Gli scienziati avvertono che il tetto di riscaldamento climatico di 1,5° C rischia di essere sfondato a breve. Ma non ci sono buone aspettative per la Cop 28 a Dubai (30/11-10/12). Le lobby del fossile e della chimica si fanno scudo con il negazionismo climatico, con l’Italia in prima fila.
A Dubai, città spettacolo degli UAE, Emirati arabi uniti, è in preparazione la Cop 28, che si svolgerà tra il 30 novembre e il 10 dicembre. Il presidente designato è un maggiorente locale, un principe, H.E. Dr. Sultan Ahmed Al Jaber, che preannuncia così l’avvenimento. “Alla Cop 21 nel 2015 il mondo convenne di limitare il riscaldamento globale a 1,5° C in confronto ai livelli preindustriali, per il 2050. La scienza ci dice che per mantenere l’impegno, tali emissioni devono dimezzarsi per il 2030. Abbiamo solo sette anni per raggiungere il risultato. Cop 28 nell’ UAE è la prima occasione per ripensare, riavviare, rimettere a fuoco l’agenda”.
Il pessimismo diffuso che circonda attualmente il pianeta obbliga a prevedere che il principe, dr. Sultan Ahmed Al Jaber, sia generosamente ottimista. Le prospettive da lui auspicate sono irraggiungibili e questo esito è sicuro dopo la riunione di Bruxelles del 17 ottobre che doveva decidere la linea di condotta dell’Unione europea a Dubai, un mese più tardi. Naturalmente potrebbe sempre verificarsi un capovolgimento nelle scelte degli europei e di conseguenza dell’intero Cop 28.
Se vivremo abbastanza, se scamperemo alle guerre in corso e a quelle che sembrano imminenti, potremo brindare al nuovo assetto della Terra i cui Capi hanno infine deciso per il meglio di tutti: non fare guerre ma provvedere, tutti insieme, ai comuni, ben noti, problemi ambientali: riscaldamento, alluvioni, incendi, siccità.
Le previsioni per Cop 28
Ma stiamo ai fatti, cioè alle dichiarazioni ufficiali dei potenti. Nella sua riunione del 17 ottobre il Consiglio dell’Unione europea ha sollecitato Cop 28 ad agire sul clima. Dopo aver elencato i mali del clima attuale, siccità e inondazioni, incendi e ondate di calore che colpiscono “comunità di ogni continente nel contesto di livelli record di emissioni di Gas Serra”, si passa ad elencare le soluzioni. In questo quadro “sottolinea il bisogno assai urgente di rafforzare la risposta globale all’emergenza climatica, con una significativa accelerazione alle riduzioni di emissioni a Effetto Serra da parte di tutti i paesi e azione di adattamento e sviluppo sostenibile come l’unica via per fronteggiare il cambiamento climatico e assicurare migliori standard di vita e prosperità per le popolazioni di ogni parte del mondo nonché la protezione di natura ed ecosistemi”. Belle parole: non si indica però chi debba “rafforzare la risposta globale”, “fronteggiare il cambiamento climatico”, “assicurare prosperità e protezione di natura ed ecosistemi”.
Gli europei hanno molte incertezze, per dirla benevolmente. Dopo aver lodato, come consuetudine, i risultati raggiunti dall’Ipcc (Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico) con il suo sesto ciclo di valutazione, il discorso si fa concreto. I contributi decisi da ciascuna nazione, presi tutti insieme, “non sono per niente sufficienti a rispettare il tetto di 1,5°C” prima della fine del 21° secolo, anche se scelte di adattamento e il riscaldamento a circa 1,5°C di mitigazione fossero comunque praticabili. Per buon peso, si aggiunge il resoconto del rapporto annuale sul clima decennale dell’Organizzazione Metereologica Mondiale: con una probabilità del 66%, la media annuale della temperatura globale tra 2023 e 2027 sarà maggiore dell’1,5°C rispetto ai livelli preindustriali, per almeno un anno. La conclusione è che per limitare il riscaldamento a circa 1,5°C rispetto al tempo preindustriale si richiedono emissioni globali che raggiungano il massimo prima del 2025 e si riducano per il 43% entro il 2030 e del 60% prima del 2035, confrontando le emissioni a quelle del 2019. Una buona raccolta di speranze molto ardite.
Discussioni accese a Bruxelles sul come e sul perché
La discussione al vertice dell’Unione Europea è stata assai più accesa di quanto non mostrino gli accomodanti, diplomatici comunicati. C’è per esempio la ministra spagnola per la transizione ecologica Teresa Ribera che stando al quotidiano francese Le Monde (18 ottobre 2023, Virginie Malingre) la spiega così: “Certi rari” governi tra cui Varsavia, Budapest, Sofia, Zagabria e Roma “non volevano causare confusione”. C’è da pensare che essi puntassero “a un nuovo obiettivo. I ventisette hanno deciso di non sostenere a Dubai “l’uscita senza condizioni” dai combustibili fossili… Senza giudicare necessaria una data precisa, gli Europei propongono secondo loro un picco di consumi durante il decennio corrente”. Discussione accanita – complessa secondo il giornale – tra due blocchi: ci sono, tra gli uni, Francia, Germania, Paesi Bassi che, come le Ong, si battono per uscire senza condizioni da tutti i combustibili fossili”. Contro, un gruppo di pari forza di paesi tra cui Ungheria, Polonia, Italia, Malta che suggeriscono di non mettere in difficoltà i paesi (anche nell’Unione europea) per i quali l’energia fossile è ancora vitale. Per esempio c’è la Polonia, capofila dei paesi dipendenti dal carbonio – nel suo caso è il carbone sul serio – che non accetta di mettere in calendario la discussione sulla transizione ecologica “vera e propria”.
Prima di tornare brevemente sulla mancata data di calendario sull’uscita dal “fossile” vorremmo mettere in evidenza la posizione di Roma nella discussione generale nell’Unione europea. Il primo pensiero è ovvio: Roma si schiera, anzi prende il comando delle destre europee dichiarate, Varsavia, Budapest, ecc. L’aspetto “politico” è di certo presente, ma non va trascurato un altro elemento, economico e sociale. Intorno alla diatriba “fossile no; fossile no, ma tra un po’”, vi sono aspetti decisivi dell’economia e della società, con i quali Roma è in grave ritardo; più ancora, Roma è dipendente dal sistema industriale italiano, dominato dalla finanza, che soprattutto è la falda, il cappuccio, che copre, dovunque siano orginati, i capitali del nostro paese e che comprendono le Fabbriche, la Borsa, i Giornali; e tutto il resto.
Per evitare di perdere tempo con qualche filosofia della società, argomento superiore alle nostre forze, ci limitiamo a toccare il tema dei prodotti chimici che fanno parte molto intensa della nostra vita attuale.
Le lobby della chimica (e della salute)
Avviene che nella stessa pagina Plànete di Le Monde c’è un articolo ancor più lungo di quello di Malingre. Qui c’è perfino una gran foto di Ursula von der Leyen alle prime armi di presidente della Commissione (2019). Gli autori dello scritto sono Stéphane Foucart e Stéphane Mandard. Come mai – si chiedono i giornalisti – l’Unione Europea non riesce a indicare una data per discutere nel quarto trimestre del 2023 dei prodotti chimici? E rispondono che si tratta di certo di una vittoria delle lobby dell’industria contro la salute e l’ambiente. Vengono anche fatti due nomi di lobbisti e delle relative industrie; nomi che vengono in mente a tutti – esperti o inesperti – dei misteri della Chimica europea. Sono Bayer e Basf, con un codazzo di altri grandi nomi. La scienza si batte con coraggio e dedizione dentro e fuori certi istituti, importantissimi e poco conosciuti al grande pubblico, come Reach oppure Echa (l’uno, Reach, essendo il Sistema di registrazione, valutazione (évaluation in francese) e autorizzazione dei prodotti chimici; l’altro, Echa, Agenzia europea dei prodotti chimici: politico il primo consesso, tecnico-scientifico il secondo; per quest’ultimo (secondo l’ufficio statistico Eurostat) il 74% dei prodotti chimici sono dannosi per la salute o l’ambiente, mentre il 18% sono classificati come cancerosi.
“Vale la pena, vale la pena o no?”
Ma basta! con il citare le brutte cose. Parliamo invece del bello della vita, i soldi. Cambiare i prodotti chimici attuali con altri più rispettosi della salute e del buon senso potrebbe far raggiungere un vantaggio in termini monetari, per mancate spese di salute (mancata salute, cure mediche, ecc.) calcolabile tra gli 11 e i 31 miliardi di euro l’anno, sempre secondo affidabili esperti. Un bel divario, che certo dipende dall’occasione di chimica pulita che rimane nei sogni. Più concreto è l’introito mancato con la trasformazione industriale che eviti decisamente la chimica pericolosa, trasformando processi e prodotti. La perdita di guadagno (entrate) viene calcolata tra 0,9 miliardi di euro e 2,7 miliardi. Va la pena di fare questo scambio?
“Vale la pena, vale la pena o no?”, diceva la canzone di Paolo Pietrangeli. Una canzone che ha per titolo: Era sui quarant’anni. (Era sui quarant’anni e non se ne era acorto)
Ma possiamo noi aspettare altri quarant’anni per decidere il Che fare?