Con il Libro Verde del Ministero delle Imprese e del Made in Italy la politica industriale in Italia prende la via del nucleare, del riarmo, della precarietà del lavoro. Sbilanciamoci! propone una visione radicalmente diversa, con al centro la giusta transizione e un nuovo protagonismo dell’attore statale.
A metà gennaio scorso, con la sua ultima Nota sull’andamento dell’economia italiana, l’Istat ha certificato il calo in termini tendenziali della produzione industriale nel nostro Paese per il ventiduesimo mese consecutivo. Mentre sprofondiamo in una crisi che non sembra avere fine, il Ministero delle Imprese e del Made in Italy batte un colpo pubblicando il suo Libro Verde sulla politica industriale e avviando contestualmente un processo di consultazione pubblica che dovrebbe concludersi, da qui a un paio di mesi, con la stesura di un più dettagliato Libro Bianco.
Lo scorso 28 gennaio una delegazione dell’Alleanza Clima Lavoro animata anche dai rappresentanti della Campagna Sbilanciamoci! ha partecipato alla consultazione sul testo presso il MIMIT. In particolare, Sbilanciamoci! ha presentato un proprio documento sul Libro Verde. La buona notizia è che si torni finalmente – nella speranza che nel frattempo i buoi non siano scappati dalla stalla – a parlare di politica industriale anche da noi, dopo oltre trent’anni di sostanziale arretramento, se non di vera e propria subalternità, dello Stato e dell’azione pubblica nei confronti delle imprese e del mercato riguardo alle scelte che investono le trasformazioni strutturali dell’economia.
Negli ultimi tre decenni i Governi che si sono susseguiti alla guida del Paese hanno sostanzialmente condiviso una linea di politica industriale centrata sulla riduzione della spesa per gli investimenti pubblici, sulla privatizzazione di asset strategici, sulla precarizzazione del mondo del lavoro. Si è scelto di puntare su misure orizzontali e prive di condizionalità di sostegno alle imprese, sulla base di incentivi e sgravi fiscali. Tutto ciò non ha favorito gli investimenti, l’innovazione e l’avanzamento tecnologico, irrigidendo e cristallizzando piuttosto una struttura produttiva che nel complesso del manifatturiero soffre di bassa produttività, scarsa specializzazione sui settori ad alto valore aggiunto e intensità di conoscenza, bassi livelli salariali.
Luce rossa al Libro Verde
L’analisi di Sbilanciamoci! si sofferma su diversi punti critici del Libro Verde del MIMIT associati ad alcuni tra gli obiettivi strategici di politica industriale declinati nel testo ministeriale. Innanzitutto, alla specifica attenzione alla valorizzazione dell’export del manifatturiero italiano e alla proiezione sui mercati esteri dei beni e dei servizi del Made in Italy, non corrisponde un’adeguata riflessione – dal punto di vista dell’indirizzo strategico da perseguire in un quadro di crescenti tensioni e crisi geopolitiche – sulla necessità di sostenere il mercato interno con interventi di stimolo della domanda aggregata, allargando innanzitutto la base occupazionale e i salari.
Peraltro, tra gli obiettivi del testo ministeriale, vi è proprio l’aumento dei redditi da lavoro. Insieme alla bassa crescita e alla produttività stagnante, il tema dei bassi salari viene infatti indicato come uno dei problemi strutturali della nostra economia, e nello specifico come un freno alla competitività: si riconosce dunque la gravità del problema, a partire dalla constatazione che nel nostro Paese si registra un livello salariale tra i più bassi in Europa, livello peraltro fermo agli anni Novanta. Non convince, tuttavia, il modo in cui nel Libro Verde si formula il nesso causale che collega le basse retribuzioni alla scarsa produttività delle imprese: occorre rovesciare tale nesso, evidenziando come una dinamica salariale positiva stimoli quella della produttività, favorendo l’avvio di un circolo virtuoso che passa anche dalle traiettorie di investimento e innovazione delle imprese e ricade sulla valorizzazione della base industriale del Paese.
Per quanto riguarda inoltre la critica mossa nel Libro Verde all’eccessiva rigidità del mercato del lavoro, considerata come fattore di depressione salariale e produttiva, occorre ribadire come le riforme susseguitesi nel nostro Paese dagli Novanta – dal Pacchetto Treu al Decreto Poletti, fino al Jobs Act – siano andate tutte nella medesima direzione di flessibilizzazione e deregolamentazione, con effetti trascurabili sull’aumento dell’occupazione. Il risultato è che in Italia il lavoro non è mai stato così precario come è oggi. A tutto ciò occorre poi aggiungere il problema del rinnovo dei CCNL scaduti, che riguarda ad oggi oltre cinque milioni di lavoratori dipendenti.
In altri termini, il nostro Paese è caratterizzato da politiche di moderazione e flessibilità salariale che sono il frutto di una strategia ultratrentennale sostenuta dall’azione dei Governi e implementata dalle imprese per favorire lo sviluppo economico. Ciononostante, contrariamente a quanto atteso, questa strategia ha inciso e sta incidendo negativamente sull’avanzamento tecnologico, gli investimenti, la crescita complessiva del sistema-Paese, senza portare a un incremento dei salari. Sul fronte della produttività del lavoro (PIL per occupato), questa è aumentata dal 1990 ad oggi solo del 10%, rispetto al 24, 25 e 27% di Spagna, Francia e Germania.
Una strategia di politica industriale capace di confrontarsi con i problemi che frenano lo sviluppo economico dovrebbe fondarsi, piuttosto, sulla consapevolezza che la competitività dipende in modo cruciale dalla qualità degli input e degli investimenti, così da posizionare il sistema produttivo su traiettorie di avanzamento tecnologico. In quest’ottica, una struttura occupazionale più stabile e retribuita favorisce migliori condizioni di lavoro, stimolando la dinamica della produttività. Accanto all’impegno per una politica industriale che sostenga la creazione di posti di lavoro di qualità, c’è assoluto bisogno di proteggere il lavoro e incrementare le retribuzioni.
Più in generale, occorre ripensare i diversi strumenti ora in campo in una visione d’insieme, in un sistema di welfare universalistico che protegga tutti i lavoratori dal rischio di perdita del reddito, garantendo la contribuzione pensionistica e, per quanto possibile, la continuità del rapporto di lavoro. Un sistema integrato di tutela del reddito da lavoro che, inoltre, dovrebbe connettersi alla garanzia della formazione continua e del reskilling dei lavoratori, soprattutto nei settori più colpiti dalle crisi industriali.
Proseguendo nell’analisi critica degli indirizzi di politica industriale prefigurati nel Libro Verde del MIMIT, in riferimento all’obiettivo di conseguire i target della transizione ecologica ed energetica occorre respingere con fermezza il ripetuto riferimento, nel testo, alla necessità di optare per il principio di neutralità tecnologica e di annoverare il nucleare tra le fonti primarie di generazione dell’elettricità su cui la politica industriale dovrebbe puntare per decarbonizzare il nostro apparato industriale e raggiungere il traguardo della neutralità climatica al 2050 e di un’economia con zero emissioni nette di gas serra fissato dal Green Deal.
In secondo luogo, non è affatto condivisibile l’apertura auspicata nel Libro Verde – sempre in nome del principio di neutralità tecnologica – alla sopravvivenza del motore endotermico e al ricorso a biocarburanti e carburanti sintetici come vettori energetici per l’auto. Anche qui, come per il nucleare, vi sono motivazioni legate a costi, tempi, maturità tecnologica e impatto sulle emissioni che squalificano tali opzioni come scelte strategiche per lo sviluppo dell’automotive: una politica industriale ancorata agli obiettivi del Green Deal dovrebbe procedere senza esitazioni, con misure adeguate e una regia pubblica alla base, sulla via di una giusta transizione attraverso l’elettrificazione del trasporto su strada, senza sprecare risorse su produzioni insostenibili o false soluzioni come, appunto, quelle dei suddetti vettori energetici per la mobilità stradale.
Infine, preoccupa molto l’insistenza posta nel Libro Verde sulla necessità di rafforzare l’economia dell’industria della difesa, concepita come un asset strategico, anche dal punto di vista del suo ruolo nell’export e di traino rispetto ai settori produttivi dell’economia civile, che la politica industriale dovrebbe assumere come priorità e su cui è chiamata a puntare per assicurare una prospettiva di sviluppo industriale e di benessere e sicurezza nazionale. Come si legge nel documento di Sbilanciamoci! – che offre una contro-narrazione basata su numeri ed evidenze scientifiche –, si tratta di una prospettiva del tutto sbagliata: investire sulle armi, anziché sulle produzioni civili, non è mai un “buon affare”, né dal punto di vista della sicurezza, né tanto meno dal punto di vista dello sviluppo del Paese.
La politica industriale che serve al Paese
Per Sbilanciamoci!, la politica industriale di cui dovrebbe dotarsi il Paese dovrebbe avere obiettivi ambiziosi, coerenti con le linee di sviluppo dell’industria europea e con le competenze possedute dal nostro sistema produttivo, valutando le possibili sinergie, il rafforzamento delle filiere esistenti e individuando in chiave strategica i nodi e le capacità produttive ora deboli o mancanti, ma che vanno sviluppate. Questa strategia dovrebbe assumere come stella polare la giusta transizione, ambientale, sociale e digitale: la sfida, in Italia e anche in Europa, è quella di creare e sfruttare nuove tecnologie “pulite” e sostituire quelle vecchie e inquinanti, guidando il processo di cambiamento strutturale in corso che riguarda produzioni, occupazione, consumi.
In tal senso, il paradigma tecnologico dei prossimi decenni sarà centrato sullo sviluppo di beni e metodi di produzione eco-sostenibili e a basso impatto ambientale; su processi e produzioni che sfruttano meno energia, meno risorse, meno suolo, con un minore impatto sul clima e sugli eco-sistemi; sullo sfruttamento delle energie rinnovabili; sull’efficientamento energetico e lo sviluppo dell’economia circolare. Si tratta, del resto, di una prospettiva con grandi opportunità sia per la creazione di buona occupazione sia per lo sviluppo scientifico e tecnologico, che potrebbero articolarsi nella sfera delle attività di mercato e in quella delle attività gestite direttamente dal pubblico.
Per favorire un rilancio dell’economia nazionale sui binari della giusta transizione attraverso il riposizionamento delle produzioni su settori ad alto valore aggiunto e su beni e servizi di utilità sociale e a basso impatto ambientale, occorre infatti affidare un ruolo da protagonista allo Stato, con una nuova declinazione del suo intervento nelle sfere di attività economica e del rapporto con il sistema delle imprese. Una vera strategia di politica industriale per il Paese dovrebbe dunque muoversi su queste traiettorie di fondo, guardando in primo luogo al rafforzamento dei comparti e delle filiere della salute e del welfare, del digitale, della mobilità e dei trasporti, della formazione e della ricerca e sviluppo.
Tra le priorità per l’azione di politica industriale individuate da Sbilanciamoci! nella sua contro-narrazione rispetto a quella del Libro Verde, vi è poi il ripensamento del sistema degli incentivi e dei sostegni pubblici alle imprese. Tali interventi vanno effettuati a condizione che le attività svolte salvaguardino il lavoro e costruiscano nuova capacità produttiva e qualificata per il Paese. In un’ottica strategica di politica industriale, la contrattazione sulle formule e le risorse del sostegno pubblico alle imprese dovrebbe essere subordinata alla presenza di determinate condizionalità sociali, economiche e ambientali, senza il cui rispetto verrebbe a cadere la possibilità di acccedervi da parte degli imprenditori.
A titolo esemplificativo, tali condizionalità potrebbero riguardare il vincolo della destinazione degli utili netti agli investimenti tecnologici nell’impresa, la quota di R&S da destinare, i livelli occupazionali e retributivi da tutelare e il rispetto dei CCNL di categoria, la sottoscrizione di progetti di innovazione aziendale per valorizzare il capitale umano, il vincolo della destinazione degli utili agli investimenti tecnologici nell’impresa, l’efficientamento energetico delle produzioni. Altro aspetto chiave è la riqualificazione della domanda pubblica di beni e servizi, anche al fine di creare nuovi spazi di mercato per le imprese attraverso meccanismi di acquisti pubblici che non premino il massimo ribasso dei costi, ma il contenuto di ricerca e produzione, la qualità e il livello tecnologico: una domanda pubblica in linea con i cambiamenti tecnologici e lo sviluppo di prodotti necessari per la realizzazione degli obiettivi prefissati.
Una siffatta strategia di politica industriale richiede un riassetto dei soggetti istituzionali, oggi frammentati e poco incisivi. In tal senso, si potrebbe istituire un’Agenzia per gli investimenti pubblici, ovvero un soggetto pubblico che concentri la responsabilità degli investimenti nelle infrastrutture materiali e sociali, comprese scuole, ospedali e case. Nel ricostruire la base produttiva del Paese è essenziale rovesciare la divergenza tra poche aree dinamiche e un Mezzogiorno abbandonato a sé stesso: la riduzione dei divari tra le regioni italiane dovrebbe essere un obiettivo prioritario di questa Agenzia, mantenendo e assicurando l’obiettivo di una quota predefinita degli investimenti al Sud.
Parallelamente, va rivisto l’assetto delle società partecipate. Le partecipazioni dello Stato nelle grandi imprese – da ENEL a ENI, e via dicendo – sono oggi disperse nelle mani di Cassa Depositi e Prestiti, Ministero dell’Economia e altri soggetti: manca una strategia d’insieme che influenzi le scelte di queste imprese per il loro rilievo nelle politiche industriali del Paese. Da questo punto di vista, sarebbe necessaria la costituzione di una holding pubblica che concentri tali partecipazioni e assicuri una coerenza tra le scelte e i comportamenti delle imprese a partecipazione pubblica e gli obiettivi generali della politica industriale del Paese: sostenibilità ambientale, rafforzamento tecnologico, qualità dell’occupazione.
La politica industriale è inoltre sprovvista di istituzioni adeguate alla complessità e varietà degli interventi pubblici necessari. Cassa Depositi e Prestiti unisce il ruolo di finanziatore degli investimenti pubblici, specie degli Enti locali, a quello di “holding” delle principali partecipazioni dello Stato nelle grandi imprese e a quello di investitore “paziente” in imprese private considerate di rilievo per il Paese: tali funzioni dovrebbero essere distinte, creando una vera Banca pubblica d’investimento che finanzi, anche con capitale di rischio, lo sviluppo di nuove attività su campi ritenuti desiderabili e agisca da intermediario con le banche o prestatore diretto di capitali alle imprese, ripristinando così una funzione di assistenza e sviluppo che le banche private svolgono con sempre minore intensità.
Infine, non si possono dimenticare, qui e ora, le emergenze industriali che affliggono il Paese. Sono ben 34, relativi a vari settori – siderurgia, elettrodomestici, automotive tra tutti – i tavoli di crisi attivi al Ministero delle Imprese e del Made in Italy. Senza una chiara definizione degli obiettivi e degli indirizzi dello sviluppo industriale del futuro – e senza la possibilità di utilizzare una varietà di strumenti – è difficile evitare la prospettiva della chiusura di stabilimenti e della conseguente perdita di occupazione: interventi caso per caso non possono funzionare.
Servono misure innovative e a largo spettro che combinino politica industriale e politiche attive del lavoro, come ad esempio il varo di uno strumento straordinario quinquennale per accompagnare i lavoratori dei comparti in crisi nell’attuale fase di transizione ecologica e tecnologica, da realizzare sulla base di un mix tra contratto di espansione per favorire l’assunzione di giovani, la formazione e la riduzione dell’orario di lavoro. E in alcuni casi occorre pensare a un intervento diretto dello Stato, con l’ingresso nel capitale sociale, al fine di mantenere le attività economiche in Italia, realizzare le necessarie riconversioni e individuare una strategia di medio periodo che preveda anche alleanze con partner internazionali.