austerity e finirebbe come la triste vicenda del secondo governo Prodi, con la comune sconfitta tanto dei radicali quanto dei moderati alle elezioni successive.
In secondo luogo, una volta al governo, le forze della sinistra devono utilizzare tutti gli spazi, anche quelli apparentemente più insignificanti, per portare a casa dei risultati in controtendenza con le politiche di austerità: tornare indietro sulla flessibilità nel mercato del lavoro, redistribuire il carico fiscale dalle classi lavoratrici a quelle abbienti (in questa fase anche a saldi invariati), invertire la tendenza allo smantellamento del settore pubblico (in particolare la sanità e l’istruzione) sono forse le misure più immediate che possono essere realisticamente attuate da un governo progressista. Non si tratta, in questa prima fase, di ribaltare il tavolo, ma di ottenere risultati, anche piccoli ma concreti, che facciano percepire al proprio elettorato la differenza con le politiche delle destre liberiste. E proprio questi risultati sono ciò che può indurre gli elettori di altri paesi a seguire l’esempio, contribuendo a creare – sui fatti e non sugli appelli per un mondo migliore – un blocco sociale transnazionale contrapposto a quello liberista.
Dopo di questo, le forze di progresso devono puntare a conquistare nuovi spazi fiscali, allargando le maglie delle concessioni già in essere. Si tratta qui di giocare anche su più tavoli. Ad esempio, il governo italiano ha proposto un sussidio di disoccupazione europeo, ma è molto improbabile che i contribuenti tedeschi accettino di mantenere i disoccupati italiani e spagnoli. Allora la controproposta, sulla linea del “meno Europa”, può essere quella di uno scorporo, anche parziale e condizionato, delle spese per i sussidi dal deficit, che andrebbe a liberare risorse per altri interventi più incisivi per determinare la ripresa economica, a partire dagli investimenti pubblici, peraltro già in parte scorporati grazie al “piano Juncker”. In questo modo, senza neppure abolirlo formalmente, si neutralizzerebbe in parte il fiscal compact.
Certo, i rivoluzionari ci accuseranno di avere un programma minimo, troppo minimo. Ma, come abbiamo detto, i rapporti di forza attuali tra gli Stati e tra le classi richiedono di restare con i piedi per terra. E d’altra parte ogni singola tassa ridotta, ogni singolo dipendente stabilizzato, ogni singolo ospedale salvato è ciò su cui si verrà giudicati dall’elettorato. Se si vuole ottenere di più, è necessario conquistare consensi e portare sempre più le forze del cambiamento al governo, come è riuscito alla sinistra greca.
Solo dopo tutto ciò si porrà il problema di cosa fare dell’eurozona. E qui le opzioni sono tutte aperte, in teoria. Nella pratica, però, proprio l’esito dello scontro in Grecia ci dice che i generali senza esercito del radicalismo antieuropeo hanno molti meno spazi nella società reale di quanto si potrebbe pensare leggendo i giornali o interagendo sui social network. Se è così, invece di immaginare piani B di fuoriuscita concordata (con chi?) dall’eurozona, che somigliano alle «ricette per l’osteria dell’avvenire» di cui parlava Marx, è il caso di concentrarsi su come, con chi e in quali tempi attuare il piano A. Senza per questo precludersi a ogni esito di una battaglia politica che abbiamo ancora tutta davanti e non certo alle spalle.
È tutto maledettamente complicato e in salita, sia chiaro. Ma nel pessimismo della ragione, a cui sempre occorre improntare le proprie analisi, non possiamo però chiudere gli occhi di fronte ad alcuni segnali importanti, che vengono anche dal mondo fuori dall’eurozona, in primo luogo la nuova leadership laburista del Regno Unito e l’incredibile entusiasmo suscitato dalla candidatura del “reo confesso” socialista Bernie Sanders nella corsa per la Casa Bianca, candidatura che ha costretto persino una centrista come Hillary Clinton a schierarsi nientemeno che contro il libero scambio! L’eurozona non è una monade: ciò che accadrà nei paesi anglosassoni non potrà che avere pesanti (e interessanti) ripercussioni su di essa. Per ora non resta che constatare con amarezza che c’è più sinistra negli Stati Uniti di quanta ce ne sia in molti Stati europei.