Nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza emergono lacune, criticità e incongruenze su architettura istituzionale, riforme, allocazione delle risorse per i progetti e gli interventi verdi. E con esse il dubbio che il Piano possa rivelarsi un’occasione sprecata per assicurare al Paese una ripresa sostenibile.
È il tempo delle scelte. Quante volte abbiamo sentito usare questa frase, come a dare un senso di urgenza e di ineluttabilità a quanto si deve fare. E il fare comunque prevale spesso, in chi enuncia la frase, sul perché e sul come si fanno le scelte: su quali siano gli scopi che ci prefiggiamo e sulla qualità degli interventi che mettiamo in campo.
E se dovessi dire, mai riflessione è più attinente nel periodo certamente e letteralmente straordinario che si apre con l’occasione dell’utilizzo dei 191,5 miliardi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) resi disponibili dall’Europa all’Italia, il paese maggior beneficiario tra quelli dell’Unione. Già, perché siamo tutti consapevoli che con l’invio, la scorsa settimana, del PNRR alla Commissione Europea, che nei prossimi due mesi dovrà esprimersi, la partita è tutt’altro che conclusa, ma è appena all’inizio di un percorso che caratterizzerà il futuro dell’Italia sino al 2026 e che, nelle nostre aspettative, la dovrà profondamente cambiare.
Dal punto di vista ambientale, se volessimo valutare sommariamente le scelte fatte, ci sarebbe oggettivamente da dire che – al contrario di quanto previsto dalla bozza di Piano elaborata il 12 gennaio 2021 dal precedente Governo – nel PNRR trasmesso dall’Italia alla Commissione Europea la scorsa settimana, solo facendo riferimento a quanto assegnato alla Missione 2 del Piano “Rivoluzione Verde e Transizione Ecologica”, la quota di almeno il 37% da destinare ad azioni per il clima e la biodiversità viene praticamente raggiunta, visto che ad essa sono destinati 59,3 miliardi di euro (la quota più significativa delle risorse distribuite tra le 6 Missioni del Piano), pari al 36% dei 191,5 miliardi messi a disposizione dall’Europa.
Il quadro va completato e il suo conseguimento del target indicato va descritto compiutamente affinando l’analisi per materie, come vedremo nella parte conclusiva di questo contributo, dove analizzeremo quale sia la qualità delle scelte compiute e le risorse allocate per realizzare gli interventi delle varie componenti del Piano e conseguire gli obiettivi della decarbonizzazione e della conversione ecologica della nostra economia e della nostra società. Ma rispetto a quali siano gli elementi che condizioneranno il nostro futuro bisogna subito porsi il problema di come il PNRR verrà attuato e, quindi, affrontare con chiarezza il tema degli strumenti amministrativi e normativi messi in campo nel pacchetto di riforme che sono ricomprese nel Piano, per soddisfare le indicazioni e richieste della Commissione Europea.
E anche in questo caso, senza fare lo spoiler del film propostoci dal Governo, quello che dovrebbe interessarci è come “NON deve andare a finire” questa nostra vicenda comune, se davvero vogliamo che si introducano forti elementi di innovazione e di sostenibilità ambientale in un Paese che ne ha un immenso bisogno per non sprecare risorse e giocare la sua sfida competitiva sui mercati mondiali. Per capire come possiamo fare in modo che la ripresa post-pandemia da Covid-19 vada a finire davvero bene, partiamo, allora, da quello che potrebbe essere considerato il secondo tempo del film: cioè proprio da quali siano gli strumenti che saranno messi in campo per implementare il PNRR.
L’architettura istituzionale e gli strumenti amministrativi e normativi
Dal punto di vista del coordinamento tecnico del PNRR abbiamo la conferma del ruolo di coordinamento centralizzato per l’attuazione del Piano, già svolto nella fase della sua definizione, del Ministero dell’Economia e delle Finanze, mentre dal punto di vista politico si è in attesa di capire come sarà definita la Cabina di Regia presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Viene subito da domandarsi quale necessità ci sia di un’ulteriore Cabina di regia, posto che dal gennaio di quest’anno, con l’approvazione del regolamento, è diventata operativa la trasformazione del CIPE in Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica e lo Sviluppo Sostenibile dopo la riforma del 2020, e con il decreto legge di riordino dei Ministeri dello scorso marzo è stato istituito, sempre presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il CITE-Comitato Interministeriale per la Transizione Ecologica.
Quando ci si trova davanti (e su questo in Italia siamo specialisti) alla superfetazione di organismi, quello che viene subito da dire è che il rischio di entropia diventa esponenziale e il fatto che si moltiplichino i centri decisionali per poi decidere al di fuori è tutt’altro che infondato. Non vogliamo essere come quei critici che hanno già capito tutto, ma per favore il Governo ci spieghi quale sia la necessità di aggiungere una nuova cabina di regia a Palazzo Chigi a fronte dell’esistenza di cotanti comitati interministeriali? E poi, al di là della traballante ingegneria amministrativa, quando sarà possibile capire quale forma di interlocuzione permanente pensa di avere il Governo non solo con le forze sociali, ma con l’ampio mondo delle organizzazioni non governative che vengono ricordate solo quando hanno funzioni di supplenza delle inadempienze delle amministrazioni pubbliche?
L’altra cosa che deve spiegare meglio il Governo è quali reali intenzioni abbia sulle ulteriori semplificazioni delle procedure, dopo che con il decreto legge del 2020 si è fatto strame delle regole europee sui contratti pubblici e si è proceduto a creare ulteriore confusione, non necessaria, sulle valutazioni ambientali. Nel PNRR si preannunciano interventi urgenti che tra l’altro andrebbero a riguardare una conferenza dei servizi veloce e la limitazione della responsabilità per danno erariale per i dirigenti e funzionari dell’amministrazione pubblica: tutti e due argomenti già trattati malamente nel decreto semplificazioni dello scorso anno. Non solo, si annuncia una legge delega per la riforma complessiva del Codice Appalti che andrebbe a incidere tra l’altro sul delicato tema delle concessioni, oltre che su quello delle gare.
Vengono subito da dire alcune cose su questi tre diversi aspetti. Innanzitutto, è bene ricordare che il Codice degli Appalti del 2016 – fortemente voluto dall’allora Ministro Del Rio a seguito dello smantellamento della Struttura di Tecnica di Missione da parte della magistratura per fatti di corruzione – che ha avuto il merito di superare l’opaco e improduttivo periodo della Legge Obiettivo, in realtà non è entrato mai pienamente in vigore, perché è cominciato subito uno stillicidio di norme utili non tanto a renderlo più funzionale, quanto a smantellarlo.
Sulla Conferenza dei Servizi, poi, sarebbe davvero curioso capire, dopo il turbo innescato dalla riforma del 2020 sulla Conferenza dei Servizi Semplificata (art. 14-bis della legge n. 241/1990) e la “innovazione” della Conferenza dei Servizi Simultanea (nuovo art. 14-ter della legge n. 241/1990), cos’altro ci sia da semplificare se non obbligare le amministrazioni preposte a dare i propri assensi o nulla osta bendati e con la mano sinistra (come si dice), posto che tra l’altro è stato generalizzato lo strumento del silenzio/assenso.
In merito alla sottile disquisizione, infine, che qualcuno vorrebbe far diventare permanente, su come la magistratura contabile dovrebbe valutare il danno erariale per colpa o dolo nell’azione dei funzionari pubblici è evidente che si entra in un terreno delicatissimo, ma che non può far dimenticare che proprio a causa del vaglio non sempre approfondito dei progetti e degli interventi da parte della pubblica amministrazione spesso la comunità si deve confrontare con lavori pubblici progettati male e realizzati peggio, perché autorizzati con molta superficialità.
Nel PNRR ci si sofferma anche sulla Valutazione di Impatto Ambientale, dichiarando che si vuole dare vita ad una Commissione Speciale di VIA, scelta questa non necessaria e non funzionale nemmeno agli stessi fini della veloce attuazione del Piano. La scelta dovrebbe essere quella di rafforzare la Commissione Tecnica VIA già esistente presso il Ministero della Transizione Ecologica, e non duplicarla e delegittimarla. Non si sente alcuna necessità di crearne dal niente una nuova, che non potrà mai avere il bagaglio di esperienze nella valutazione dei progetti di quella esistente, che comporterebbe il rischio di difformità nelle valutazioni e nelle decisioni e che necessiterebbe di tempi lunghi per la selezione dei suoi membri e per la sua messa a regime.
Anche sui tempi della VIA il PNRR accredita di nuovo – richiamando l’esigenza di riforme d’urgenza con decreto legge a regime con legge delega – la leggenda metropolitana dei tempi lunghi delle valutazioni ambientali, mentre invece i veri ritardi nella realizzazione delle opere sono nei processi amministrativi autorizzativi a monte e a valle della VIA, nella volatilità delle decisioni politiche e nei contenziosi aperti in assoluta prevalenza tra le amministrazioni e le stesse aziende. Tra l’altro, in questo caso qualcuno dovrebbe spiegare cosa ci sia ancora da riformare a fronte delle modifiche già introdotte nel 2020, insieme a quelle sulla CdS, per garantire un canale preferenziale e accelerato ai progetti di competenza statale con il Provvedimento unico in materia ambientale (art. 27 del Codice dell’Ambiente – D.Lgs. n. 152/2006) e su scala regionale con il Provvedimento autorizzatorio unico regionale (art. 27-bis del Codice dell’Ambiente).
Le scelte su ambiente, transizione ecologica e sostenibilità
Come si può vedere, la storia del PNRR è in realtà tutta ancora da scrivere, considerato che il nostro paese, motivatamente, non è proprio conosciuto al mondo per la qualità e la trasparenza delle sue scelte. E allora riavvolgiamo il nastro e torniamo alla sostanza del PNRR andando a valutare quanto siano appropriate e innovative dal punto di vista ambientale le scelte contenute nel Piano trasmesso dall’Italia alla Commissione Europea, che ha assunto la ridondante dizione “Next Generation Italia – Italia Domani”.
È bene ricordare infatti che le Linee Guida della Commissione Europea sui PNRR degli Stati Membri del 22 gennaio 2020 e nel richiamato Regolamento europeo sul Dispositivo di Ripresa e Resilienza (RRF) del 12 febbraio scorso, oltre al target quantitativo di almeno il 37% dell’ammontare complessivo dei Piani da destinare ad azioni per il clima e la biodiversità, evidenzia la necessità che in tutti i campi di intervento sia da evitare rigorosamente qualsiasi danno significativo (do no significative harm) all’ambiente.
Non solo, Linee Guida e Regolamento chiariscono come sia necessario avere progetti di qualità e riforme adeguate per perseguire gli obiettivi europei per favorire la transizione ecologica grazie a: la riduzione del 55% delle emissioni climalteranti al 2030 e il conseguimento della neutralità climatica al 2050; la riduzione dell’inquinamento dell’aria e dell’acqua; la corretta gestione dei rifiuti e delle acque; la protezione e la riqualificazione degli ecosistemi e della biodiversità. Protezione e riqualificazione dei sistemi naturali che devono essere coerenti con la Strategia Europea per la Biodiversità, che, tra l’altro, chiede di proteggere almeno il 30% delle aree terrestri e il 30% delle aree marine dell’UE, ripristinare 25.000 km di fiumi a scorrimento libero e integrare i corridoi ecologici in una vera rete naturale trans-europea.
Ma, allora al di là dei calcoli matematici, andiamo ad analizzare il contenuto delle varie componenti del Piano e la qualità dei progetti proposti. Da un’analisi compiuta dal WWF apprendiamo ad esempio che la percentuale di “progetti in essere” (già messi in campo dall’Italia) se sull’ammontare complessivo del Piano assorbono il 28% delle risorse nel caso della Missione 2 (Rivoluzione Verde e Transizione Ecologica), costituiscono il 38,5% delle risorse a questa assegnate mettendo in predicato la portata innovativa di una parte non rilevante delle scelte in esso contenute.
Entrando poi nel merito di come siano state selezionate le priorità, registriamo nella Missione 2 il peso eccessivo delle risorse assegnate all’“Ecobonus e Sismabonus fino al 110% per l’efficienza energetica e la sicurezza degli edifici” a cui il PNRR assegna 13,95 miliardi di euro, pari al 23,7% dei fondi destinati alla Missione 2 e al 7% dell’ammontare complessivo del Piano. Misura importante ma su cui è il nostro Paese che dovrebbe investire in primis senza togliere risorse a interventi anche più innovativi.
Infine, se si esaminano nel dettaglio i contenuti del PNRR e si approfondiscono i contenuti delle scelte green operate dal Piano emergono i limiti e, di conseguenza, si individuando i margini di miglioramento, che ci si augura che la Commissione europea prenda in considerazione. È sempre il WWF nella sua analisi del PNRR a rilevare quanto segue.
Conservazione della Biodiversità. In un paese come l’Italia la cui biodiversità è tra le più ricche d’Europa, il PNRR dedica un’attenzione che rimane ancora marginale alla biodiversità terrestre e marina assegnando appena 1,69 miliardi, che costituiscono lo 0,8% dell’ammontare totale del Piano.
Scelte energetiche e climatiche. Al sostegno alle energie rinnovabili il PNRR assegna 5,9 miliardi di euro che costituiscono il 3% del Piano, dei quali 2,2 miliardi per la “Promozione delle rinnovabili per le comunità energetiche”, 0,68 miliardi per la “Promozione di impianti innovativi”, 1,1 miliardi per lo Sviluppo dell’agrivoltaico e 1,98 miliardi per il biometano. Ci sono poi 3,19 miliardi per promuovere produzione, distribuzione e usi finali dell’idrogeno, che però non è una fonte energetica, ma un vettore che deve derivare da fonti rinnovabili se si vuole decarbonizzare.
Tutela del Territorio. Alla “Gestione del rischio alluvione e per la riduzione del rischio idrogeologico” sono assegnati dal PNRR solo 2,49 miliardi di euro in 6 anni, che equivalgono all’1,3% delle risorse complessivamente assegnate dall’Europa, tutti destinati a progetti in essere, mentre per la messa in sicurezza del nostro territorio ISPRA – l’istituto di ricerca e agenzia dei controlli alle dipendenze funzionali del Ministero della Transizione Ecologica – calcola che ci sarebbe bisogno di almeno 26 miliardi di euro.
Economia Circolare. In Italia si registra un alto livello di spreco, ma anche una forte dipendenza della nostra economia da risorse importate. Secondo l’ISTAT, l’Italia nel 2019 ha importato oltre 337 milioni di tonnellate, mentre il consumo interno è stato di 484 milioni di tonnellate e il resto esportato. I rifiuti prodotti complessivamente durante il 2018 sono stati oltre 173 milioni di tonnellate: in altri termini, su 3 kg di materiale utilizzato 1 diviene rifiuto. Ma nel PNRR si dedicano a questo settore decisivo per costruire l’economia del futuro solo 2,1 miliardi di euro, pari a poco più dell’1% delle risorse messe in campo dal Piano (perlopiù destinate alla realizzazione di impianti per la gestione del ciclo dei rifiuti).
Agricoltura Biologica. Nonostante il PNRR si prefigga di perseguire lo sviluppo di una filiera agroalimentare sostenibile, migliorando le prestazioni ambientali, la sostenibilità e la competitività delle aziende agricole, il Piano decide di investire 2,1 miliardi di euro nella logistica, nell’Agrisolare o in strumenti tecnologici e macchinari, ma non cita mai l’agroecologia e la priorità dello sviluppo delle filiere del biologico “Made in Italy” per promuovere una vera transizione ecologica dell’agricoltura e della zootecnia.
Il dispositivo RFF (Recovery and Resilience Facility) messo in campo dalla Commissione Europea nell’ambito dello strumento Next Generation EU, come dichiarato dalla Commissione Europea stessa è stato progettato per favorire una ripresa sostenibile e inclusiva, che ricomprenda la biodiversità e contribuisca effettivamente a conseguire gli obiettivi climatici al 2030 e la neutralità climatica dell’Unione Europea al 2050 e gli altri obiettivi ambientali ed energetici. L’Italia deve dimostrare non solo a parole di voler davvero misurarsi con questa sfida.