Ammantata da parole come “rispetto dei diritti umani”, la Raccomandazione europea del 2 marzo è finalizzata al rimpatrio di un milione fra migranti e profughi irregolari, presenti nel territorio europeo
Che il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa (CdE) l’abbia condannata; che il più recente Consiglio europeo (quello che riunisce i capi di Stato e di governo dell’UE), pur accogliendola «con favore», abbia rimandato ogni decisione nel merito: tutto ciò non attenua la gravità della recente Raccomandazione della Commissione europea. Resa pubblica il 2 marzo scorso, essa è finalizzata al “rimpatrio”, entro quest’anno, di un milione fra migranti e profughi irregolari, presenti nel territorio europeo.
Per sbarazzarsi di questa “eccedenza”, la Commissione suggerisce le misure più bieche, pur dissimulate goffamente dall’abbondanza d’interiezioni quali «rispetto dei diritti delle persone», «in linea con il diritto internazionale e i diritti umani» e simili. È proprio questa retorica della coda di paglia, quindi dell’eufemismo – nonché l’insensato cliché secondo cui le misure suggerite sarebbero volte a «scoraggiare i pericolosi viaggi della speranza verso l’UE» – a rendere più inquietante il testo in questione.
È una retorica che ricorda, nello stile e sia pur alla lontana, quella della «politica del male minore» di cui parlava Hannah Arendt a proposito di Eichmann: il rastrellamento definito come «un problema tecnico», la deportazione come «la questione-trasporti», le morti nei vagoni blindati come «deplorevoli inconvenienti»…
In realtà, tutto è ammesso – per meglio dire, suggerito, in tal caso – pur di raggiungere lo scopo principale: «la riduzione dei termini per i ricorsi» contro i dinieghi di asilo, i rastrellamenti, detti «misure più incisive contro la fuga», la detenzione fino a diciotto mesi, anche dei bambini, in appositi centri che, per carità, «non devono essere dei campi di concentramento», precisa senza pudore Dimitris Avramopoulos, Commissario per le migrazioni.
Tra le raccomandazioni agli Stati c’è quella di «trattenere» (leggi: imprigionare) «le persone che lasciano intendere di non voler ottemperare alla decisione di rimpatrio che le riguarda». Lasciano intendere, si scrive, sorvolando sul fatto che il processo alle intenzioni è la più palese e basilare violazione di ogni diritto.
A coronamento dell’incitamento a compiere rastrellamenti, detenzioni ed espulsioni di massa, v’è un’altra raccomandazione-chiave: quella di «concludere rapidamente i negoziati relativi agli accordi di riammissione con la Nigeria, la Tunisia e la Giordania e cercando di coinvolgere il Marocco e l’Algeria». Evidentemente, alla Commissione europea non è bastata l’esperienza dell’ignobile baratto con la Turchia, siglato in forma di Statement il 18 marzo 2016, del quale abbiamo scritto a suo tempo.
Certo, niente di nuovo sotto il sole: un tal genere di accordi, con i più svariati Paesi terzi, (spesso comportanti l’esternalizzazione delle frontiere e degli stessi centri di detenzione), ha contrassegnato la politica europea su migrazioni ed esodi fin dal 1991, quando gli Stati dello spazio Schengen ne firmarono uno con la Polonia affinché si riprendesse i suoi profughi.
Quanto all’Italia, essa si è distinta negli accordi di cooperazione «per il contrasto dell’immigrazione clandestina» soprattutto con la Libia, durante e dopo il regime di Gheddafi: l’ultimo è il Memorandum d’intesa siglato, il 2 febbraio scorso, col fragilissimo e dimidiato governo di Fayez al-Sarraj. Eppure in Libia – che non ha ratificato neppure le convenzioni più basilari in materia di asilo e di rispetto dei diritti umani – tuttora si praticano gravissime violazioni dei diritti fondamentali e violenze d’ogni specie contro migranti e profughi.
Per parlare della democratica Tunisia, i governi che si sono succeduti finora, dopo la fine del regime di Ben Ali, non sono riusciti a risolvere una sola delle questioni riguardanti i diritti dei migranti e dei rifugiati. Basta dire che è ancora in vigore la legge organica del 2004–6 (3 febbraio), la quale, violando tutti i trattati internazionali in materia, punisce duramente «l’entrata e l’uscita clandestine dal territorio tunisino» e chiunque le «favorisca», fosse pure per ragioni deontologiche o umanitarie.
Né si può dire che la Nigeria sia un paese sicuro, funestata com’è non solo da Boko Haram, ma anche da altre violenze estreme e da conflitti d’ogni genere, che attraversano l’intero Paese. Ciò nonostante, un telegramma, inviato il 26 gennaio 2017 dal Ministero dell’Interno italiano, chiedeva alle questure di Roma, Torino, Brindisi e Caltanissetta, di rendere disponibili novantacinque posti (quarantacinque destinati a uomini e cinquanta a donne) all’interno dei CIE attualmente operativi. Incitando così a una sorta di rastrellamento di cittadini/e stranieri/e irregolari, destinati/e al rimpatrio, in ragione della loro nazionalità: in palese violazione del principio di non–discriminazione, sancito dall’art. 3 della nostra Costituzione, e in spregio della vulnerabilità delle donne nigeriane, potenziali vittime di tratta, com’è ben noto.
In realtà, la linea del nuovo ministro dell’Interno italiano in materia d’immigrazione e asilo sembra aver anticipato giusto quella della Commissione europea, a tal punto che si potrebbe sospettare un’intesa. Infatti, una precoce e quasi puntuale messa in pratica della Raccomandazione è il cosiddetto piano Minniti. Reso pubblico a metà gennaio, è divenuto poi il decreto-legge del 17 febbraio 2017, n. 13 («Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale»).
Uno spirito analogo, una medesima ideologia sicuritaria e disciplinare lo legano a quello del 20 febbraio 2017, n. 14 («Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città»), che, perseguendo l’obiettivo dell’occultamento della marginalità sociale mediante la messa al bando di questuanti, senzatetto, rom, ambulanti e parcheggiatori informali, ma anche tossicodipendenti, sembra un ritorno alle norme penali di ottocentesca memoria contro “mendicanti, oziosi e vagabondi”.
Insomma, come abbiamo scritto più volte, la cosiddetta “crisi dei rifugiati” mette a nudo fino a qual punto stia riemergendo il cattivo passato europeo, quello che l’Europa unita avrebbe dovuto elaborare e trascendere. Conviene ricordare che esso si manifesta anche con le dimensioni abnormi di un’ecatombe di migranti e rifugiati che forse dovremmo cominciare a chiamare genocidio.